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COLOMBO. Diario del viaggio che ha cambiato il mondo
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E-book240 pagine3 ore

COLOMBO. Diario del viaggio che ha cambiato il mondo

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All’alba del 3 agosto 1492, un venerdì, tutta Palos era sveglia, in piedi, inquieta la gente, in ogni volto si leggeva angoscia mista a tristezza. Ognuno in città aveva qualcuno imbarcato: chi il padre, chi il figlio, oppure un fratello o il marito se non un amico che partiva per quell’avventura verso una meta incerta, in un mare sconosciuto, mai navigato. E l’ansia accumulata, cresciuta di giorno in giorno, mano mano che si avvicinava l'ora di alzare le vele, al momento dell’imbarco scoppiò in pianti a dirotto e in singhiozzi di disperazione. Inizia un’avventura straordinaria: la prima traversata dell’Atlantico di 120 uomini a bordo di tre caravelle (la più grande era lunga 22 metri e larga 7) inadatte ad affrontare l’Oceano sconosciuto. Un viaggio estenuante verso l’ignoto, sole, mare, alghe, i marinai che vogliono tornare indietro e, finalmente, terra: esplorazioni, i contatti con gli Indios, le meraviglie delle nuove terre, le Bahamas, Cuba, Santo Domingo, la convinzione di essere giunto nelle parti del Cipango, il Giappone. Colombo lascia un presidio di 39 uomini sull’ultima isola ed affronta il ritorno: una traversata piena di pericoli, una lunga tempesta, rischia il naufragio, ma dopo circa 8 mesi dalla partenza rientra in Europa.
Il mondo non sarà più lo stesso: un continente immenso entra in contatto con la civiltà occidentale.
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2017
ISBN9788827515631
COLOMBO. Diario del viaggio che ha cambiato il mondo

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    Anteprima del libro

    COLOMBO. Diario del viaggio che ha cambiato il mondo - Antero Reginelli

    © Copyright 2018 by Antero Reginelli

    Via Enrico Ferri 16

    00046 Grottaferrata - Roma

    e-mail: anteroreginelli@yahoo.it

    Finito di scrivere a Ottobre del 2018

    Indice

    Illustrazioni

    Itinerario del viaggio

    Tra le isole

    Introduzione

    La partenza

    Nelle Canarie

    La grande traversata

    Prime esplorazioni

    A Colba (Cuba)

    Bohio, Hispaniola (Santo Domingo)

    Guacanagarì, sovrano del Marlen

    Ad Hispaniola (Santo Domingo), verso Est

    Viaggio di ritorno

    Giorni di tempesta

    Nelle Azzorre

    Verso la Spagna

    Dal Re del Portogallo

    Arrivo a Palos

    L’uovo di Colombo

    Itinerario del viaggio

    Tra le isole

    Introduzione

    Non è senza motivo che il 1492 segna l’inizio di una nuova epoca storica, il passaggio dal Medioevo all’Età moderna: dopo il viaggio verso l’ignoto di Colombo, infatti, il mondo cambia, raddoppia, diventa immenso, non è più lo stesso. Eppure, furono una serie di considerazioni sbagliate a convincere Cristoforo di poter buscar el levante par el ponente, navigare verso ovest per raggiungere l’est, cioè, arrivare in Giappone ed in Cina, la favolosa terra raccontata da Marco Polo. Voleva trovare una nuova rotta delle spezie che fosse più breve della circumnavigazione dell’Africa e del successivo attraversamento dell’immenso Oceano Indiano: un viaggio lungo e molto pericoloso.

    Primo errore: le dimensioni del globo terrestre. Già nel 250 a.C. Eratostene aveva calcolato la circonferenza della terra (circa 40.000 chilometri) con sufficiente approssimazione rispetto alla realtà. Attraverso studi successivi, Claudio Tolomeo, Matematico, Astronomo e Geografo vissuto ad Alessandria di Egitto nel primo secolo dopo Cristo, sottostimò la previsione abbastanza precisa di Eratostene: misurò una terra con una circonferenza di 33.300 chilometri. Per convincere qualche Re a finanziere l’impresa, a Colombo piaceva la valutazione di Tolomeo e non quella di Eratostene: quindi per lui la terra era circa un quinto più piccola della realtà.

    Secondo errore: siccome gli scienziati dell’epoca misuravano le distanze in miglia arabe (1.850 metri) mentre Colombo ragionava in miglia portoghesi o spagnole (1.481 metri), per il Comandante genovese il mondo aveva una circonferenza ancora minore, inferiore di circa 3.000 chilometri rispetto a quella di Tolomeo.

    Terzo errore: la distanza, parziale conseguenza dei primi due errori. Cristoforo pensava che dalle isole Canarie al Giappone dovesse percorrere in mare aperto circa 4.500 chilometri, un’impresa difficile ma non impossibile, mentre la lunghezza effettiva del viaggio fino in Asia è quattro volte maggiore.

    Dunque, se le valutazioni di Colombo non fossero state imprecise in modo così grossolano, mai avrebbe tentato, forse neanche pensato, di affrontare la traversata.

    Spinto dall’ambizione di aprire nuove frontiere e credendo di essere illuminato dal Signore, prescelto per attraversare l’Oceano e diffondere il cristianesimo tra i pagani, d’altra parte il nome Cristoforo deriva da Cristo ferens che significa trasportatore di Cristo, cercò con tenacia finanziatori per realizzare il suo progetto. Si rivolse a tutti i principali regnanti d’Europa: del Portogallo, dell’Inghilterra, della Francia e della Spagna, ma tutti rifiutarono. Finalmente, pur nell’incertezza dell’impresa, considerato il modesto impegno finanziario (due milioni di maravedis, circa 18 Kg. di oro), la buona e generosa Isabella di Castiglia, Regina di Spagna, ci ripensò e accettò la proposta di Colombo.

    Era il I7 aprile 1492: l’accordo prevedeva per Cristoforo il titolo di Don, di Ammiraglio, la carica di Viceré e di Governatore di eventuali terre scoperte per conto dei regnanti di Spagna, Isabella e Ferdinando II. Oltre a poter trasferire il Vicereame agli eredi, aveva la facoltà di conferire ogni tipo di nomina in quei territori e avrebbe ricevuto una rendita pari al 10% di tutti i traffici marittimi futuri.

    Il 12 maggio Colombo partì da Granada per Palos al fine di sorvegliare i preparativi di quanto occorreva per la traversata e, soprattutto, per curare l’allestimento delle tre caravelle. Inoltre, voleva scegliere i marinai con i quali affrontare l’avventuroso viaggio. In modo che potesse pretendere cieca ubbidienza da parte dell’equipaggio, l’Ammiraglio aveva convinto la Regina Isabella ad equiparare le navi comandate da lui a quelle da guerra, dunque, gli imbarcati avrebbero dovuto rispettare il severo regolamento del codice militare: disciplina, ordine, soggezione, fedeltà e non un fiato.

    L’ammiraglia della flottiglia era la Santa Maria, capitanata direttamente da Colombo. Stazzava 150 tonnellate, misurava una lunghezza di circa 22 metri e una larghezza di circa 7, aveva tre alberi e quattro vele quadre ed una latina. Era la più lenta delle tre.

    La Pinta, leggermente più piccola, aveva una stazza di 140 tonnellate e velatura quadra. La comandava Martin Alonso Pinzon, armatore ed esperto marinaio di Palos: Vice dell’Ammiraglio.

    La terza, la Nina, lunga circa 20 metri, velatura latina, stazzava 100 tonnellate. Al comando c’era Vincente Yanez Pinzon, fratello minore del comandante della Pinta.

    Tutte e tre erano inadeguate ad affrontare una lunga navigazione in aperto Oceano, però avevano la possibilità di avvicinarsi con facilità alle coste sabbiose o contornate di scogli, di entrare agevolmente nei porti, anche piccoli, di manovrare nelle baie poco profonde: qualità molto utili in litorali sconosciuti e, probabilmente, insidiosi.

    Novanta i marinai, andalusi, baschi e galiziani, uno portoghese e tre italiani, Giacomo Rimo, genovese, Giovanni Vezzagno, veneziano e Antonio Calabrese, calabrese. Oltre a questi, a Colombo e ai fratelli Pinzon, parteciparono alla spedizione tre piloti, uno per nave, un medico, un chirurgo, un farmacista, tre notai, inviati speciali del Re, un ispettore, controllore delle spese e dei guadagni, e un interprete che parlava ebreo, caldeo ed arabo. C’erano anche alcuni avventurieri, qualche servitore, in tutto 120 uomini e neanche un prete e un soldato. A bordo avevano stivato provviste per un anno e sacchi di cianfrusaglie, palline di vetro, specchietti, aghi, campanelli e cappellini rossi: oggetti che avevano riscosso un enorme successo tra i selvaggi africani nelle terre esplorate in quegli anni e che, Cristoforo pensò, sarebbero piaciuti anche agli orientali.

    Prima di raggiungere Palos, Colombo passò a Cordova per salutare i figli. Si recò da Ferdinando per raccomandarlo alla madre, Beatrice Enriquez, alla quale era molto affezionato.

    Quando, poi, mancavano pochi giorni all’imbarco, andò nel Convento dove studiava Diego, lo portò via e lo affidò ad alcuni amici altolocati perché gli insegnassero il modo di conversare, di vestire, di stare a tavola e di comportarsi nella vita di relazione. Successivamente avrebbero dovuto mandarlo alla corte del Re di Spagna dove era stato nominato paggio.

    Sistemata al meglio la famiglia, verificato che tutto fosse a posto sulle navi, pensò all’aspetto religioso: affrontava un’impresa rischiosa, l’ignoto, per cui pregò in chiesa, si confessò e prese la comunione. Esempio seguito dai capitani, dagli ufficiali, dai marinai e dagli altri, con scrupoloso zelo.

    Fu una notte agitata quella prima della partenza. All’alba tutta Palos era sveglia, in piedi, inquieta la gente, in ogni volto si leggeva angoscia mista a tristezza. Ognuno in città aveva qualcuno imbarcato: chi il padre, chi il figlio, oppure un fratello o il marito se non un amico che partiva per quell’avventura verso una meta incerta, in un mare sconosciuto, mai navigato. E l’ansia accumulata, cresciuta di giorno in giorno, mano mano che si avvicinava l’ora di alzare le vele, al momento dell’imbarco scoppiò in pianti a dirotto e in singhiozzi di disperazione: uno spettacolo che non incoraggiò i marinai, gente superstiziosa, portata a fantasticare e a presagire spesso eventi infausti.

    Quel giorno memorabile era venerdì 3 agosto 1492.

    Durante il primo viaggio, Colombo scrisse un diario di bordo, che purtroppo è andato perduto. Ce ne è pervenuta, però, una ricostruzione scritta dal Vescovo Spagnolo Bartolomeo de Las Casas sulla base del manoscritto originale che gli era stato consegnato dallo stesso navigatore genovese, suo intimo amico. A volte il racconto è in terza persona, altre volte, virgolettato e in prima persona, è riportato quanto scritto da Colombo nel Diario.

    La partenza

    Venerdì, 3 agosto

    Salpammo dal lido di Saltes (era un isolotto oggi scomparso, di fronte il porto di Palos) venerdì 3 agosto 1492, di mattina presto, mezz’ora prima che sorgesse il sole. Spinti da un forte vento, andammo avanti verso sud per sessanta miglia, equivalenti a quindici leghe, fino al tramonto; quindi a sud-ovest, poi a sud quarta di sud-ovest, la rotta per le Canarie. Dalle isole avrebbero fatto il grande balzo: affrontare l’Oceano, sconosciuto, mai navigato da essere umano e raggiungere le mitiche terre dell’Oriente.

    Una lega equivaleva a 4 miglia e un miglio portoghese o spagnolo a 1.481 metri, dunque 60 miglia sono circa 89 chilometri.

    Una quarta? Ecco la spiegazione: la rosa dei venti si divide in quattro quadranti da 90°, che individua i 4 punti cardinali, nord, sud, est, ovest.

    Ogni quadrante si suddivide in due venti di 45°. Si hanno, quindi, 8 punti.

    Il vento si riparte in due mezzi venti, 16 punti.

    Il mezzo vento si divide in due quarte, 32 punti.

    La quarta si dimezza in due mezze quarte, 64 punti.

    La mezza quarta si smezza in due quartine e si arriva, così, a 128 punti cardinali.

    Durante la navigazione Colombo determinava la posizione della caravella rilevando ogni sera la rotta seguita e misurando la distanza percorsa durante la giornata. I marinai quindi, ogni giorno, riportavano su una carta la direzione, il percorso, le miglia di navigazione e segnavano il posto raggiunto, punto di partenza per tracciare il viaggio del giorno successivo. Per la direzione usavano la bussola, invece il calcolo delle miglia percorse era più complesso, richiedeva di misurare il tempo e la velocità della nave, all’epoca una valutazione abbastanza imprecisa.

    Infatti, lo scorrere delle ore veniva determinato con la clessidra ad acqua o a sabbia mentre la velocità era stimata gettando in mare una corda con un peso e un galleggiante. Sul parapetto c’erano dei segni a determinate lunghezze che indicavano varie velocità che venivano segnate e registrate ogni ora dal pilota. Metodo molto approssimato e non utilizzabile durante le tempeste e le bonacce. Alla fine della giornata la rotta risultante e la distanza percorsa veniva registrata sulle carte.

    Sabato, 4 agosto

    Mattinata calda, sole cocente durante l’intera giornata, venticello costante. Continuarono a sud-ovest quarta di sud e navigarono in fila indiana. Ben presto le caravelle si distanziarono una dall'altra. Comunicarono con segnali di fumo durante il giorno e con i fuochi durante la notte, ma non ci fu bisogno di scambiare particolari informazioni. Uomini rilassati, canti serali.

    Domenica, 5 agosto

    Fecero, tra giorno e notte, più di quaranta leghe (160 miglia, 237 chilometri) lungo la rotta per le Canarie. Niente altro da segnalare che una normale giornata assolata di navigazione in un Oceano del tutto tranquillo.

    Lunedì, 6 agosto

    Primi impicci. Il timone della Pinta, capitanata da Martin Alonso Pinzon, si ruppe o una parte si sfilò dai perni. Parecchi accusarono del guasto un certo Gomez Rascon, o almeno sospettarono che, durante i preparativi in porto, avesse manomesso la nave su istigazione del proprietario, Cristobal Quintero. Scrive Colombo che i due erano contrari al viaggio e che prima della partenza erano stati visti confabulare, sorpresi a tramare intrighi e macchinazioni per boicottare la traversata.

    L’incidente preoccupò molto l’Ammiraglio perché non poteva soccorrere la caravella senza correre gravi rischi, ma dice poi che si sentì abbastanza sollevato quando vide Martin Alonso Pinzon, uomo molto coraggioso e dotato d’ingegno, armeggiare alla riparazione. Infatti, il comandante fu talmente abile che ripristinò la funzionalità della nave senza grosse difficoltà.

    Nonostante il contrattempo, fra giorno e notte, percorsero ventinove leghe (116 miglia, 172 chilometri).

    Martedì, 7 agosto

    Nuovo inconveniente al timone della Pinta: uscì dalla sede ma lo aggiustarono, persero un po’ di tempo, dopo di che, presero la direzione per l’isola di Lanzarote, una delle Canarie. Navigarono, fra notte e giorno, per venticinque leghe (100 miglia, 141 chilometri).

    La ciurma, superstiziosa oltre che ignorante, interpretò gli incidenti come cattivo presagio. Rumoreggiava: nel breve tratto di mare fino alle Canarie una caravella si era già scassata, e dovevano ancora affrontare la parte più difficile e pericolosa della spedizione: l’Oceano mai esplorato. Mugugni a bordo delle imbarcazioni.

    Pessimo inizio del viaggio.

    Mercoledì, 8 agosto

    Pareri discordanti tra i tre piloti delle caravelle riguardo alla posizione delle Canarie e il luogo in cui si trovavano. Entrò nella disputa l’Ammiraglio e la sua opinione risultò la più azzeccata. A quel punto, Don Cristoforo voleva approdare al più presto nell’arcipelago per mollare la Pinta, che aveva il timone in cattivo stato e imbarcava acqua, e sostituirla con un’altra, se l’avesse trovata.

    Quel giorno, però, non riuscì a raggiungere le isole.

    Nelle Canarie

    Giovedì, 9 agosto

    La Pinta, semi scassata, procedeva lenta; Colombo decise di non aspettarla, di proseguire il viaggio a velocità normale con le altre due navi. Si sarebbero riuniti alla Pinta nel porto di Las Palmas, nelle Canarie.

    Giunto in vista dell’arcipelago, però, attese a largo la caravella danneggiata. Passarono ore, non arrivava, allora ordinò di raggiungere Gomera, l'isola più piccola, perché aveva saputo dell’arrivo di una nave spagnola: pensava di noleggiarla in sostituzione della Pinta. Inoltre a Gomera, nel porto di San Sebastiano, abitava donna Beatriz di Peraza y Bobadilla, Marchesa di Moya. Colombo la conosceva bene, era una nobile, bella, sofisticata e di temperamento caldo. Il matrimonio, poco fortunato, l’aveva resa più passionale: era lei la Governatrice e poteva aiutarlo, in tutti i sensi, anche nell’avventurosa impresa di conquistare la via per l’Oriente.

    L’Ammiraglio attraccò alla Gomera domenica 12 agosto, ma della nave spagnola non c’erano tracce, né la Pinta dava notizie e pure la Marchesa non era nel suo palazzo. Rimase una settimana in attesa, inviò alcuni marinai a Las Palmas per sapere se fosse successo qualcosa alla Pinta ma nessuno ritornò a informarlo. Tra l’altro, in quei giorni videro un’alta colonna di fuoco uscire dalla montagna di Tenerife. Gli uomini s’inquietarono.

    Preoccupato, il 21 agosto, salpò per Las Palmas, dove finalmente, il 22, arrivò la Pinta. In una settimana di febbrili lavori, i marinai spagnoli, aiutati dagli operai locali, ripararono a puntino la caravella danneggiata. Cristoforo e Martin decisero anche di cambiare le vele alla Nina, da latine a quadrate.

    Il 2 settembre la flottiglia, di nuovo riunita, tornò a Gomera per i rifornimenti.

    Siccome la Marchesa Beatriz era tornata, Colombo fu ospitato a castello e costretto a ritardare di alcuni giorni il viaggio verso il Cipango (Giappone): si parla di una relazione amorosa tra i due.

    L’Ammiraglio dice che alcuni autorevoli personaggi spagnoli, residenti nell’isola, gli assicurarono di scorgere, in certi momenti dell’anno, una terra a ponente delle Canarie. Molti altri abitanti della Gomera giurarono la stessa cosa ed a Colombo venne in mente che quando si trovava in Portogallo, nel 1484, aveva incontrato un marinaio di Madera (a nord delle Canarie) che era andato dal Re a chiedere una caravella con la quale navigare fino ad una terra che vedeva ogni tanto dalla sua isola. Ripensò anche che raccontavano la stessa cosa gli abitanti delle Azzorre: tutte testimonianze concordi rispetto alla direzione e alle dimensioni delle terre lontane. Finalmente, dopo aver caricato provviste, acqua, legna, carne secca e altri viveri, imbarcò gli uomini.

    La grande traversata

    Giovedì 6 settembre

    All'alba le navi salparono verso l’ignoto, Beatriz rimase a terra, come Didone, sedotta e abbandonata da Enea: il viaggio continuava. Gli uomini dell’equipaggio, prima della partenza si erano confessati, avevano pregato per raccomandarsi a Dio con tutta l’anima: partivano per solcare un mare sconosciuto, la cosa non li entusiasmava, alcuni erano terrorizzati.

    Don Cristoforo aveva saputo dal capitano di un vascello, proveniente dall’isola del Ferro, la più occidentale delle Canarie, che tre navi portoghesi stavano in agguato nelle vicinanze per catturarlo, senza dubbio su ordine del Re del Portogallo che ostacolava chiunque lavorasse per gli spagnoli. Appena uscito dal porto il vento calò di botto: così per l’intero giorno e tutta la notte. La mattina del venerdì stavano ancora tra le isole Gomera e Tenerife.

    Venerdì, 7 settembre

    Tutto il venerdì e il sabato fino alle tre di notte ci fu bonaccia. Niente altro da segnalare. Noia a bordo; animi sereni.

    Sabato, 8 settembre

    Alle tre di mattina, prese a soffiare vento da nord est, il grecale: era ora. L’Ammiraglio orientò i timoni verso occidente ma il mare grosso da prua gli impedì di progredire velocemente. Navigarono tra giorno e notte circa nove leghe (36 miglia, 53 chilometri).

    Domenica, 9 settembre

    Di giorno andarono avanti per diciannove leghe (76 miglia, 112 chilometri), da quel momento però, Colombo decise di registrarne meno di quante ne percorrevano. Tenne due misurazioni, una farlocca per l’equipaggio, l’altra segreta per sé stesso e i posteri.

    Sapeva che il viaggio sarebbe stato lungo, molto, non voleva che gli uomini si spaventassero per l’eccessivo numero di leghe percorse in un mare sconosciuto, che perdessero fiducia, temessero di non farcela a rientrare in Spagna e si ribellassero.

    Durante la notte coprirono centoventi miglia (178 chilometri), dieci per ora, che fanno trenta leghe. Tra i marinai, però, cominciava a serpeggiare l’incertezza, erano stranamente poco diligenti, governavano male le navi, piegavano spesso sul quarto di nord-ovest ed anche al mezzo quarto: l’Ammiraglio intervenne più volte rimproverandoli duramente. Non era un buon segno quel comportamento svogliato della ciurma dopo solo quattro giorni da che avevano lasciato le Canarie.

    Lunedì, 10 settembre

    Veleggiarono, compresa la notte, per sessanta leghe (240 miglia, 355 chilometri), ossia a una media di dieci miglia o due leghe e mezza per ora (14,8 chilometri/ora). Per far credere ai marinai che non stavano allontanandosi troppo dalla Spagna e non si allarmassero, ne conteggiò quarantotto (192 miglia, 284 chilometri).

    Martedì, 11 settembre

    Giornata un po’ movimentata: viaggiando nella direzione stabilita da Cristoforo, cioè verso occidente, fecero più di venti leghe (80 miglia, 118 chilometri). Appena spuntò il sole videro un grosso pezzo d’albero di nave, giudicata di centoventi tonnellate, ma non riuscirono a prenderlo. Gli uomini dell’equipaggio si preoccuparono: trovare in mare rottami di un vascello non era per niente rassicurante. In particolare alcuni marinai, i quali manifestarono non celato malumore.

    Nella notte percorsero altre venti leghe (80 miglia, 118 chilometri); sedici (64 miglia, 95 chilometri) registrate dall’Ammiraglio nel giornale taroccato.

    Mercoledì, 12 settembre

    Seguendo ognuna il proprio tragitto, le tre caravelle, avanzarono, tra notte e giorno, di trentatré leghe (132 miglia, 195 chilometri), ma l’Ammiraglio ne

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