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Storie segrete della storia di Napoli
Storie segrete della storia di Napoli
Storie segrete della storia di Napoli
E-book617 pagine10 ore

Storie segrete della storia di Napoli

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Info su questo ebook

Misteri irrisolti, curiosità e leggende di oltre duemila anni vissuti all’ombra del Vesuvio

Napoli è spesso descritta come la “città velata”: un enigma da svelare e nel quale le storie di una millenaria civiltà sono un pozzo senza fondo, al quale attingere senza mai saziare la sete di conoscenza. Per quanto possiamo applicarci, quel velo non riusciremo mai a toglierlo e i segreti di questa città-mondo resteranno senza spiegazione. «Napoli è il mistero della vita, bene e male si confondono, comunque pulsano», sosteneva un artista come Lucio Dalla, conoscitore e amante della città. Questo libro è un invito a un viaggio tra le storie meno conosciute, forse dimenticate, secondarie ma non troppo, di oltre duemila e cinquecento anni vissuti all ombra del Vesuvio. Alla fine di questo excursus lungo strade alternative, vicoli del tempo meno battuti ma non per questo meno affascinanti, sarà possibile comprendere meglio quella che è stata la Storia ufficiale della città e cogliere qualche aspetto non meno importante che ancora sfugge a chiunque ammiri questo luogo fuori dal comune.

Tra le storie napoletane più suggestive e nascoste:

Sant’Aspreno e l’“invenzione” dell’aspirina
Agrippino, quel primo patrono dimenticato
Arnaldo da Villanova e il Graal
All’ombra del Vesuvio
Maria di Durazzo stuprata e vendicatrice
Tirinella e Alvise, i Paolo e Francesca napoletani
Mastro Nicola e lo sdoganamento della pizza
Il figlio del re eliminato da Cesare Borgia
Orge e delitti nel convento maledetto
Simboli occulti a san Domenico maggiore
I vampiri all’ombra del Vesuvio
Il re lazzarone e la licenziosa Lady Goudar
I segreti dell’ordine osirideo egizio
Picasso, Stravinskij e la bravata
In galleria Umberto
L’Olocausto e il terribile destino del piccolo Sergio
Se le mummie aragonesi svelano tumori e altre patologie
La città delle identità celate: Banksy, Ferrante, Liberato
Marco Perillo
È nato nel 1983. Discende da una nobile famiglia partenopea, forse di origine normanna. Ama la sua città come fosse una madre e da sempre nelle sue opere cerca di raccontarne la ricchezza. Giornalista de «Il Mattino», è autore del romanzo Phlegraios / L'ultimo segreto di San Paolo. Con la Newton Compton ha pubblicato Misteri e segreti dei quartieri di Napoli (Premio Tulliola Renato Filippelli e Premio Letizia Isaia), 101 perché sulla storia di Napoli che non puoi non sapere e Storie segrete della storia di Napoli.
LinguaItaliano
Data di uscita1 ott 2018
ISBN9788822726292
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    Anteprima del libro

    Storie segrete della storia di Napoli - Marco Perillo

    Introduzione

    Viaggio nelle vicende rimosse della città-mondo

    Si parla spesso, e a giusta ragione, di Napoli come città velata. Si è già scritto molto a riguardo e anche il cinema, da questo punto di vista, ha fatto la sua parte. Ne asserivamo anche nel mio precedente libro Misteri e segreti dei quartieri di Napoli , seguendo il filo della città. In un luogo stratificato come quello partenopeo, in cui la millenaria storia si mescola al mito, all’arte, all’esoterismo e a una buona dose di oblio, per capire a fondo contraddizioni e ossimori, per non perdere la bussola, occorre scostare il classico velo di Maya e provare a guardare.

    Non è un caso che uno dei simboli preminenti della città sia il Cristo velato di Giuseppe Sammartino, disteso al centro di cappella Sansevero, emblema assoluto di un sito che sembra assorbire di continuo energie nascoste, in cui ogni recesso si presenta come un enigma, un oracolo, e nel quale le vicende di un’antichissima civiltà sono un pozzo senza fondo al quale attingere senza mai saziare davvero una sete di conoscenza. Per quanto possiamo applicarci, quel velo – che sia di Maya o addirittura di Cristo – non riusciremo mai a toglierlo del tutto e i segreti della città-mondo resteranno senza una plausibile spiegazione.

    «Napoli è il mistero della vita, bene e male si confondono, comunque pulsano» sosteneva un artista come Lucio Dalla, profondo appassionato della città. «Non c’è occasione […] in cui Napoli non torni alla ribalta del pregiudizio collettivo, riaccendendo la disputa tra detrattori d’ufficio e difensori di fiducia, quasi che il suo destino sia quello di essere sempre spiegata, interpretata e tradotta» ha invece scritto in un bellissimo articolo apparso sulla rivista «Sette» del gennaio 2018 Diego De Silva, avvertendo che «Napoli è sempre un passo più avanti delle letture che se ne fanno […] e non c’è analisi, inchiesta giornalistica o giudiziaria né opera d’arte che riesca a raccontarla davvero, così come non c’è delitto che non la corrompa nel profondo. La sua bellezza, forse, consiste proprio nell’attitudine a conservare la sua identità, nell’essere sempre altrove rispetto al punto in cui ti aspetteresti di trovarla».

    Eppure noi ci proveremo. Per quanto potremo, cercheremo di sbirciare cosa c’è sotto quel velo per ammirare, almeno in parte, il volto autentico di Partenope.

    Questo libro è un viaggio tra le storie meno conosciute, forse dimenticate, secondarie ma non troppo, di oltre duemila e cinquecento anni vissuti all’ombra del Vesuvio. Il nostro excursus procederà su due binari: il primo è quello degli antichi culti, delle ataviche credenze, di quel paganesimo che non ha mai abbandonato la pur cattolicissima città partenopea. Partiremo da lontano: l’oracolo della sirena, il rapporto con Ecate e il regno delle ombre, la magia attribuita al poeta Virgilio, la tradizione magica egizia importata dagli Alessandrini che poi sfocerà nell’esoterismo di stampo rinascimentale con la nascita delle Accademie, fino allo sdoganamento dell’alchimia operata in antichi conventi e spezierie, giungendo alla nascita delle società segrete, della Massoneria di cui fecero parte personaggi significativi come il principe Raimondo di Sangro, Gioacchino Murat e anche lo stesso Totò.

    Il secondo binario su cui viaggeremo è quello delle storie misconosciute, che sono un po’ il sale dell’immensa cultura cittadina. Storie minime eppure significative per assaporare ogni epoca storica: sant’Aspreno che inventò l’aspirina in un’epoca ancora dominata dai Romani, san Gennaro armato contro il Guiscardo normanno, il figlio segreto dell’audace Corradino di Svevia, la triste fine di figli di re e regine tra Medioevo e Rinascimento, gli scandali alla corte dei viceré, gli intrighi cinquecenteschi, le drammatiche esecuzioni alla Vicaria, le mirabilia dei santi barocchi, le storie sconosciute dei pittori caravaggeschi, gli evirati cantori settecenteschi, i risvolti meno lampanti della rivoluzione del 1799, la passione tutta napoletana per licantropi e vampiri. E poi il sorgere quasi esoterico della malavita ottocentesca, gli aspetti meno conosciuti del doloroso passaggio dal Regno delle Due Sicilie all’Unità d’Italia, fino ai drammatici anni del dopoguerra con la nascita del contrabbando, approdando ai risvolti più sorprendenti dell’età contemporanea, come le ricerche sui tumori effettuate sulle mummie aragonesi a San Domenico Maggiore o il fenomeno delle identità celate nel mondo dell’arte.

    Alla fine di questo excursus lungo strade alternative, vicoli del tempo meno battuti ma non per questo meno affascinanti, forse comprenderemo al meglio quella che è stata la storia ufficiale della città e certamente coglieremo qualche aspetto non meno importante che ancora sfugge a chiunque ammiri questa metropoli fuori dal comune.

    marco perillo

    Storie dell’Antichità

    I Greci e i loro misteriosi culti

    Ferma la nave e il nostro canto ascolta.

    Ancor quest’acqua non solcò nocchiero.

    Senza gustarne la dolcezza…¹.

    La sirena, ovvero un oracolo

    Ogni luogo che si rispetti ha un suo mito di fondazione. E quello di Napoli, come molti sanno, è legato alla morte della sirena Partenope, strabiliante fanciulla ibridata con un uccello, sorella di Ligea e Leucosia, che si tolse la vita poiché Ulisse seppe resistere al suo canto, venendo a spiaggiare sulle sponde dove sarebbe sorta prima Palepolis, poi Neapolis. È l’idea stessa delle sirene a essere legata a quella della morte: incontrandole nel golfo campano gli avventurieri greci, abbandonate le isole pietrose nell’Egeo, si lasciavano andare alla loro promessa di lussuria finendo per morire tragicamente. Ci voleva l’eroe omerico, l’uomo dal multiforme ingegno che introdusse astutamente il cavallo di legno in quel di Troia, per ribaltare la situazione e mutare le donne-uccello da carnefici a vittime, da orgogliose ammaliatrici a vergognosi mostri.

    Eppure i primi coloni ellenici, probabilmente provenienti dall’Eubea, erano inconsapevoli della terribilità di quelle figure, compagne della dea infernale Persefone/Kore, e accolsero le incredibili spoglie di Partenope in un sepolcro degno di nota. La sua venuta su quelle spiagge non poteva essere un caso, e così decisero di chiamare la nascente città col suo nome. La sirena fu vista come una sorta di seme che, piantato, era pronto a dare frutto.

    La sirena vergine, infecondata – scrisse Mario Buonoconto nel suo Napoli esoterica (Newton Compton, Roma 1996) – non può sopravvivere alla sua vergogna e deve morire. Solo morendo il suo grande corpo antropomorfo può fecondare, penetrando nel suolo-madre, il luogo dove sorgerà la città omonima.

    Partenope divenne presto oggetto di culto, rinchiusa all’interno del suo sepolcro; in suo onore fu istituito un agone ginnico che contemplava una corsa con le fiaccole, la lampadodromia. Si svolgeva di notte, attraversando tutta la città facendo attenzione a non far spegnere il fuoco. Al termine della competizione gli atleti, ventiquattro in tutto, gettavano le torce in mare rievocando in chiave simbolica l’arrivo dell’essere numinoso portato dalle onde².

    Ma non vi furono soltanto queste gare – istituite intorno al 420 a.C. dal comandante della flotta Diotimo, seguendo il suggerimento di un oracolo, secondo le tesi del greco Licofrone nel suo Alexandra – in onore di Partenope. Il suo volto fu immortalato su tutte le monete cittadine e libagioni e sacrifici di buoi furono altrettanto offerti a quella che a tutti gli effetti era considerata una vera e propria dea alata, così simile a quelle indoeuropee già venerate dai popoli dell’Anatolia.

    I primi abitanti della città di Napoli non erano andati lontano nell’individuare in quella figura un che di mistico: diverse e sempre legate al sacro sono le origini delle sirene. Secondo una prima versione sarebbero state generate dal corno spezzato di Archeloo, divinità fluviale dall’aspetto taurino; secondo un’altra sarebbero figlie di Forco o Ctonia, dea della profondità della terra; oppure, al limite, sarebbero progenie di una delle muse, forse Calliope, a causa del bel canto. Eppure fu Demetra, secondo la versione di Ovidio, a trasformarle in donne-uccello affinché volassero sulla terra alla ricerca della figlia Persefone/Kore, rapita da Ade. In ogni caso, siamo di fronte a esseri psicopompi, in grado di condurre le anime dei trapassati in un’altra dimensione, spiriti inferi in grado di trasportare i morti nei meandri di un regno sotterraneo.

    E sotterraneo doveva essere il sepolcro-tempio di Partenope, sulla cui ubicazione ancora si dibatte ma che, con ogni probabilità, doveva essere situato nella regione portuale, magari sulla collina di Caponapoli, tra la Somma Piazza, quella del Sole e della Luna, alla foce del mitico fiume scomparso, il Sebeto. Un luogo occulto, fornito di operanti sacerdotesse, che per la sua divina natura con ogni probabilità fungeva da vero e proprio oracolo.

    Che Partenope fosse stato un nume e che avesse avuto un oracolo dentro l’antro dove poi si elevò un cenotafio ce lo dice Dionigi il Periegeta, che visse nel primo secolo dell’era volgare […]. L’Antro e l’Oracolo di Partenope erano somiglianti a quelli dell’Averno e di Cuma, ed erano della stessa remotissima antichità. Vergine era Partenope, e servita da sacerdotesse vergini: Vergine era la sibilla cumana, la quale Partenope rappresentava la costellazione che porta quel nome, e che versa sulle regioni al di qua della zona torrida i benefici del Cielo quando il Sole si ritrova in quel segno³.

    È questa la rivoluzionaria tesi dello studioso molisano Giuseppe Sanchez nella prima metà dell’Ottocento, all’interno del suo libro La Campania sotterranea. Fu lui a collegare la figura della Sibilla cumana – e i cumani, guarda caso, finirono per colonizzare Partenope – con quella della sirena e della costellazione della Vergine, seguendo il fil rouge di quella verginità (da cui lo stesso nome Parthenope) che connoterà altre importanti figure all’ombra del Vesuvio, come il fondatore di una fratrìa cittadina Eunosto e ovviamente il poeta-mago Virgilio. Che sirene e sibille fossero emblemi dei segni astronomici, Sanchez se lo spiega con quella sapienza tutta antica che collegava i cicli degli astri, relativamente alla posizione del sole, al cambio delle stagioni. Ecco perché il Sole – di cui Apollo, veneratissimo a Napoli, era il dio – veniva sommamente festeggiato e con esso il levare della costellazione della Vergine, coincidente col gratificante momento della raccolta del grano. Sanchez ci racconta inoltre che fu Dionisio Afro a spiegare che Partenope fosse propriamente il simbolo della Vergine: a lei, come a Cerere/Demetra, erano offerte le biade. Non è un caso, dunque, che i Greci chiamassero Partehenos quella costellazione.

    Secondo un’altra accreditata tradizione, Partenope potrebbe essere stata non tanto una sirena ma una nobile fanciulla, figlia di Eumelo Falero, mitico componente della spedizione degli Argonauti che approdò sulle coste campane. Eppure anche in quel caso Eumelo non era altri che l’emblema del Sole, nel momento in cui percorreva il segno della Vergine.

    Ambivalente, la nostra bella Partenope. Proprio così. Da un lato legata al mondo infero per il suo rapporto con Persefone/Kore e dall’altro vicina al mondo della Luce e di Apollo – guarda caso la radice syr della parola sirena indica giusto il risplendere di una stella, in quell’ossimoro che è la luminosità notturna.

    Non ci sorprende di trovarci al cospetto di un essere dalla doppia natura, in cui gli opposti coincidono e proprio per questo in grado, più di altri, di prevedere il futuro. E lo faceva, attraverso la sua melodiosa voce, ancor prima di morire, come fece ben capire nel Seicento il canonico Carlo Celano, autore di Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli:

    I vaticini fin da’ tempi antichi eran pronunziati cantando e dalle donne […]. Or le sirene […] scelsero a stanza Capri, luogo marittimo, perché l’acqua credevasi dotata di profetica virtù, ed in quella spiaggia predicavano a’ viandanti il futuro. E siccome l’arte del canto è dono di natura conceduto largamente agli abitanti di questa parte meriggia d’Italia, però fu detto di pronunziar quelle i loro vaticini con tale dolcezza di voce, che uomo ascoltandole dimenticherebbe la consorte, la patria ed i figliuoli, anzi ridurrebbesi a perir di fame in lido straniero, come venne adombrato con i putrescenti cadaveri e con le ossa di che il re d’Itaca vide biancheggiare la spiaggia delle sirene.

    L’oscuro popolo del sottosuolo

    Il buio, la luce. Il passaggio dall’oscurità alla rivelazione, dal grembo alla nascita. Non c’erano luoghi migliori delle grotte, nell’antichità, per favorire i rituali d’iniziazione. E il territorio partenopeo, disseminato di antri in ogni dove, forgiati dal malleabile tufo delle eruzioni flegree, fresco d’estate e più caldo d’inverno, da questo punto di vista era davvero invitante.

    Noti sono i rituali orgiastici in onore di Dioniso che in luoghi ascosi come le grotte del Chiatamone o la più nota Piedigrotta, nel cuore oscuro della Crypta Neapolitana, venivano celebrati in onore del dio del vino. Tanti erano a Neapolis i seguaci della divinità dell’ebbrezza, tra cui la corporazione degli attori provenienti dall’Oriente⁴. Figlio di Zeus e della mortale Semele – ridotta in cenere quando il padre degli dèi si manifestò nella sua sfolgorante e reale sembianza – Dioniso seppe nascere tre volte, l’ultima delle quali fu quando venne fatto a pezzi dai Titani.

    Gli esseri umani giungevano in contatto col suo spirito rivelatore attraverso uno stato d’estasi derivante da una danza sfrenata operata dalle sue seguaci, le Menadi, all’interno delle spelonche. Esse erano letteralmente possedute dal dio e con la loro carica erotica erano capaci di esorcizzare il lato oscuro e represso della personalità degli astanti⁵.

    Rivelazioni divine nel negativo del sottosuolo – luogo in cui davvero si credeva abitassero le divinità – erano relative anche a quella discesa agli Inferi che lo stesso Ulisse, per incontrare l’indovino Tiresia, ed Enea, al fine di ritrovare il padre Anchise, nonché Orfeo, che provò a riprendersi Euridice incantando Ade, operarono sulle sponde del lago d’Averno. Qui, attorno al lago le cui esalazioni sulfuree ammazzavano i volatili – a-ornis, senza uccelli – si aprono diverse grotte, considerate in tempi remoti vere e proprie porte per l’Aldilà.

    Fino a qualche anno fa, in quest’area un tempo selvaggia e tenebrosa, ricca di energie telluriche e situata nei dintorni di Pozzuoli, operava un anziano signore, Carlo Santillo, ex impiegato delle Poste che fungeva da assuntore di custodia della cosiddetta grotta della Sibilla, un camminamento underground – nato probabilmente per scopi militari – al termine del quale si trovano vasche di epoca romana, da cui si diceva che la profetessa, previe abluzioni, emettesse vaticini. Santillo era soprannominato da tutti Caronte, proprio come il traghettatore dell’Oltretomba, e prima di lui erano appellati così i suoi antenati, che accompagnarono in quell’antro immane i viaggiatori del Grand Tour tra Sette e Ottocento. «Scendete di qui, in questa spelunca cantata da Virgilio. Però, attenti, solo per ventiquattro gradini. Contateli bene perché dopo troverete l’acqua dello Stige, il fiume degli Inferi» ammoniva il buon Carlo stringendo in una mano una lampada a gas e nell’altra un bastone col quale indicava una scala che terminava a pelo d’acqua⁶.

    Chissà se questo simpatico vecchietto, coi suoi occhiali spessi, l’immancabile berretto in testa e la compagnia di un cane randagio che chiamava Guagliò, era a conoscenza dei Cimmeri, il misterioso popolo che anticamente abitava proprio quelle grotte, cittadini del sottosuolo un po’ come succedeva in altrettante località dell’interiora terrae come Göreme, in Cappadocia.

    Non è un caso che questa popolazione provenisse con ogni probabilità dall’Anatolia e che avesse scelto cunicoli di terra, pozzolana e tufo per la semplice ragione di sfuggire alla furia esterna dei vulcani. Si racconta che essi non vedessero mai la luce del sole e che le loro case sotterranee, chiamate argille, fossero collegate tra loro. Per chilometri e chilometri si estendevano le loro città capovolte. Plinio il Vecchio ci parla nella zona flegrea dell’esistenza di un villaggio chiamato Cimmerio, dove si viveva essenzialmente creando cavità ed evocando i defunti.

    Il regno di questi personaggi, avvolto dalla caligine, era quello del Tartaro. Silio Italico ci conferma che essi convivevano con le ombre, tanto che il loro principale nucleo abitativo era soprannominato Plutonia. Essi traevano sostentamento proprio dalla divinazione e dall’evocazione dei trapassati. C’era un santuario sotterraneo al quale si recavano parecchie persone che offrivano in dono libagioni; pensiamo all’ariete e alla pecora nera sgozzati da Ulisse, insieme con lo spargere abbondante farina bianca, al fine di evocare gli spiriti defunti e farsi predire il futuro.

    Se Omero conosceva bene questa razza – «Là dei Cimmeri è il popolo e la città, di nebbia e caligine avvolti; mai su di loro il sole splendente guarda coi suoi raggi» – è presumibile che essa sia vissuta in epoca greca, anche perché nel periodo romano, con Agrippa, l’Averno fu disboscato dai suoi inquietanti arbusti per far spazio al Portus Julius. A ogni modo le origini di questa popolazione, come avverte Eoforo, pare che fossero addirittura precedenti alla guerra di Troia.

    Ma Napoli? Cosa c’entra la città con la misteriosa stirpe? Occorre sapere che i Cimmeri non si trovavano soltanto nei Campi Flegrei. Il termine cratere cumano, come confermano Licofrone e Strabone, indicava tutta quanta l’area che da Baia arrivava fino a punta Campanella. Essi dunque erano stanziati un po’ ovunque, anche nei pressi dello stesso nucleo cittadino, come racconta l’umanista Pontano. Secondo il letterato vissuto in epoca aragonese, a Napoli esisteva un vero e proprio quartiere dei Cimmeri, il cui ingresso principale si trovava dalle parti dell’attuale monastero di Sant’Agostino alla Zecca. Della presenza napoletana di tale popolazione abbiamo conferma anche dallo studioso Benedetto de Falco, il quale ci parla di un ingresso ubicato nella zona di Santa Maria a Cimmino, più vicina a Pozzuoli⁷. Questa tesi è citata anche da Giuseppe Sanchez, il quale aggiunge che il termine Cimmaris deriverebbe da un soprannome di Cibele, la dea madre, figlia del Cielo e della Terra. È dunque molto probabile che questo popolo troglodita adorasse tale divinità in un tempio roccioso dalla forma sferica. Più recentemente lo studioso Salvatore Forte, nel suo Rinascimento napoletano e la tradizione egizia segreta, racconta che potrebbero essere stati proprio loro a scavare i primi interminabili cunicoli del sottosuolo partenopeo, impadronendosi del monopolio del tufo e del piperno. Non a caso le prime fonti di sostentamento dei Cimmeri erano proprio le pietre e i metalli, estratti e rivenduti al miglior offerente.

    Al mito dei Cimmeri si associa istintivamente quello della Terra Cava, una teoria esoterica molto in voga tra Otto e Novecento secondo la quale l’interno della terra è abitato da civiltà avanzate e da uomini straordinari; una razza superiore che godrebbe di un’energia particolare e inesauribile dal nome vril. Il regno del sottosuolo ha anche un nome, Agartha, e una capitale, Shamballa, e sarebbe fornito di diversi accessi disseminati un po’ in tutto il pianeta, dall’Amazzonia all’India. Uno di questi, guarda caso, si troverebbe proprio sul monte Epomeo d’Ischia, antico vulcano in zona flegrea cui è legata la leggenda di un gigante sconfitto da Zeus.

    L’inquietante trottola di Ecate

    Nel cuore di Napoli, in ogni vicolo, almeno in un punto, c’è un piccolo Purgatorio, una plastica figurazione delle anime penitenti. Una nicchia delle dimensioni di una cassetta da lettere, spettralmente illuminata da lampadine perlopiù di colore rosso, mostra traverso una spia le nude figure di miseria dei defunti immerse a metà in un bagno di fiamme serpeggianti, i volti contratti dal dolore e le braccia drizzate al cielo nell’atto d’implorare perdono e redenzione⁸.

    Napoli, la città-soglia. Quella in cui le anime dei defunti sono più vive che altrove. Sarà la vicinanza ai vulcani, che sprigiona un’energia particolare, che rende prossimi al concetto del trapasso, o che semplicemente rappresenta l’accesso magmatico a un mondo che è altro. Lo sappiamo: quella partenopea è la città per eccellenza del culto dei morti, specialmente dei poveri trapassati che chiedono preghiere per ottenere la salvezza eterna e che in cambio concedono favori. Ne era consapevole Adrian Wolfgang Martin, intellettuale svizzero che intorno alla metà degli anni Sessanta studiò bene le tradizioni e i misteri della città partenopea. Il suo meraviglioso saggio Giano di Napoli comincia con un capitolo intitolato Discesa nel regno delle ombre , in cui racconta con dovizie di particolari una giornata di devozione popolare nei confronti dei defunti nell’ipogeo della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, in via Tribunali.

    Bisogna essere iniziati ai misteri di Napoli o capaci di leggere segni poco appariscenti per sapere che proprio qui, in mezzo al rumoroso tumulto di via Tribunali si apre una segreta porta, incessantemente varcata, per l’Averno. In questa città bisogna sempre aspettarsi cambiamenti improvvisi per non rimanere, ignari e senza contatto, alla superficie. Bisogna riabituare il nostro udito agli intervalli e ai ritmi di antichi canti corali, dimenticati da tempo immemorabile, alla misteriosa ed estranea eco della tragedia greca che rievoca il fato⁹.

    Martin rivela che ogni lunedì, al termine di una messa dedicata ai defunti nella chiesa barocca, immersa in una violacea luce crepuscolare, cominciava la discesa del popolo nel tenebroso mondo di Ade. Donne vestite di abiti scuri, fanciulle coperte da veli, operai e ambulanti scomparivano nei sotterranei della chiesa dove sono conservati le sepolture e i resti mortali a vista di coloro che non sono più. Molti di questi crani, femori, mascelle sono adagiati su cuscini di velluto o decorati con collane, spille, anelli, fiori di stoffa. Su tutti spicca il cranio di Lucia col suo velo da sposa, una ragazza che legenda vuole sia stata ribelle fino all’ultimo al matrimonio impostole, morendo in circostanze mai del tutto chiarite. Eppure Lucia è ancor oggi una sorta di santa, quasi venerata nell’ambito di una tradizione che il cardinale Corrado Ursi vietò (ma con scarsi risultati) nel 1969. Il perché lo spiega ancora Martin in un capoverso davvero suggestivo che racconta un rituale che sa davvero di antico:

    L’orrendo canto urlato dalle matrone si trasforma poco a poco in febbrile agitazione […]. La povera deficiente e isterica, considerata come ispirata, cade poco a poco in uno stato di trance. Contorce il suo viso scarno, geme, tormentata dal continuo massaggio dei corpi le cui convulsioni la circondano; emette schiume e ulula con voce rauca […]. Con sfrenata curiosità queste donne mantiche si precipitano sugli oggetti più assurdi che scorgono nelle loro annebbiate visioni. Ogni parola, ogni frammento di demoniache immagini viene ghermito, panoramicamente proiettato ed infine reso lucrativo dalla voluttuosa fantasia delle menadi. Esse credono che le anime defunte si manifestino attraverso le smorfie e le allucinazioni della vergine ossessa. Il medium viene costretto a carpire i segreti e la profetica visione dei defunti. I suoi segni e le sue parole servono a trovare i numeri del lotto. I risultati dell’interrogatorio fatto ai morti vengono poi valutati negli scuri angoli dei bassi e collocati nella matematica cabalistica¹⁰.

    Perché proprio a Napoli si attuava – e forse, in qualche recondito luogo, si officia ancora – questo tipo di rituale? Una spiegazione può fornircela il giorno in cui esso avveniva: il lunedì, atavicamente dedicato a Ecate, divinità dell’Oltretomba e signora delle ombre, veneratissima a Neapolis. Non a caso proprio in quel giorno della settimana le donne si recavano negli ossari cittadini – come il noto cimitero delle Fontanelle – per lustrare e ripulire il teschio che avevano adottato. Una pulizia veloce, per evitare che lo spirito del defunto si attaccasse troppo al mondo materiale, impedendo quel limbo necessario a stimolare una grazia in favore del vivente. E quanto fanno rammentare le matrone napoletane – ma spesso, come abbiamo visto, si trattava di ragazze vergini o addirittura bambine, considerate per la loro purezza le più ricettive nei confronti di manifestazioni ultraterrene – le sacerdotesse della signora della Notte, molto spesso associata a Selene o ad Artemide/Diana in versione infera. In suo onore, nell’ultimo giorno di luna, si deponevano offerte di cibi – che venivano poi consumati dai poveri – all’interno di edicole votive disseminate ovunque nella città antica. Il suo successo era dovuto non soltanto al fatto di essere garante del contatto coi trapassati – e in una città nata sulla tomba di una sirena, così vicina all’Averno, non era poco – ma anche dal suo essere protettrice dei marinai, così presenti nell’avamposto costiero.

    I misteri e la magia infernale di questa dea, cui erano attribuiti terrori notturni e fantasmi, si officiavano all’interno di un tempio. Qui la regina del regno dei sogni, avvolta nelle sue grandi ali nere – era figlia di Nyx, la dea della Notte, che da un uovo d’argento fece nascere Eros – veniva evocata attraverso la rotazione di una sorta di trottola magica. Parliamo di un singolare oggetto chiamato Iugx, sul quale erano incisi segni esoterici. Roteando, esso era capace di emettere suoni sinistri che consentivano alle officianti di ricevere visioni profetiche¹¹, un po’ come avveniva per le moderne signore nella cripta del Purgatorio.

    Siamo al cospetto di una divinità che spesso era raffigurata come triplice e rappresentata dal numero tre, associata tra l’altro all’oracolo cumano che, come abbiamo visto, era riferito sia ad Apollo sia alla Luna. Un giardino segreto dove si coltivavano piante magiche si troverebbe nelle sue dimore sotterranee e, come ha scritto lo studioso Massimo Marra, «essa portava aiuto o crudeli vessazioni alle partorienti, ed era effigiata da tre maschere di legno attaccate a un palo e orientate in tre sensi […]. Negli inni orfici essa viene definita protettrice delle strade e dei trivi / celeste, terrestre e marina […]. Sovrana degli inferi, vagava nella notte conducendo seco le anime dei defunti»¹². Una divinità anch’essa psicopompa, in grado di far viaggiare da un mondo all’altro, non a caso spesso raffigurata con una torcia per illuminare il mondo sotterraneo.

    Ma dov’era situato, nella Napoli greco-romana, il tempio di Ecate? Per alcuni studiosi doveva trovarsi sempre sulla collina sacra di Caponapoli, poco distante dall’oracolo della sirena e dal tempio della dea Fortuna. Eppure, dal punto di vista archeologico, vi sono poche certezze. A noi piace pensare che fosse ubicato poco distante dal tempio di Diana, sull’attuale via dei Tribunali, proprio dove oggi sorge la chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio. È solo una suggestione, in una strada dove erano situati diversi templi – pensiamo anche a quello fondamentale dei Dioscuri in piazza San Gaetano, poco oltre. È solo un onirico sogno, un perfetto e ipotetico modo per chiudere il cerchio, certamente degno di tale dea.

    L’enigma di Pitagora, di Ercole e dei serpenti

    La famosa strada di Forcella ha, con la sua ramificazione, impresso allo stemma del quartiere il segno Y. Il popolo afferma che solo Pitagora avrebbe aggiunto la ypsilon all’alfabeto, «quando la sua scuola era famosa a Napoli». Per lo storico, questo trapianto del crotonese e del suo circolo di allievi manca naturalmente di veridicità. La leggenda ha però un significato sovrannaturale, simbolico. Accenna alla presenza determinante dello spirito pitagorico, del perenne pensiero speculativo¹³.

    Aguidarci sono sempre le parole del Martin. Nel suo capitolo dedicato a Forcella, oggi tristemente nota per le vicende di camorra ma da sempre vero e proprio scrigno di memorie antiche, lo studioso ci racconta della bipolarità del pensiero pitagorico, in cui apollineo e dionisiaco erano perfettamente collegati tra loro nell’unità della creatura umana. Ecco perché Napoli, il luogo degli opposti coincidenti, non può essere che pitagorica. Forcella su tutte, il posto in cui la Y si fa concretezza in una suggestiva biforcazione; dove due opposti rami convergono in un unico imbocco di strada. Eccolo, in concreto, constatabile ancor oggi tra palazzi rovinati e panni stesi, il bivio della scelta tra bene e male, tra virtù e peccato, lo sdoppiamento del principio unitario, il mondo invisibile contrapposto a quello materiale.

    Che fossero davvero presenti o meno tra i decumani di Neapolis, gli adepti pitagorici erano davvero convinti che la Y rappresentasse la sintesi della perfezione assoluta. L’intero quartiere sarebbe quindi dedicato a una sorta di divinità matematica: ciò non deve stupirci, se è vero che Pitagora fondò nel 530 a.C. la sua scuola sull’esempio delle comunità orfiche e delle sette religiose d’Egitto e Babilonia, come spiega Vittorio Del Tufo¹⁴. Un segno fondamentale, talmente connaturato nel nome e nella geografia del luogo da divenire il simbolo del medievale Seggio del quartiere, una Y accanto alla quale campeggia il motto Ad bene agendum nati sumus, siamo nati per fare il bene.

    Singolare pensare come a un passato in cui si sceglieva la via dell’operosità del bene sia contrapposto un presente connotato dalla negativa presenza di quella paranza dei bambini che tanto ha fatto discutere, giovanissimi boss che hanno tentato l’ascesa criminale emulando i padri. A Forcella non c’è solo il male, ma tante persone perbene che sbarcano il lunario come possono, nonché molte iniziative sociali.

    In antichità, in quella zona, sussisteva un famoso tempio dedicato a Ercole, l’eroe che si dice sia passato di qui dopo la sua ultima fatica, il rapimento dei buoi al gigante Gerione. L’immortale era veneratissimo dai maschi e dal suo culto le donne erano escluse: forza e sapienza, nonché grandi virtù etiche, connotavano i suoi officianti. Tra l’altro Ercole – come spiega Sigfrido Höbel – «compiendo le sue dodici fatiche che corrispondono ai mesi dell’anno solare e ai segni del cerchio zodiacale, scaccia le tenebre della barbarie, eliminando gli essere mostruosi, selvaggi e prepotenti»¹⁵.

    Sempre a Forcella si trovava l’ara di Esculapio, il dio della medicina, dalle parti dell’attuale chiesa diroccata di Santa Maria ad Agnone. Qui fu ritrovato un particolare marmo sul quale era scolpito un serpente nell’atto di avvicinarsi a un’ara. Il serpente era l’animale caro a Esculapio – non a caso ancor oggi è un simbolo che scorgiamo nelle farmacie – e lo stesso nome di Agnone potrebbe derivare da anguis, per l’appunto serpente. Il rettile assumeva chiaramente il significato della speranza di guarigione: cambiando pelle, esso è in grado di riacquistare il vigore perduto.

    A tal proposito, sempre a Forcella, è legata un’antica leggenda che riguarda Virgilio, il poeta che a Napoli è considerato un mago. Tra i suoi incantesimi più noti vi è la liberazione della città dai serpenti; il vate che accompagna Dante nell’aldilà vi riuscì catturando la serpe più grande proprio a Forcella, interrandola per diversi metri. Con l’avvento del Cristianesimo tale diceria non poteva più essere tollerata, ma la leggenda non venne offuscata: al posto di Virgilio la liberazione dei serpenti fu attribuita alla Madonna. Ecco perché, in seguito, sarebbe sorta la chiesa di Santa Maria ad Agnone.

    Lo spaventoso dio dalle sembianze di un toro

    Chi era quella particolare divinità che si venerava a Neapolis, il cui culto era collegato al simbolismo solare, dall’aspetto di un grosso toro ma dal volto di un uomo barbuto, coronato dalla Vittoria alata? Si chiamava Hebone e il suo spaventoso aspetto è giunto a noi grazie al dorso di alcune antichissime monete cittadine dov’era raffigurato, mentre dall’altra faccia della medaglia spiccavano i volti di Partenope o di Atena. Parliamo di una divinità alter ego di Dioniso, capace di racchiudere in sé tutte le energie della vita e della natura. Hebone è una tipicità tutta napoletana: solo qui il dio dell’ebbrezza era venerato sotto tale nome e in tale aspetto.

    Anche il suo culto, ovviamente, era a carattere iniziatico, come ci fa sapere in un’iscrizione che elogia Plozio Glycerio, eletto a far parte del consiglio dei Laucelarchi, consacrato al sacerdozio in onore di tale dio¹⁶. Da un’altra iscrizione, una dedica all’alto magistrato Gaio Giunio Aquila, scopriamo grazie agli studi dell’archeologo Mario Napoli che Hebone era chiamato Epifanestatos, ovvero grandemente appariscente, e che in città aveva un vero e proprio collegio sacerdotale, anche numeroso.

    Difficile individuare oggi dove potesse trovarsi il suo tempio, checché Bartolommeo Capasso lo avesse identificato nel declivio tra via San Severino e i vicoli di Miroballo scomparsi col Risanamento ottocentesco. Capasso specifica che all’interno del tempio si notava un’ara rotonda sul cui esterno erano scolpite insieme col nume taurino le sirene e la divinità fluviale del Sebeto. Non sapremo mai se il grande conoscitore della Napoli antica quel tempio, a oggi mai riscontrato archeologicamente, lo abbia visto o meno. Tuttavia ce lo descrive in dettaglio, raccontandoci che esso era forgiato in opere in laterizio e reticolato, era contraddistinto da muri costruiti in grossi blocchi di tufo, che addirittura vi erano stucchi e pitture alle pareti e mosaici sul pavimento le cui illustrazioni erano destinate all’iniziazione di piccoli e grandi misteri. Probabilmente all’interno della struttura doveva esserci una vasca per le abluzioni dopo le astinenze di preparazione, necessarie per avvicinarsi ai riti. Le cerimonie erano presiedute da un sacerdote che per compiere le purificazioni faceva porre i piedi del novizio sulle vittime sacrificali. Infine il mistagogo, figura sacerdotale che dava le prime istruzioni agli iniziandi, dopo alcune interrogazioni e relative risposte esigeva un solenne giuramento¹⁷.

    La compresenza di Hebone con le sirene e il Sebeto non stupisce un esperto come Sigfrido Höbel, il quale evidenzia come il simbolismo taurino sia spesso collegato a divinità fluviali. Per questo motivo nel Toro confluiscono sia elementi solari che lunari, a causa della forma lunare delle corna e per il suo rapporto con la potente fecondità animale. Non a caso il volto barbuto di Hebone indicherebbe il momento in cui l’irradiazione solare raggiunge la sua massima potenza nel solstizio d’estate, cui corrisponde la magica potenza della natura cosmica¹⁸.

    Afrodite, Atena, Orione e altri rituali marini

    Ce la immaginiamo mentre nacque da una spuma bianca nella quale si trasformò il membro virile di Urano, scoperto da Crono mentre era in amplesso amoroso con Gea, signora dalla Terra. Dalle spumeggianti acque di Cipro sorse lei, l’abbagliante Afrodite/Venere, dea dell’amore, della sessualità, della fecondità, della bellezza, un po’ come Botticelli ce l’ha rappresentata nel suo capolavoro agli Uffizi. Esiodo ci racconta quel che accadde appena dopo nella sua Teogonia :

    La potenza di Zeffiro, l’umido stormitore, duttile la rapì dalle onde del mare che sempre scroscia. Le Ore dal diadema d’oro salutanti la coprirono di vesti immortali, il capo le cinsero del serio d’oro mirabilmente intrecciato. Nel forellino del lobo d’orecchio le misero fiori preziosi d’oro e ottone, indi ornarono il delicato collo e il seno lucente di collane d’oro di cui esse stesse si fregiano, allorché, cerchi d’oro nei capelli, si recano all’amena danza degli dei e alla casa del padre. Compiuta l’opra, portarono Afrodite, tutta splendida com’era ornata, agli immortali. «Benvenuta» essi esclamarono, porsero la man destra e ognun la desiderò quale sposa da condurre alla propria magione. Stupore così e meraviglia destò Citerea dalle ghirlande di violette.

    Essendo nata dal mare, tale divinità non poteva che diventare protettrice dei naviganti e di tutti quegli uomini che anticamente col mare avevano a che fare, come i pescatori. Varie erano le forme in cui questa dea, protettrice anche degli animali e delle piante, era adorata. Platone, per esempio, ci parla di due tipi di Venere: Urania, rappresentante il cielo e l’amore puro, e Pandemia, quella dell’amore volgare. Eppure c’erano altre declinazioni; a Napoli, in particolare, esisteva un culto che probabilmente risale ancor prima della fondazione della città: quello di Afrodite Leucothea, dea che assicurava una felice navigazione e che era in grado di contrastare i pericoli del mare. Furono i Rodii, navigatori veri, a introdurlo sulle nostre sponde, se è vero che lo stesso credo è stato riscontrato in altre colonie, come a Velia, o se col nome di Leucothea è identificata un’isoletta non lontano da Capri, da differenziare da quella di Leucosia posta di fronte all’odierna Punta Licosa.

    A Neapolis il culto di questa singolare versione di Afrodite è attestato da un’interessante epigrafe rinvenuta in un ipogeo sepolcrale ellenistico al di sotto del palazzo Di Donato, in via dei Cristallini ai Vergini, nel quartiere Sanità. Come spiega la studiosa Francesca Barrella, nell’entroterra campano col passare del tempo la devozione si associò a quella per la Mater Matuta, dea del mattino e dell’aurora, protettrice della nascita degli uomini e delle cose, le cui meravigliose sculture in tufo sono oggi ospitate nel museo campano di Capua.

    Restando sulle sponde partenopee, il culto per Leucothea mutò successivamente in quello per Afrodite Euplea, appellativo che richiama letteralmente il concetto del navigare serenamente. Due erano i tempi in onore della dea che sorgevano, anche a mo’ di fari, sul promontorio di Pizzofalcone e su uno degli isolotti della Gaiola, il paradisiaco scorcio marittimo sotto la collina di Posillipo. Scontato che a erigerli fu gente che aveva a che fare con il mare e che voleva propiziarsi tale dea per rendere feconde le proprie attività. In tal senso, lo studioso Sigfrido Höbel ha dato vita a una suggestiva ipotesi secondo la quale in onore di questa Afrodite marina esistesse una vera e propria confraternita di pescatori. Non sarebbe un caso che l’abbigliamento tradizionale dei pescatori partenopei, con il berretto frigio, la spalla e il ginocchio scoperti, faccia pensare alla tenuta di un iniziato, visto che questa caratteristica è ricorrente in diversi riti d’iniziazione¹⁹. Ecco come si spiegherebbe la devozione dei pescatori del borgo di Santa Lucia, situato proprio sotto Pizzofalcone, per la stella del mattino, forma cristianizzata dell’antico culto di Afrodite.

    Contrapposto a quello delle sirene, era in voga nella Napoli greca il culto di Atena Sicula, il cui tempio era situato sull’estremità di Punta della Campanella, proprio dove si aprono le perniciose bocche di Capri, in prossimità delle quali era identificata la dimora di Partenope e delle altre sirene. Sappiamo che Ulisse, iniziato devoto alla dea della saggezza e dell’ingegno, simbolo della ragione che vince qualsiasi forza bruta, riuscì a non farsi incantare dai mostri marini. Ma non solo; Omero ci racconta che la dea, proprio come Leucothea, era intimamente legata all’aithyia, uccello litoraneo omologo del pescatore e del navigante, e che sotto tale forma emerse dal mare nel pieno di una burrasca procurando salvezza ai marinai di Ulisse sorpresi non lontano dalla terra dei Feaci.

    A Neapolis circolavano diverse monete recanti il volto di Pallade, ovvero Atena raffigurata come guerriera, nell’atto di lanciare l’asta e ricoperta dall’elmo. Probabilmente a volerle furono gli Ateniesi, assai devoti alla dea, la cui egemonia si concretizzò in un periodo successivo a quello della fondazione. Mario Napoli ci racconta del ritrovamento nella zona di Porta Capuana di un’iscrizione datata i o ii secolo d.C. in cui si ricorda Domitia Callista, sacerdotessa di Atena Sicula. L’iconografia del bassorilievo raffigura un uomo mentre saluta una donna dal capo velato, in presenza di un bambino nudo. «Domitia Callista – si legge – sacerdotessa di Atena Sicula divenuta pubblica per volere del consiglio». Eppure, fatta eccezione per un brano di Pausania che attesta la venerazione per Aithyia sullo scoglio di Megaride, non abbiamo prova che in città sorgesse un tempio dedicato alla potente figlia di Zeus. È probabile che la stessa Domitia Callista, pur venendo spesso a Neapolis, operasse nell’Athenaion sorrentino, tra i luoghi di culto più importanti di tutto il Tirreno²⁰.

    Racconta Francesca Barrella che una delle scoperte recenti più accreditate dell’archeologia tirrenica è il ritrovamento di un’epigrafe rupestre di grandi dimensioni in lingua osca che conferma l’ubicazione dell’antico tempio sulla Punta Campanella. Qui sono menzionati nomi e patronimici di tre meddices, alti magistrati devoti ad Atena, fautori in suo onore di opere pubbliche. Probabilmente questo tipo di culto cadde nell’oblio durante gli ultimi anni della Repubblica, anche se il nome latino della dea continuò per secoli a caratterizzare il promontorio di Punta Campanella, come si legge nei documenti medievali che riguardano la torre di avvistamento, in Boccaccio nel Decamerone e nei vari portolani fino al Settecento.

    Se non vi è certezza di un sacrario ad Atena a Neapolis, di sicuro esisteva, in prossimità della zona portuale, un tempietto dedicato a Orione, il mitico cacciatore gigante nume dei naviganti, il cui culto con ogni probabilità fu introdotto dai coloni euboici. Ancor oggi sulla via di Mezzocannone appare su un bassorilievo la singolare effigie di un uomo barbuto e coi capelli lunghi, dal petto villoso e bagnato di pioggia invernale, con un pugnale in mano. Orione fu per secoli l’emblema del Sedile di Porto, corporazione medievale che più di altre aveva a che fare col mare. Ma ancor prima, come abbiamo capito, esso era venerato da una confraternita dedita ai culti marini. Come narra Giovanni Battista Chiarini, in prossimità delle calende di dicembre, quando il mare è procelloso, i devoti si recavano al tempietto per offrire voti alla divinità. In quel periodo l’immagine di Orione veniva esposta in prossimità della stazione per navi – così come racconta l’epigrafe del bassorilievo – per ammonire coloro che volevano intraprendere la navigazione. Non è un caso che la meravigliosa costellazione associata al dio, con le sue centotrenta stelle visibili a occhio nudo e identificabile grazie ai tre astri luminosissimi della cintura – secondo tradizione chiamati I tre re o I re Magi – appaia nel nostro emisfero proprio nel periodo invernale.

    Secondo il mito, Orione era figlio di Poseidone ed Euriale, figlia del re Minosse di Creta. Fin da bambino ebbe dal padre il potere di camminare sulle acque per poi crescere e diventare quel gigantesco cacciatore armato di un bastone indistruttibile di bronzo, così come ce lo presenta Omero. Si racconta che sull’isola di Chio Orione corteggiò Merope, figlia del re Enopione, ma una notte, visti i suoi insuccessi, cercò di violentarla. Per punirlo Enopione lo fece accecare e lo bandì dall’isola; allora il gigante chiese aiuto a Efesto, che gli offrì come compagno uno dei suoi assistenti, Cedalione. Con lui si diresse verso il punto in cui sorgeva il sole e dove, come gli predisse un oracolo, grazie a Eos, l’aurora, gli fu restituita la vista.

    La morte di tale divinità resta un enigma: una prima teoria racconta che egli fu punto da un velenosissimo scorpione. Essendo un abile cacciatore, Orione aveva sfidato Artemide, dea della caccia, la quale si vendicò provocando una spaccatura della terra da cui fuoriuscì proprio lo scorpione che lo uccise. Un’altra versione racconta invece dell’innamoramento di Artemide per il coraggioso gigante. Profondamente invaghita, la dea pensò addirittura di rinunciare al voto di castità pur di sposarlo. Insieme avrebbero formato una coppia formidabile: i più grandi cacciatori, maschio e femmina, di tutti i tempi. Ma ad Apollo, fratello gemello di Artemide, quest’idea non piacque e si mise di traverso. Un giorno, mentre Orione nuotava, Apollo sfidò la sorella in una gara di tiro con l’arco e la obbligò a colpire un piccolo oggetto nero che s’intravedeva fra le onde del mare. Artemide lo trafisse al primo colpo e pianse di dolore quando scoprì che aveva ammazzato il suo amato. Affranta, fu lei stessa a porlo nel cielo, per ammirarlo. Qui Orione avrebbe continuato simbolicamente a cacciare: accanto a lui spiccano ancor oggi le costellazioni del Cane Maggiore e del Cane Minore, i suoi fedeli amici all’inseguimento della Lepre. Dagli astrologi Orione è anche visto come colui che affronta il confinante Toro. Ciò si spiega perché i Sumeri, che furono i primi a studiare la costellazione, identificarono la costellazione col grande eroe Gilgamesh, colui che combatteva contro il Toro del Cielo.

    Da sempre Orione ha avuto un significato importantissimo per tutti gli abitanti del Mediterraneo, in particolare per gli Egizi che, secondo le più recenti teorie, costruirono le piramidi della valle di Giza ripetendo in terra l’allineamento che le stelle della cintura disegnano nel cielo. Secondo la religione egizia i tre luminosi astri – identificati con Osiride, Orione e Sahu – formavano la zona del duat dove andavano i morti, e quindi anche il faraone una volta defunto. Probabile che il culto di Orione sia proseguito a Neapolis anche in epoca successiva, quando vi giunsero coloni alessandrini.

    Legata in qualche modo a Orione esisteva, in città, una leggendaria setta di sommozzatori che venivano iniziati a un culto sotterraneo dedicato a Poseidone. A raccontarcelo è, ancora una volta, l’esperto Mario Buonoconto. Si tratta del misterioso gruppo dei figli di Nettuno, di origine tardo-pagana. Parliamo di una vera e propria razza che conosceva il segreto per resistere in apnea in tempi giudicati impossibili dalla scienza. Buonoconto narra che essi si cibavano di alcune alghe particolarmente trattate che rallentavano il ritmo respiratorio garantendo a questi veri e propri uomini-pesce una lunga permanenza nell’acqua. Probabilmente, secondo rituali più arcaici dedicati alla primigenia Partenope, essi finirono per accoppiarsi con rarissimi sirenoidi dando vita a creature mitiche²¹.

    In questo quadro, cari allo stesso Poseidone, non bisogna dimenticare affatto le patrie divinità dei Dioscuri, Castore e Polluce, figli di Zeus e Leda. Il loro tempio, le cui colonne ancora spuntano all’esterno della chiesa di San Paolo Maggiore nell’agorà di piazza San Gaetano, era tra i più maestosi e quasi certamente doveva risalire all’epoca di

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