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Il Corpus Caesarianum. De bello gallico. De bello civili. Bellum alexandrinum. Bellum africum. Bellum hispaniense
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E-book884 pagine12 ore

Il Corpus Caesarianum. De bello gallico. De bello civili. Bellum alexandrinum. Bellum africum. Bellum hispaniense

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Info su questo ebook

Il rifacimento di film, di spettacoli e di brani musicali è pratica consolidata, sullo stesso binario, da un po’ di tempo, c’è chi sta riproponendo letteratura sotto nuova veste: il libro è energia pulita, quindi rinnovabile. Compito arduo, in particolare riciclare classici in lingua antica: mostri sacri. Eppoi, ce ne vuole di fantasia per riscrivere, per dare nuovo impulso a monumenti letterari, a opere che hanno formato le nostre conoscenze. Il riciclato in questione è il cosiddetto “Corpus Caesarianum”, mai pubblicato in un unico volume. Si tratta del “De bello gallico” e del “De bello civili” di Cesare, celebrati in tutto il mondo, e di tre libri poco famosi, noti solo agli addetti ai lavori, il “Bellum Alexandrinum”, il “Bellum Africum” e il “Bellum Hispaniense”, scritti da ignoti. Due capolavori + tre un po’ meno ma di grande valore, fondamentali per gli amanti di storia e stimolanti per gli altri lettori per il modo piacevole, rapido, espressivo e nello stesso tempo interessante, in cui sono stati riscritti: gli ultimi quattordici anni di Cesare, la cronaca degli avvenimenti che hanno rivoluzionato l’occidente e influenzato il successivo sviluppo.
Il lavoro raccoglie e risistema, con vari aggiustamenti, gli ebook già pubblicati, remake letterari che rinnovano testi, antichi ma attuali, senza impoverirli, anzi, li arricchisce con notizie non date dagli originali, e, soprattutto, li semplifica e li rende gradevolmente “leggibili”, non un’insipida ripetizione, pallosa, di quanto già scritto da Cesare in modo pregevole, e grossolano, di non facile lettura, dagli anonimi.
LinguaItaliano
Data di uscita12 apr 2015
ISBN9786050371529
Il Corpus Caesarianum. De bello gallico. De bello civili. Bellum alexandrinum. Bellum africum. Bellum hispaniense

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    Anteprima del libro

    Il Corpus Caesarianum. De bello gallico. De bello civili. Bellum alexandrinum. Bellum africum. Bellum hispaniense - Antero Reginelli

    2014

    INDICE DEI LIBRI

    Preambolo:

    De bello gallico

    De bello civili

    Bellum alexandrinum

    Bellum africum

    Bellum hispaniense

    Appendice 1: Cenni sulle Istituzioni

    Appendice 2: Notizie sui Galli e i Germani

    Appendice 3: La foresta Ercinia

    PREAMBOLO

    L’incipit di un libro, il contenuto delle prime tre o quattro righe, è molto importante, serve a catturare il lettore, a incastrarlo a proseguire, a non mollare le pagine: va pensato bene. Sarebbe stato bello partire con: "Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi ..…., ma l’ha già fatto Manzoni nei Promessi sposi, oppure, come Kafka ne Il processo, con: Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. perché, senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato. La cuoca della signora Grubach, la sua affittacamere, che ogni mattina verso le otto gli portava la colazione, quella volta non venne. Non era mai successo fino allora."

    Avevo intenzione di affrontarlo con qualcosa del genere: Il cosiddetto Corpus Caesarianum è l’insieme del De bello gallico e del De bello civili di Cesare, celebrati in tutto il mondo, ai quali vanno aggiunti tre libri poco famosi, noti solo agli addetti ai lavori, il Bellum Alexandrinum, il Bellum Africum e il Bellum Hispaniense, scritti non si sa bene da chi, ignoti anche al tempo di Augusto. …..

    Poco adatto a iniziare un remake letterario che ha lo scopo di avvicinare opere fondamentali, antiche ma attuali, a lettori che mai affronterebbero argomenti del genere; improponibile per un rifacimento che intende rinnovarle senza impoverirle, anzi, arricchirle con notizie non offerte dagli originali, semplificarle e renderle gradevolmente leggibili, non un’insipida ripetizione, pallosa (noiosa, pesante), di quanto già scritto da Cesare in modo pregevole, e grossolano, di non facile lettura, dagli anonimi.

    Non avrei complicato le cose ma neanche acchiappato l’attenzione dei lettori: avrebbe segnalato soltanto che i due capolavori sono di Cesare mentre gli autori degli altri tre volumetti erano sconosciuti, già nei primi decenni dell’Impero. Perfino un illustre della categoria, un pezzo da 90 come Svetonio (nato intorno al 70 dopo Cristo, scrittore e storico, noto per la Vita dei Cesari) sapeva chi fossero. Alcuni suoi contemporanei dicevano Aulo Irzio, qualcuno Caio Oppio oppure altri; nessuno con certezza.

    Ovviamente, neanche in epoca moderna i dottori in storia sono riusciti a individuarli: c’è chi non esclude ci sia lo zampino di Cesare, chi attribuisce il primo Bellum a Irzio, chi ad Asinio Pollione o a Munazio Planco, chi a Oppio o a Sallustio. Come possibili autori del secondo e del terzo, oltre ai citati, aggiungono qualche generale di CGC. C’è da dire che chiunque li abbia scritti non l’ha fatto con la finezza artistica raggiunta da Cesare nei suoi lavori, ma pure che in questo tipo di libri non si cerca tanto la vena poetica quanto lo svolgimento dei fatti, l’informazione, la cronaca.

    È, in ogni modo, materiale di grande valore, nero su bianco di Ufficiali, o compagni dell’Imperator che hanno ricoperto ruoli chiave nelle vicende. Riportano notizie di prima mano, anche se di parte, quasi fossero trascrizioni di dichiarazioni, registrate su nastro magnetico, rilasciate da chi ha vissuto gli avvenimenti in prima persona, non racconti per sentito dire.

    Scrivere è per ricordare e, anche, per provare, nel senso di documentare.

    Il de bello gallico racconta la conquista della Gallia, è strutturato in sette libri (capitoli) mirabilmente scritti da Cesare e da un ottavo, di Irzio, che descrive l’ultimo anno di campagna, il rimasuglio di un conflitto agli sgoccioli, e il rientro in Italia: in pratica lo raccorda con il de bello civili, l’altro capolavoro di Caio Giulio. Il primo copre il periodo che va dal 58 a.C. al 50 a.C., i nove anni di guerra impiegati per sottomettere e quietare i Galli, spauracchio dei romani da tre secoli. Epiche le imprese dei legionari: contro gli Elvezi, i terribili Svevi di Ariovisto, i Belgi, l’assedio di Avaricum, città imprendibile, la magnifica opera ingegneristica ad Alesia, e non solo, mettono piede in territori mai calpestati dai soldati romani, la Germania e la Gran Bretagna.

    È l’inizio della civilizzazione di popoli sconosciuti, selvaggi, leggendari: la romanizzazione dell’Europa.

    Il secondo narra la prima parte di un disastroso conflitto sociale, detto anche guerra pompeiana. Anni 49 a.C. e 48 a.C., il rientro in Italia di Cesare, alea iacta est, l’attraversamento del Rubicone, la guerra contro Pompeo, progressisti contro conservatori, popolari contro aristocratici, romani contro romani. I pompeiani si spostano in Grecia con un grande esercito, Giulio li segue, la grande battaglia a Farsalo, il Magno fugge verso l’Oriente ma fa una brutta fine.

    L’episodio conclude il libro e dà l’avvio al bellum alexandrinum. Siamo nel terzo trimestre del 48 a.C., Cesare arriva ad Alessandria, piange lacrime da coccodrillo sulla testa dell’ex genero, s’impiccia degli affari egiziani e rimane impantanato in una guerriglia urbana, poi diventata vera guerra, insolita, complicata, che non vorrebbe combattere, anche perché ha pochi soldati a disposizione. Gli alessandrini lo assediano, i suoi si battono nei vicoli della città e in un paio di scontri in mare, passa qualche brutto momento, a consolarlo, però, c’è Cleopatra, diventata sua amante.

    Il conflitto va per le lunghe, dura sei mesi, fino all’arrivo degli alleati asiatici, con l’aiuto dei quali risolve la grana e passa in Asia. Sistema le cose in Oriente e con una guerra lampo, veni, vidi, vici, mette a posto anche Farnace. Rientra nella Capitale a ottobre 47 a.C. ma a dicembre parte con l’esercito per l’Africa: il bellum africum.

    È la seconda parte della guerra civile, stavolta tra la Repubblica e Cesare, non più, come pensava Catone, tra due pretendenti al trono. L’Imperator affronta una campagna molto impegnativa ma non eccessivamente lunga: mosse e contromosse per evitare lo scontro frontale, poi per cercarlo, alla fine CGC costringe i conservatori a combattere dalle parti di Tapso (Ras Dimas); una battaglia surreale vinta dai popolari. A metà del 46 a.C. è accolto trionfalmente a Roma. Gli avversari politici sono spariti, il popolo lo adora, il Divo Cesare, concentra nelle sue mani un potere enorme, quasi come quello di un Re. Crede che la guerra civile sia conclusa, invece sbaglia. Dopo aver trascorso sei mesi in città, parte per la Spagna: inizia il bellum hispaniense, che si conclude con l’ultima battaglia, a Munda, dove Cesare ha rischiato di brutto.

    Il presente lavoro è la raccolta e la risistemazione, con qualche aggiustamento, dei cinque ebook singoli già pubblicati.

    Prima di iniziare descrivo l’aspetto fisico di Cesare; quello che abbiamo in mente è il frutto di busti in marmo, poco corrispondenti al vero. Le immagini più fedeli sono su alcune monete emesse fra il 46 e il 44 a.C., quelle successive, invece, risultano, a detta degli studiosi, poco attendibili.

    Anche le sculture che lo raffigurano sono abbastanza numerose, ma si tratta, per la maggior parte, di opere del secolo successivo alla morte, di età imperiale, e ci offrono un’immagine mitizzata di Giulio, falsa. Forse, la migliore è un busto in basalto nero (vedere su Wikipedia: Caio Giulio Cesare) oggi conservato all’Altes Museum di Berlino, proveniente da una cappella fatta costruire da Cleopatra ad Alessandria in onore di Cesare. Abbiamo, pure, parecchie testimonianze letterarie, la più completa è di Svetonio (La vita dei Cesari): Si dice fosse di alta statura, di carnagione chiara, di corporatura ben fatta, forte, di viso forse un po’ troppo pieno, occhi scuri e vivaci; di buona salute, benché negli ultimi tempi andasse soggetto a improvvisi svenimenti e fosse ossessionato da incubi notturni. Due volte fu colto da epilessia durante lo svolgimento delle sue attività. Molto ricercato nella cura del corpo, non solo si faceva radere e tagliare i capelli con cura ma anche depilare, per questo alcuni lo rimproveravano. Non sopportava la calvizie, soprattutto perché suscitava la presa in giro da parte dei suoi denigratori. Così si era abituato a riportare da dietro in avanti i capelli che gli mancavano, e tra tutti gli onori che il Senato e il popolo gli avevano attribuito, accettò molto volentieri quello di portare sempre una corona di alloro. Dicono che fosse elegante nel vestire: indossava un laticlavio (la tunica a fasce purpuree larghe usata dai senatori) guarnito di frange che arrivavano fino alle mani e su di esso portava la cintura, allentata. Da questa moda è venuta la battuta che Silla ripeteva spesso agli aristocratici di fare attenzione a quel giovane che portava male la cintura.

    DE BELLO GALLICO

    Gallia

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    INDICE DE BELLO GALLICO

    UNO: Gli avvenimenti precedenti

    DUE: Cesare in Gallia. La guerra contro gli Elvezi

    TRE: Ora tocca ai Tedeschi

    QUATTRO: A nord, per mettere le cose in chiaro

    CINQUE: I luogotenenti di Cesare

    SEI: Genti germaniche: gli Usipeti e i Tenteri

    SETTE: L’attraversamento del Reno

    OTTO: Truppe romane in Gran Bretagna

    NOVE: La questione Treveri

    DIECI: Dumnorige

    UNDICI: La seconda spedizione in Britannia

    DODICI: L’Eburone Ambiorige

    TREDICI: Attacco a Quinto Cicerone

    QUATTORDICI: Voreno e Pullone

    QUINDICI: Arrivano i nostri

    SEDICI: Di nuovo il Trevero Indutiomaro

    DICIASSETTE: Severe punizioni

    DICIOTTO: Impaurire e punire i Germani

    DICIANNOVE: La caccia ad Ambiorige

    VENTI: L’incursione dei Sigambri di Germania

    VENTUNO: Il grande saccheggio

    VENTIDUE: L’ascesa al potere di Vercingetorige

    VENTITRE: L’imprevedibilità di Cesare

    VENTIQUATTRO: Mosse rapide

    VENTICINQUE: Provvedimenti estremi

    VENTISEI: L’assedio di Avaricum (Bourges)

    VENTISETTE: Nel campo di Vercingetorige

    VENTOTTO: In marcia verso Gergovia

    VENTINOVE: L’Eduo Litavicco

    TRENTA: La battaglia di Gergovia

    TRENTUNO: Finalmente l’estate

    TRENTADUE: Labieno a Lutetia Parisorum

    TRENTATRE: Tutti contro

    TRENTAQUATTRO: Il primo serio scontro

    TRENTACINQUE: L’assedio di Alesia

    TRENTASEI: Le battaglie di Alesia

    TRENTASETTE: Correo e Commio

    TRENTOTTO: La battaglia di Lemonum (Poitiers)

    TRENTANOVE: L’esempio di Uxellodunum

    QUARANTA: La resistenza dell’Atrebate Commio

    QUARANTUNO: L’anno scorso, nel 50 a.C.

    UNO - Gli avvenimenti precedenti

    I Senatori, i nobili e gli altri della combriccola hanno letto con scrupolosa attenzione le relazioni ricevute da Cesare durante gli otto anni di guerra in Gallia: sanno bene come sono andate le cose. Per questo il racconto che faccio di quella campagna è destinato ai semplici cittadini, a chi è stato informato in modo approssimato o per sentito dire. Potrebbe interessare anche i giovani, i curiosi tra la plebe e qualche schiavo che vuole sapere. Certo, non è una narrazione di altissimo livello come il De Bello Gallico del Divo Giulio, straordinaria opera per raffinatezza espressiva, ha il pregio, però, di contenere notizie di prima mano. C’ero e descrivo i fatti nudi e crudi e uso il vocabolario della gente, non degli Accademici.

    Per meglio entrare in argomento, credo sia necessario riassumere, in quattro parole, la storia precedente, partendo da lontano, dalla fondazione della nostra città, leggendaria o storica che sia.

    Il Natale di Roma è il 21 aprile dell’uno al quale facciamo riferimento per contare gli anni ab Urbe condita (dalla fondazione della città, 753 anni prima della nascita di Cristo). Il Padre, e primo dei sette Re, fu Romolo, fratello gemello di Remo (e non Remolo come disse qualche anno fa un nostro Primo Ministro a un Vertice internazionale.

    La Monarchia è andata avanti fino al 244 a.U.c. (oppure nel 509 a.C.) quando i patrizi, stanchi delle prepotenze di Tarquinio il Superbo, lo cacciarono. Tra l’altro, gli ultimi tre Re erano Etruschi e non romani.

    È nata, così, la Res Pubblica Populi Romani, però comandavano gli aristocratici, quelli che avevano più possibilità economiche, i ricchi. Per non correre il rischio di veder riaffiorare i misfatti dell’assolutismo, i nostri avi benestanti promulgarono delle leggi, tuttora vigenti, per dare delle regole molto severe alle Istituzioni. Spezzettarono il potere in tante funzioni pubbliche, affidate a Magistrati (Consoli, Pretori, Questori, Edili, Censori) che rimanevano in carica un solo anno ed erano rieleggibili allo stesso mandato soltanto dopo un decennio.

    Inoltre, lo stesso ufficio veniva assegnato a due responsabili che lo gestivano in comune, e la carriera politica seguiva un cursus honorum (sequenza delle funzioni) in ordine graduale rigido, con nomine a incarichi via via di maggiore impegno.

    Fin dall’inizio, la giovane Repubblica fu caratterizzata da un’eccellente organizzazione militare, unica nell’epoca, e dallo sviluppo di un ordinamento giuridico straordinario. Se la Grecia sarà ricordata per la filosofia, noi lo saremo per il diritto.

    Nei primi anni del nuovo regime, Roma, città-stato, controllava a malapena i territori intorno alle mura, ma l’efficiente macchina da guerra, oliata alla perfezione, ci consentì, prima di resistere ai potenti popoli vicini, poi di soggiogarli. Non si parla di qualche anno, è storia di due, tre secoli: la mitica prima età repubblicana. Nonostante il saccheggio dei Galli Senoni di Brenno - era il 390 a.C., da quel giorno i Galli sono diventati il nostro spauracchio, un po’ come l’orco e il cane Cerbero per i bambini - e un lacerante conflitto tra i patrizi (i ricchi) e i plebei (i poveracci), sconfiggemmo gli Etruschi, i Latini, i Sabini, i Volsci, gli Equi e, soprattutto, dopo tre lunghe guerre, i Sanniti, un popolo ostinato, di testardi. Poi toccò ai Tarantini aiutati da Pirro, Re dell’Epiro. C’eravamo aperti la strada verso sud, vincemmo anche contro i Bruzi in Calabria e intorno al 270 a.C. avevamo assunto il controllo dell’Italia, da Reggio Calabria a Rimini. Un territorio vasto e con molti chilometri di costa, per cui imparammo l’arte della navigazione e, inevitabilmente, entrammo in conflitto con chi spadroneggiava nel Mediterraneo, i Cartaginesi.

    Sono state necessarie tre guerre, cosiddette puniche, cento anni di ostilità, intervallati da lunghi periodi di pace, dal 246 a.C. al 146 a.C., per diventare il popolo egemone del Mare Nostrum.

    Un riassunto brevissimo.

    La prima guerra punica durò più di vent’anni: Roma e Messina contro Cartagine e Siracusa, prevalentemente combattuta in mare, in un campo dove non eravamo espertissimi. Rimediammo con l’inventiva; i nostri costruirono sulle proprie unità un ponte mobile che agganciava le navi avversarie e trasformava la battaglia navale in uno scontro corpo a corpo nel quale i nostri soldati, militari professionisti addestrati con regolarità, erano già i più forti al mondo. Vincemmo.

    La seconda è la più nota, abbastanza lunga anch’essa (17 anni): interpreti principali Annibale e Scipione detto l’Africano. Dalla Spagna, attraverso i Pirenei e le Alpi, il cartaginese entrò in Italia con un esercito di 100.000 uomini e una quarantina di elefanti, ci sconfisse in quattro battaglie consecutive e fece tremare Roma con la conquista di Capua; arrivò quasi alle porte della città.

    L’SPQR boccheggiava.

    Ma gli antichi romani non avevano l’anello al naso, la sapevano lunga: Scipione spostò l’esercito in Tunisia e si accordò con un reuccio locale, Massinissa, pronto a colpire la Capitale nemica. Ad Annibale, che in Italia, invece, non aveva alleati e non riceveva più rinforzi e rifornimenti, non rimaneva che rientrare a proteggere la sua città.

    Nel 202 a.C., a Zama, Scipione sbaragliò il cartaginese e la guerra finì.

    La terza ebbe inizio nel 149 a.C., terminò tre anni dopo, quando Cartagine fu rasa al suolo: sparì per sempre dalla storia.

    E siamo al 146 a.C., avoglia (ce ne vuole) ad arrivare al 58 a.C. ma faremo presto. Intanto, nello stesso anno anche la Grecia era diventata Provincia. Ormai controllavamo l’intera area del Mediterraneo: Roma era diventata una super-potenza, aveva acquisito grandi ricchezze. Prospera, non assillata da grossi grattacapi internazionali, presero il sopravvento i problemi interni: l’eterna lotta tra chi non mangia e chi mangia e beve. Fu l’epoca dei Gracchi, i fratelli Tiberio e Caio, figli di Cornelia, figlia del Grande Scipione l’Africano (una grande pure lei. Vi ricordate? Alle matrone romane che ostentavano costosi ornamenti in pietre preziose e oro e la rimproveravano di non agghindarsi come loro, disse: Eccoli i miei gioielli indicando i figli Tiberio e Caio).

    Prima uno, poi l’altro tentarono di far approvare leggi per la ridistribuzione alla plebe di parte delle terre concentrate negli immensi latifondi in mano a pochi. Vennero entrambi fatti fuori. Quando si toccano i portafogli gonfi di soldi, succedono sempre le peggiori cose.

    Tiberio fu eliminato nel 133 a.C., Caio Gracco si uccise, o fu ucciso, insieme a tremila cittadini, nel 121, durante i disordini scoppiati negli scontri tra opposti estremismi.

    La solita storia.

    Vi sembra un periodaccio? Dopo andò peggio. I Gracchi avevano lasciato il segno, la loro scomparsa non aveva messo il titolo fine alla lotta tra gli aristocratici e i popolari, anzi. In più, le istituzioni, nate per governare una città-stato e non un impero diventato troppo grande, avevano bisogno di essere adeguate alla nuova realtà. Ce n’era di carne al fuoco perché i partiti litigassero, e pure di brutto.

    In un contesto già abbastanza turbolento, salirono alla ribalta due galletti non proprio teneri: Caio Mario, leader dei popolari, l'uomo nuovo, il vincitore di Giugurta in Africa e dei Cimbri e dei Teutoni (tedeschi terribili che avevano massacrato un nostro esercito in Gallia) e il campione dei conservatori, Lucio Cornelio Silla, ex collaboratore dello stesso Mario.

    Il capitolo Mario e Silla è molto sgradevole: troppe crudeltà gratuite. I contrasti tra le due fazioni si trasformarono in guerra civile nel 88 a.C., quando il Senato decise di affidare a Silla il comando della spedizione militare contro il Re del Ponto, Mitridate Eupatore e Mario riuscì a sottrarglielo. Silla, imbufalito, marciò verso la città con l’esercito e varcò il pomerium (il limite sacro dell’Urbe) commettendo sacrilegio.

    Lucio Cornelio se ne sbatteva di legge e religione. Ormai aveva compiuto il passo oltre il punto di non ritorno, tanto valeva fare un bel ripulisti. Ammazzò un sacco di nemici, sistemò qualche altra bega e partì per la guerra in Asia credendo di aver aggiustato le cose. Aveva toppato; svoltato l’angolo, ricominciarono i disordini. I Mariani rientrarono, ripristinarono il loro ordine e alla fine riconsegnarono il potere nelle mani di Mario, zio di Caio G. Cesare. Anche lui non fu soft. Pianificò sanguinose rappresaglie: l’eliminazione sistematica dei patrizi più pericolosi. Eppoi, li perseguitò anche economicamente: a molti confiscò le proprietà e, tanto per fare il perbene, le distribuì agli amici e agli amici degli amici. Solo nel 86 a.C., con la sua improvvisa morte, finirono le prepotenze.

    Passarono un paio d’anni così e così, nel frattempo Silla aveva sconfitto Mitridate Eupatore. Con il ritorno in Italia del vincitore, diventato ancora più potente, le due fazioni ripresero a darsele di santa ragione: un conflitto disastroso.

    I populares potevano contare su centomila uomini, nonostante ciò Silla attraversò la Penisola ottenendo facili vittorie, tra le sue fila si mise in luce un giovane generale, un certo Gneo Pompeo. Arrivò con l’esercito sotto le mura, presso Porta Collina (una porta delle mura serviane, in un tratto tuttora in piedi tra via Goito e via XX Settembre, dalle parti della Stazione Termini). Lì aristocratici contro popolari, conservatori contro democratici, destra contro sinistra, cani contro gatti, ingaggiarono battaglia, quella decisiva. I Mariani furono battuti, Mario il Giovane, figlio di Caio Mario, preferì uccidersi piuttosto che cadere tra le grinfie degli aristocratici.

    Nel 82 a.C., Silla entrò di nuovo in città con le armi in pugno. Aveva vinto, era il padrone della Repubblica e, da signore assoluto, terrorizzò mezzo mondo. Uccise una marea di oppositori politici, esiliò i sopravvissuti e mise all'asta a prezzi irrisori i loro beni che finirono ai Sillani. Parecchi diventarono ricchi, alcuni arcimiliardari. Una vendetta spietata, disumana.

    Nell’epurazione, Cesare, diciottenne parente di Mario, rischiava di brutto, addirittura di essere giustiziato. Un momentaccio per Giulio. Prima prese il largo, scappò in Sabina cambiando nascondiglio ogni notte per sfuggire ai sicari, poi riuscì a cavarsela grazie all'intercessione di alcuni amici influenti. Pare che Silla non fosse troppo convinto di risparmiarlo, tanto da dire: Ve la do vinta, tenetevelo pure! Un giorno vi accorgerete che chi volete salvo a tutti i costi sarà fatale agli aristocratici. In questo sbarbatello multos Marios inesse! (ci sono molti Marii!).

    Tra i suoi capolavori, le cosiddette liste di proscrizione, elenchi di persone vive ma considerate morte: chiunque poteva ucciderle senza commettere reato.

    Lucio Cornelio Silla è stato proprio uno strano personaggio: nel 79 a.C., sorprendendo tutti, fece un passo indietro, decise di abbandonare la dittatura e la politica. Si ritirò nella propria villa di campagna.

    Ritornato a essere un privato cittadino, si dice che, attraversando una strada pubblica molto affollata, fu insultato da un passante, con durezza. Lì per lì non spiccicò parola, dopo un po’, però, non smentendo il suo carattere - oltre che spietato era anche ironico - confidò a uno dei suoi accompagnatori: Che imbecille quell’uomo! Dopo un gesto simile, non ci saranno più dittatori al mondo disposti a lasciare il potere.

    Previsione talmente azzeccata da essere valida, addirittura, per chiunque gestisca qualsiasi potere, di portata pure minima, così piccola da comprendere perfino un microcosmo abitato da due persone. Chi lo possiede non lo molla, cascasse il mondo. Rare le eccezioni.

    Frequentatore fin da ragazzo di prostitute, gay, marchettari, saltimbanchi, attorucoli, mimi e cantanti, se ne circondò sempre, anche, e soprattutto, quando fu al potere. Per forza, altrimenti che dittatore sarebbe stato. Fra gli intimissimi c’era un certo Metrobio, conosciuto da pischello, famoso attore che sosteneva abitualmente parti femminili. Nel suo ultimo appassionato discorso al Senato, Silla confessò la propria passione per quel ragazzo, ora non più giovane, suo amante da sempre.

    Ogni giorno in compagnia della sua particolare, quanto scombinata, cricca, morì nel 78 a.C., forse di cancro o di una rara forma di verminosi.

    La scomparsa di Silla non risolse granché, la Repubblica continuò a essere asfissiata da profonde crisi politiche ed economiche. Catilina organizzò, addirittura, una pericolosa congiura per sovvertire lo Stato: fu eliminato. Nel 60 a.C., in quel casino, una testa tricefala prese in mano le redini delle Istituzioni. E siamo arrivati al cosiddetto Primo Triumvirato tra Cesare, il nuovo capo dei popolari, Pompeo Magno, il generalissimo e Crasso, il ricchissimo: un patto d’acciaio per governare Roma.

    DUE - Cesare in Gallia. La guerra contro gli Elvezi

    Come previsto dall’accordo tra i tre big, Cesare fu eletto Console nel 59 a.C., insieme a Bibulo, un conservatore ottuso, un perdente nato. A fine mandato gli venne affidato per cinque anni il proconsolato della Gallia cosiddetta togata (la Gallia Cisalpina - l’Italia settentrionale, l’Emilia Romagna e parte delle Marche - e la Gallia Narbonense, il sud della Francia) e, anche, dell’Illiria. Tra i Triumviri, il vero riformista era Giulio, aveva in mente un razionale progetto politico per modernizzare le Istituzioni, non più adeguate ad amministrare uno Stato diventato troppo esteso ma doveva vincere una guerra in modo da accrescere, attraverso uno strepitoso successo, il suo peso politico all’interno della vita pubblica romana e, soprattutto, il conto in banca, da anni in rosso. Mise nel mirino la Gallia chiomata (così detta per gli abitanti zazzeruti, ancora non romanizzati).

    Gallia est omnis divisa in partes tres (La Gallia nel suo insieme è divisa in tre parti), tre grandi blocchi, i Belgi, gli Aquitani e i Galli veri e propri, chiamati in lingua locale Celti. In sostanza il territorio della Francia, Svizzera, Belgio, il sud dell’Olanda e un pezzo di Germania, abitato da un’insalatona di popoli, sempre in lotta tra loro.

    Da Proconsole della Gallia togata (i cittadini indossavano la toga, erano stati civilizzati) e dell’Illiria, Caio Giulio Cesare comandava, in autonomia, le legioni che le presidiavano, aveva, quindi, le risorse per puntare alla conquista di quel grande paese da secoli nostro incubo. Con una vittoria avrebbe reso sicure le frontiere della Cisalpina ed eliminato la minaccia d’incursioni da nord, compreso lo spettro rappresentato dai pericolosi Germani Svevi che da un po’ di tempo si erano insediati oltre il Reno.

    Aveva, però, bisogno di un pretesto per scatenare la guerra.

    Ed eccoli gli Svizzeri a offrirglielo su un piatto d’argento: volevano emigrare a ovest passando per la Narbonense senza chiedere il permesso al Senato. Ai primi di marzo del 58 a.C. si stavano radunando dalle parti di Ginevra, a inizio aprile intendevano attraversare il Rodano; erano quasi quattrocentomila, abbastanza selvaggi, un viaggio lungo, avrebbero devastato la Provincia.

    CGC non poteva fare lo gnorri.

    Quando venne informato della cosa dall’efficiente servizio di spionaggio, non aspettò un attimo, partì sparato da Roma insieme a Tito Labieno (allora era il suo fidato braccio destro, sapete bene come poi è andata a finire) e il 28/03/58 a.C., a tempo di record (otto giorni), arrivò a Ginevra. Mille chilometri e le Alpi d’attraversare, mica una gita fuori porta: facevo parte della mini spedizione perché avevo accettato la proposta di dargli una mano, per amicizia, anche se avrei preferito restarmene a casa: non sono un tipo particolarmente portato a soffrire, ad affrontare i sacrifici di una campagna militare.

    Sul posto, CGC si mise subito al lavoro: reclutare nuovi soldati, tagliare il ponte sul Rodano, unico punto da quelle parti per attraversarlo, fortificarne le sponde per impedirne il guado.

    Un fastidio inaspettato per gli Elvezi: avrebbero dovuto trattare e non con dei provinciali, con la super potenza romana e con un Proconsole tosto. Erano consapevoli che sarebbe stato difficile spuntarla.

    E così fu.

    Caio G. Cesare portò abilmente avanti il negoziato per due settimane al solo scopo di potenziare le strutture per bloccare i passaggi verso la Narbonense.

    Alla fine, il 13/04/58 a.C., gli ambasciatori Svizzeri si beccarono la brutta notizia: le tradizioni e le leggi del popolo romano non consentivano a Cesare di autorizzare gente armata ad attraversare la Provincia. I Celti, idrofobi, cercarono di passare lo stesso, con la forza. Provarono a guadare il fiume a ovest di Ginevra, dove era meno profondo: toppa. Tentarono con zattere e barconi legati insieme: un buco nell’acqua. Non gli rimaneva che valicare le montagne del Giura, un percorso accidentato, tra gole strette, pieno d’ostacoli e nel territorio dei Sequani, non proprio amici. Poiché pochi uomini avrebbero potuto impedirgli il passaggio, dovevano accordarsi con i confinanti.

    Un negoziato, anche questo, lungo e dall’esito incerto. Infatti, durò settimane, utilizzate dal nostro Comandante per procurarsi altre truppe. Era rientrato a scheggia in Italia, aveva radunato venticinquemila soldati ed era tornato in Gallia.

    A maggio era in grado di superare il Rodano alla confluenza con l’Arar (Saona), a Lione, ed entrare in territorio gallico con un potente esercito. Un’impresa da guinness dei primati: in un mese aveva organizzato una vera armata e l’aveva portata al confine con la Gallia chiomata.

    Gli Elvezi, finalmente, conclusero le trattative. Ottennero il permesso di passare e avviarono truppe e popolazione in lunga colonna verso le strette gole tra il Giura e il Rodano.

    Scavalcate a fatica le montagne, i soldati, com’era prevedibile, non seppero resistere alla tentazione di saccheggiare le ricche campagne il che mandò i Celti locali su tutte le furie. Questi chiesero aiuto a Cesare: oltre a implorare il suo intervento militare, gli offrirono rifornimenti e l’appoggio della cavalleria.

    Proprio a cecio (quello che ci voleva), la legittimazione della guerra: legioni in marcia per avvicinarsi ai razziatori Svizzeri. Il 5 giugno CGC li incocciò mentre stavano attraversando l’Arar (Saona) in Borgogna, da pecionari, con zatteracce sganganate, in confusione, disorganizzati, alla sanfrasò (termine napoletano per dire senza cura dal francese sans façon, senza modo. In romano "sinfrasò). La maggior parte aveva oltrepassato il fiume, quelli della retroguardia, novantamila persone, dovevano ancora farlo.

    Un’occasione da sfruttare: Caio G. Cesare gli inviò contro tre legioni guidate da Labieno. All’alba arrivarono sul posto. Immaginate quasi centomila persone tra soldati, donne, bambini e vecchi che si arrabattavano nel tentativo di traghettare e quindicimila legionari armati che le assalivano.

    Uccisero quasi tutti.

    Pochi si salvarono. Quando arrivammo noi la campagna era piena di cadaveri: per la prima volta in vita mia ho sentito l’odore triste della morte: è incancellabile, ancora ne avverto le sfumature.

    Il giorno dopo CGC ordinò di costruire un ponte sull’Arar (Saona), portò le truppe dall’altra parte e iniziò la caccia al grosso della spedizione.

    Che cosa potevano fare quei poveracci? In una mattinata avevamo fatto quello che loro non avevano portato a termine in venti giorni, gli sembrammo provenienti da un altro pianeta, extraterrestri: inviarono ambasciatori per dire a Cesare che non volevano la guerra e che erano disponibili ad andare in qualsiasi regione avesse scelto per loro. A lui neanche passava per l’anticamera del cervello l’idea di trattare, pretese condizioni inaccettabili, i barbari le rifiutarono e proseguirono verso ovest con noi alle calcagna.

    Marciammo per quindici giorni, gli Elvezi avanti, il nostro esercito dietro a non più di una decina di chilometri. Come un falco che segue la preda, Cesare aspettava il momento opportuno per colpire e, finalmente, capitò: i nemici si erano fermati ai piedi di una collina laggiù, qualche chilometro avanti.

    Durante la notte Labieno portò silenziosamente due legioni in cima al monte che sovrastava il bivacco degli Elvetici: doveva aggredirli scendendo dall’altura nel momento in cui sarebbero arrivate le truppe ad attaccare dalla pianura. All’alba Giulio fece uscire l’esercito ma, arrivato a circa due chilometri dal campo nemico, nel punto previsto per iniziare l’assalto, la paura fece vedere lucciole per lanterne ad un centurione e il piano andò a monte. Considio, il centurione impaurito, al quale la fifa aveva fatto scambiare per Galli i romani di Labieno che occupavano la collina sopra il bivacco e l’aveva comunicato a Cesare bloccando l’operazione, quel giorno passò un brutto quarto d’ora.

    Non per il fallito attacco, il Capo cambiò il modo di fare la guerra perché voleva rifornirsi: si trovava a poco più di venti chilometri da Bibracte (Mont-Beuvray), la città più ricca degli alleati Galli (Edui), e mancavano due giorni alla distribuzione mensile del frumento ai soldati, per cui ordinò di non proseguire il tallonamento. Imboccammo la strada, impervia, che ci portava alla capitale degli Edui.

    Era una manovra che se pur fatta per soddisfare un’esigenza logistica ingannò gli Elvezi: credevano che il Proconsole volesse abbandonare la caccia, che fosse impaurito anche perché il giorno prima non li aveva attaccati da posizione vantaggiosa. Decisero di passare all’offensiva, di tagliarci la via verso i rifornimenti e ingaggiare battaglia.

    Le armate entrarono in contatto e ci fu un combattimento durissimo. Mi sembra di rivivere adesso quella giornata: il mio battesimo di guerra.

    Un breve scontro con la retroguardia e appare in lontananza l’esercito nemico, Cesare studia il teatro delle operazioni. Non lascia mai niente al caso, ha sangue freddo e coraggio. Manda la cavalleria contro i barbari per rallentarne i movimenti e avere, così, la possibilità di sistemare le truppe sul colle vicino, in posizione favorevole. In un nanosecondo completa lo schieramento, le quattro legioni veterane si trovano a mezza altezza sull’altura, allineate in tre file, le due inesperte, reclutate da poco, sono in cima, insieme alle truppe ausiliarie e ai bagagli. Fortificano il sito.

    Prevede una battaglia molto dura, l’avversario è forte e numericamente superiore. Manca poco all’inizio, gli portano il cavallo, lo rifiuta. Un gesto per incoraggiarci. Me ne servirò - dice a gran voce - per l’inseguimento dopo la vittoria, ora andiamo a combattere. Il suo principio: è vietato imboscarsi in battaglia, comandanti e soldati devono affrontare gli stessi rischi, nessuno può sperare di svicolare. Ordina a noi ufficiali di non usare cavalli e si avvia a piedi. Lo seguiamo.

    Gli Elvezi hanno messo i carri in un punto poco distante, si schierano a falange, respingono l’assalto della nostra cavalleria e si dirigono verso l’altura, verso le legioni sistemate a metà del colle, in posizione molto migliore rispetto a loro che attaccano. Appena arrivano a tiro, partono ondate successive di giavellotti. Scagliati dall’alto, acquistano una forza di penetrazione devastante, in più, quelli costruiti nelle nostre officine hanno la caratteristica di piegarsi nell’impatto per cui è difficilissimo estrarli da dove si conficcano e non possono essere riutilizzati dai nemici. Il bombardamento ha scompigliato le linee dei Celti, gli uomini sono in difficoltà. Molti tentano di tirar via il giavellotto infilzato nello scudo. Non ci riescono.

    È il momento di attaccare con le spade in pugno; via, alla carica. Di fronte ci sono soldati che si difendono a fatica, con il braccio sinistro impedito. Parecchi scrollano a lungo lo scudo e dopo qualche inutile tentativo, preferiscono gettarlo e lottare nudo corpore, senza protezione. Inizia una mischia furibonda, violenta.

    La battaglia va molto per le lunghe. Sebbene fossero in superiorità numerica a un certo punto gli Elvezi, stanchi e feriti, cominciano a ripiegare ordinatamente verso una collina lontana un chilometro e mezzo. Sono rocciosi, impetuosi e tanti ma pur sempre contadini momentaneamente prestati alla guerra, non soldati professionisti, disciplinati, allenati fisicamente e psicologicamente preparati come i nostri.

    Mentre i legionari si avvicinano al colle per aggredirli, arriva la retroguardia barbara che tenta l’aggiramento. Una manovra efficace; gli Elvezi in ripiegamento si fermano e passano al contrattacco. Stringono le legioni in una morsa, allora Cesare cambia formazione, le schiera in modo da combattere su due fronti. Un ordine secco, ottima l’esecuzione, un meccanismo perfetto. Adesso è proprio lotta violenta, cresce d’intensità, e sembra non finire mai.

    Il sole sta per tramontare e ancora si lotta. Finalmente, verso sera, gli Elvezi mollano. Una parte ripiega sulla collina vicina mentre l’altra va verso i carri. Hanno preso una sonora batosta, sono sderenati, demoralizzati e mancano all’appello un sacco di compagni.

    Il combattimento era iniziato all’una dopo mezzogiorno e solo alle otto di sera gli Svizzeri gettarono la spugna senza, però, scappare in modo disordinato. E se non c’è la fuga di una delle parti, le battaglie non terminano, per questo i nostri furono impegnati nelle ore successive a stanarli da dove si erano rifugiati e a ucciderli. Tutto finì a notte inoltrata con l’occupazione del campo. Di quasi quattrocentomila soltanto centotrentamila si salvarono dalla carneficina.

    Si arresero qualche giorno dopo.

    Cesare non li uccise tutti di proposito, li rispedì a casa loro a fare da baluardo contro il vero pericolo per l’Italia: i Germani. Non poteva permettere che, richiamati dalla fertilità e dalle ricchezze delle terre svizzere, i terribili Tedeschi attraversassero il Reno per insediarsi al confine con la Provincia.

    Era la fine di luglio dell’anno 58 a.C., Giulio aveva vinto un’importante guerra, contro un popolo considerato tra i più potenti dei Galli (per le mappe dettagliate delle zone, cercare con google, immagini, cesare contro gli elvezi). Festeggiamenti a Roma.

    TRE - Ora tocca ai Tedeschi

    Da tempo i Germani Svevi di Ariovisto imperversavano di qua dal Reno, chiamati dai Galli a dirimere questioni interne. Questi sì che rappresentavano una minaccia concreta per l’Italia, o meglio, il vero ostacolo alla conquista della Gallia: si erano stabiliti nelle regioni più fertili; la facevano da padroni, tiranni; non avevano la minima intenzione d’andarsene; erano crudeli e prepotenti.

    Un altro intralcio: il Senato di Roma considerava Ariovisto amico. Noi sapevamo quanto fossero forti in battaglia, e spietati, in più voci di popolo li descrivevano di statura gigantesca, con facce spigolose, aspetto truce. Ma Cesare aveva addentato la Gallia e non la mollava: doveva trasformare gli Svevi in nemici, in gente da temere e combatterli per salvaguardare la sicurezza di Roma.

    Aveva bisogno, innanzi tutto, del supporto dei Galli per i rifornimenti e furono proprio loro a offrirglielo per liberarsi dei Tedeschi: non ce la facevano a sopportare altre vessazioni.

    Sistemata la prima esigenza, doveva provocare Ariovisto per indurlo ad assumere un atteggiamento che fosse considerato pericoloso dal Senato.

    Non fu, poi, così difficile. Gli chiese un incontro e il crucco rispose picche: non era ancora abbastanza per dichiarare guerra. Allora gli scrisse di smetterla con le prepotenze verso i Galli alleati di Roma e con i trasferimenti di altri Germani di qua dal Reno. Se avesse ubbidito sarebbe stato per sempre amico di Roma.

    Era come gettare pece infiammabile sul fuoco.

    Come sperato, Ariovisto reagì con asprezza, magari aggiungendo un po’ troppa arroganza. In poche parole replicò che voleva governare, senza interferenze, i popoli soggiogati, che manco ci pensava a interrompere i trasferimenti di Svevi in Gallia e che se ne sbatteva dell’amicizia del popolo romano.

    Mò Ariovisto aveva fatto la pipì fuori dal vaso. Aveva offeso lui e Roma: bisognava agire, fargli rimangiare gli insulti.

    Si era mosso da qualche giorno per andare incontro ai crucchi quando a CGC giunse notizia che Ariovisto si stava dirigendo verso Vesonzione (Besançon) per impadronirsene. Era necessario anticiparlo e occuparla; in tre giorni, marciando anche di notte, le legioni percorsero più di centocinquanta chilometri, arrivarono prima dei Tedeschi e si accamparono appena fuori le mura. Una faticaccia.

    Il Capo concesse a tutti un po’ di riposo in città.

    Quei pochi giorni a Vesonzione (Besançon) furono proprio deleteri, per niente sereni. Dai locali, i ragazzi sentirono chiacchiere agghiaccianti sui Germani: bestie, non esseri umani; uomini dotati di una forza fisica formidabile, brutali, enormi, taglia extralarge tutta muscoli, da restarne scioccati solo a guardarli.

    All’inizio si spaventarono soltanto in pochi, in particolare alcuni del codazzo di Cesare non abituati alla guerra che chiesero, invano, di rientrare a Roma per risolvere improvvise e urgenti questioni personali. Poi, piano piano, la paura si diffuse in tutto l’esercito, a ogni livello, anche tra i veterani. Ho visto e sentito, e non solo soldati semplici, piangere in tenda maledicendo il momento del loro arrivo in Gallia, oppure, i più coraggiosi, fare testamento. A dir la verità, cominciai ad essere preoccupato.

    Si lamentavano tutti. Il terrore si era generalizzato, molti arrivarono a dire che non avrebbero rispettato l’ordine di marciare contro quelle belve. Quando Cesare lo venne a sapere, prese di petto la situazione, e a brutto muso. Convocò i Tribuni militari e i centurioni in assemblea e fece un lungo discorso, ad alta voce per farsi sentire anche fuori dalla tenda. Ci andò con la mano molto pesante, toccando il tasto della dignità, dell’orgoglio, della disciplina e, soprattutto, della vigliaccheria e del coraggio. Alla fine disse: Toglierò il campo verso le tre di domani mattina in modo da verificare subito se per i miei uomini vale di più il senso del dovere e dell’onore che la paura.

    Poi, da vecchia volpe com’è, la botta finale:

    E se nessuno mi seguirà, non preoccupatevi, uscirò con i legionari della decima, soldati che neanche del diavolo hanno paura: mi scorteranno loro. Gli altri potranno rimanere qui al sicuro, non saranno attaccati dai Germani.

    E se ne andò, irritato.

    I ragazzi della decima erano in un brodo di giuggiole per l’alta considerazione che Cesare aveva di loro, tutti gli altri, feriti nell’amor proprio, umiliati, implorarono i rispettivi Ufficiali di dire al Capo che c’era stato un malinteso: non vedevano l’ora di affrontare quei selleroni di tedeschi. Ma quale terribili? Erano dei sallucchioni e basta. In serata, nel campo, non si faceva che parlare di quanto fossero grossi e fregnoni i Germani.

    In perfetto orario, CGC fece uscire l’esercito, alle tre di notte, e in sei giorni di marcia arrivò in Alsazia, a trentacinque chilometri dalle truppe germaniche. Con la nostra armata nelle vicinanze, Ariovisto abbassò la cresta. Credo che abbia pensato: Bassetti ma coraggiosi, e Cesare, uno tosto davvero. Inviò ambasciatori al Proconsole delle Gallie per annunciargli di voler trattare. Decisero d’incontrarsi dopo cinque giorni su un’altura che dominava la pianura, a metà strada tra i due eserciti, ognuno protetto dalla propria cavalleria, da tenere ai piedi del colle, a trecento metri di distanza da loro due che parlavano, soli, senza neanche gli interpreti.

    Un colloquio di quelli che passeranno alla storia: Caio Giulio prese la parola per primo in segno di cortesia, per dimostrare allo Svevo, e a noi, il desiderio di giungere a un’intesa. Fu breve e conciso: gli ricordò i benefici ottenuti dal Senato di Roma, gli rinnovò la precedente richiesta di smetterla con le prepotenze e di interrompere il trasferimento di altri Germani oltre il Reno.

    Ariovisto rispose freddo e irremovibile, con lo stesso tono del messaggio scritto: non intendeva rinunciare alla Gallia, all’amicizia con i romani ci teneva ma avrebbe dovuto portargli vantaggi e non oneri e non intendeva discutere dell’argomento Svevi in Gallia. Terminò con due chicche, la prima: ….molte persone, nella tua tanto amata Roma, ti preferirebbero morto. E non dico fanfaronate, nobili e gente influente della Capitale mi hanno comunicato, per mezzo di messaggeri, che se io ti uccidessi guadagnerei, oltre a una bella somma in denaro, la loro gratitudine. La seconda, gli propose la spartizione del mondo: Se mi lasci la Gallia, ti aiuto a conquistare il resto del mondo.

    Mentre Caio G. Cesare stava replicando, alcuni cavalieri Tedeschi si avvicinarono alla nostra scorta in pianura e la bombardarono con sassi e frecce. Ferirono alcuni soldati. Allora Giulio, arrabbiatissimo, chiuse in fretta il discorso, raggiunse i cavalieri e rientrò.

    Ci mise poco a spargersi la voce nel campo: Ariovisto era stato arrogante, i suoi avevano avuto un comportamento infame e interrotto la trattativa con un attacco a tradimento. Le due cose suscitarono profonda indignazione tra i ragazzi: volevano reagire subito per punire i barbari. Ormai era guerra a tutti gli effetti.

    Un paio di giorni dopo, Ariovisto spostò l’esercito ai piedi di un monte a nove chilometri dal nostro. Poi mosse di altri tre chilometri per bloccarci i rifornimenti, infatti, i Galli alleati non riuscivano a raggiungerci. Cesare doveva fare qualcosa, per esempio, combattere. Per cinque giorni consecutivi schierò le truppe in formazione di battaglia ma i crucchi se ne restarono rintanati nel bivacco: strano.

    Eravamo negli impicci, per uscirne, il sesto giorno CGC ordinò di costruire un altro campo a circa un chilometro dalla tendopoli nemica e schierò l’intero esercito a protezione dei lavori.

    Ariovisto tentò un’azione di disturbo; fu un flop. A mezzogiorno del giorno successivo, i tedeschi provarono ad attaccare il nuovo fortino; rientrarono al tramonto senza aver concluso granché.

    Quello che ci appariva inspiegabile era il rifiuto dei Germani di affrontare battaglia in campo aperto. Tutto fu chiaro quando Cesare interrogò un prigioniero: venne a sapere che gli indovini avevano predetto agli Svevi, molto superstiziosi, che non avrebbero vinto se avessero combattuto prima della luna nuova. Allora decise di attaccarli subito: meglio affrontare quei giuggioloni emotivamente sfiduciati piuttosto che su di giri, dopo la nuova fase lunare.

    L’indomani uscì con l’esercito al completo, marciò minaccioso verso il bivacco, al che Ariovisto fu costretto a schierare le truppe: un’immensa armata di giganti, centomila. Alle spalle avevano le donne che si sgolavano a urlare che non volevano diventare schiave di Roma. Da far venire la tremarella anche ai più coraggiosi.

    Alti squilli di tromba: il segnale d’inizio battaglia. Giulio Cesare ordinò di attaccare l’ala destra che sembrava il loro punto debole. Anche i bestioni avanzarono inquadrati a falange, con tale velocità che i legionari non fecero in tempo a lanciare i micidiali giavellotti. Si scatenò l’inferno, un corpo a corpo selvaggio.

    Caracche (la caracca è una nave, a Roma è sinonimo di botta, colpo, percussione) violente, alla cieca, per parecchie ore. I Germani erano tanti, grossi, molto forti e mettevano paura. I nostri soldati sono i migliori del mondo, piccoletti rispetto a loro ma addestrati, allenati quotidianamente, disciplinati, professionisti della guerra e avevano tanta rabbia in corpo che i più assatanati dell’ala sinistra salirono sul tetto di scudi formato dalla falange tedesca, tolsero con le mani i ripari, il loro pavimento provvisorio, e ammazzarono un sacco di barbari. L’azione aveva consentito ai nostri di prendere il sopravvento da quella parte, i Tedeschi indietreggiarono in ordine, invece, a destra, dove la loro superiorità numerica era netta, stavano avendo la meglio. Per fortuna P. Crasso, comandante della cavalleria, se ne accorse: aveva una visione completa del campo di battaglia e fu rapido a inviare nella zona critica la terza linea dello schieramento, libera da impegni. Il combattimento divenne ancora più violento: l’arrivo dei rinforzi aveva incoraggiato i legionari e i marcantoni tedeschi erano stati pronti a reagire.

    Grida, rumore, un gran polverone, sangue.

    Ancora ore, molto più lunghe delle normali, di mischie furibonde, finché i Germani non ce la fecero più. Erano spompati, di botto voltarono le spalle e cominciarono a correre; avevano nelle gambe soltanto un rimasuglio di forza per scappare.

    Arrivarono fino al Reno, distante quasi sette chilometri dal luogo della battaglia (Cernay, vicino Mulhouse). Pochissimi riuscirono ad attraversarlo usando zattere rimediate sul posto, ancora meno a nuoto. Gli altri furono raggiunti dalla cavalleria e fatti a pezzi. Ariovisto morì in Germania, qualche giorno dopo, per le ferite riportate. Contammo ottantamila morti tra i Tedeschi, modeste le nostre perdite: era metà settembre del 58 a.C. (per le mappe dettagliate dei percorsi cercare su google, immagini, Cesare contro Ariovisto).

    Non male, in meno di sei mesi di guerra, avevamo sconfitto gli Elvezi, ritenuti molto potenti, e i feroci Germani. Cesare divenne popolarissimo in Gallia, e anche temuto, oltre che rispettato. Lo considerarono un grande, un generale di valore straordinario.

    Si avvicinava l’inverno, tempo di riposo per l’esercito: CGC lo lasciò a svernare in Alsazia agli ordini di Tito Labieno e partì per la Gallia Cisalpina, dove rimase fino alla primavera successiva a svolgere la funzione di Proconsole.

    QUATTRO - A nord, per mettere le cose in chiaro

    Nonostante l’eco delle vittorie avesse fatto nascere tra i Galli una sorta di timore reverenziale per i romani e, in particolare per Giulio, a nord si preparavano a combattere. I popoli del Belgio, meticciati con i Tedeschi e quindi belli tosti, selvaggi, ma non con gli orecchini al naso, erano convinti che Cesare, una volta conquistata la Gallia, avrebbe tentato di sottomettere pure loro. In più, i Celti che abitavano l’Alsazia e le regioni limitrofe, non sopportavano le nostre truppe d’occupazione, per cui incitavano i Belgi a impugnare le armi contro quelli che ormai giudicavano invasori.

    CGC lo venne a sapere da Labieno, a sua volta informato dalla fitta rete di spie disseminate nel territorio. Doveva fare presto, arruolò in Cisalpina due legioni e, all’inizio della primavera del 57 a.C., le trasferì in Alsazia. A maggio raggiunse l’esercito, formato da otto legioni, da ausiliari dei Galli alleati (Edui, Carnuti e Lingoni), da truppe di fanti Numidi, di arcieri Cretesi e di frombolieri delle isole Baleari. In tutto quasi cinquantamila uomini.

    In effetti, non era da stare allegri, peggio di quanto Giulio avesse immaginato. Gli comunicarono che i popoli della Gallia Belgica, di comune accordo, avevano dichiarato guerra ai romani e stavano concentrando un immenso esercito in un posto a nord del fiume Axona (Aisne).

    Via, in marcia: l’armata si mosse a tutta callara (velocità) e in quindici giorni giunse al confine del Belgio (all’epoca poco a nord di Parigi). I rivoltosi non si aspettavano tanta rapidità, cosicché i Remi, gente tranquilla che abita i dintorni di Durocorturum (Reims), i più vicini alla Gallia, inviarono ambasciatori a dichiarare che non intendevano entrare in conflitto con Roma. E non solo, spifferarono a Giulio che i Germani stanziati di qua dal Reno si erano alleati con i Belgi e, insieme, avevano formato un’armata come mai si era vista da quelle parti: trecentomila (300.000) uomini.

    Una brutta gatta da pelare, comunque Cesare pensò che ce l’avrebbe fatta: non ragiona con il normale metro degli umani.

    Usò i soldati degli alleati Galli, affidati a Diviziaco, capo degli Edui, per un’azione di disturbo in modo da frazionare l’esercito nemico. Partirono immediatamente. Obiettivo: invadere il territorio dei Bellovaci, i più potenti tra i rivoltosi, e devastare pascoli e raccolti. Qualcuno sarebbe accorso a parare la mossa.

    Lui portò le legioni verso i trecentomila che stavano scendendo a sud. Oltrepassò il fiume Axona (Aisne) e sistemò le truppe appena di là, su una dolce collina. Tre lati del campo erano fortificati con il sistema tradizionale (fossato, terrapieno e palizzata), il quarto era difeso dal fiume. Da quella parte c’era un ponte; comandò a Titurio Sabino di attraversarlo con tremila soldati e di costruire al suo ridosso un accampamento, anche quello su tre lati ma più piccolo del principale. Un arroccamento che metteva al sicuro gli uomini e garantiva i rifornimenti perché i nostri controllavano entrambe le rive. Lì aspettò la grande armata nemica.

    Prima di attaccare Cesare, i Belgi volevano distruggere Bibrax per punire i traditori Remi. È una loro città importante, distante dodici chilometri dal nostro campo. E ci stavano quasi per riuscire, solo che intervennero le truppe ausiliarie inviate da Giulio in soccorso. Allora i Belgi mollarono l’osso, saccheggiarono la campagna intorno alla città, incendiarono un paio di villaggi vicini, un po’ di case isolate, si misero in marcia verso di noi e si fermarono a meno di tre chilometri; un bivacco immenso, si estendeva per più di dieci chilometri.

    L’ho visto: non finiva mai, trecentomila soldati accampati. Mi vennero i brividi.

    Non era semplice prendere di petto quell’ingente numero di energumeni che si diceva in giro fossero molto forti. Cesare decise di temporeggiare. Teneva i soldati rintanati nel doppio fortino e ogni giorno ingaggiava mini battaglie di cavalleria per studiare il modo di combattere dei nemici e il coraggio dei nostri. Dopo qualche scaramuccia, uscì con l’esercito e lo piazzò in formazione da combattimento a metà dell’altura, davanti all’accampamento.

    Anche i Celti-Germani si schierarono, in pianura, pronti a battersi.

    C’era una piccola palude tra le due armate, per attaccare, ognuno dei due comandanti aspettava che l’altro la facesse attraversare ai suoi: truppe immobili.

    Ore di attesa, poi l’ordine del Proconsole: rientrare. Quando i Belgi videro le legioni tornare nel campo, scattarono verso il fiume Axona (Aisne) per attraversarlo e assaltare la fortificazione minore. Fu una mossa avventata, infatti, Cesare spedì da quella parte la cavalleria, la fanteria leggera dei Numidi, i frombolieri e gli arcieri che bombardarono di frecce e sassi gli aggressori quando stavano in mezzo al guado. Ne mandarono al creatore tantissimi, bloccarono l’incursione, poi i cavalieri circondarono e fecero a pezzi tutti quelli che erano già passati.

    Una mazzata al morale dei barbari.

    Presentimenti negativi nel bivacco belga - il destino dei semplici: si esaltano per un niente e altrettanto facilmente si avviliscono - eppoi cominciavano a scarseggiare i rifornimenti. Il Capo, Re Galba, convocò il Consiglio di guerra per definire la nuova agenda: stabilirono di tornare nelle proprie regioni; nel caso gli invasori fossero entrati in Belgio, avrebbero radunato in fretta gli eserciti e attaccato.

    Un altro motivo li spingeva ad andarsene: i soldati Bellovaci, i più forti e numerosi della coalizione, alla notizia che i Galli Edui di Diviziaco stavano entrando nel loro territorio, avevano deciso di accorrere a proteggere il paese, anzi erano già in movimento.

    È proprio vero, i barbari sono dei bambinoni: subito dopo la riunione, la sera, alcune tribù tolsero le tende per essere le prime a smammare. Successe un quarantotto: come se fosse stato dato il via, tutti Belgi si affrettarono a partire. Trecentomila persone che si muovono contemporaneamente con cavalli, carri, armi e bagagli ne creano di casino; nessuno prese in mano la situazione per tentare di mettere un po’ d’ordine. Presto il caos degenerò, ogni gruppo cercava di superare quello davanti, gli uomini urlavano, bestemmiavano, alcuni fecero anche a botte. Sembrava stessero fuggendo.

    Cesare lasciò fare, non riusciva a trovare un senso a quella mossa irrazionale, temeva fosse una trappola. All’alba gli confermarono che la ritirata dei Belgi era una baraonda, ogni tribù procedeva per conto proprio e senza alcuna copertura. Allora, inviò al loro inseguimento la cavalleria al comando di Quinto Pedio e Lucio Aurunculeio Cotta, Labieno la seguiva con tre legioni. Non fui coinvolto.

    Al ritorno della missione i protagonisti ci raccontarono com’erano andate le cose, pressappoco così. In poco tempo abbiamo raggiunto i gruppetti partiti per ultimi, erano sbandati. Li abbiamo assaliti e sgominati. Poi, abbiamo continuato a risalire la lunga, sparpagliata colonna sgozzando i barbari che incontravamo. Siamo andati sempre più avanti, i Belgi facilitavano il nostro lavoro, non combattevano, correvano, si facevano ammazzare e basta. È stata una strage, un’intera giornata passata a trucidare gente.

    Uno degli ufficiali ci disse che le paludi erano diventate percorribili a piedi per via del gran numero di cadaveri che le ricoprivano.

    Avevano decimato un’armata di trecentomila soldati: giugno del 57 a.C.

    Ormai era fatta, nessuno poteva più fermare Cesare. Portò le truppe nel territorio dei vicini Suessioni, verso la capitale Noviodunum (Pommiers). La circondò e in un giorno i nostri costruirono opere d’ingegneria militare così spettacolari da spaventare i rozzi Belgi.

    Si arresero senza combattere.

    Poi, Giulio andò contro i Bellovaci. Abitano poco a nord di Lutetia Parisorum (Parigi); tosti e tanti. Entrato nel loro territorio, i barbari gettarono la spugna e non fiatarono; si era sparsa la voce che i romani fossero diabolici, provenienti da un altro mondo, imbattibili. Tolte le armi ai soldati della gente più potente tra i Belgi, Cesare condusse le legioni in direzione degli Ambiani di Samarobriva (Amiens). Capitolarono immediatamente.

    Per completare l’opera mancavano all’appello le selvagge tribù del nord.

    Toccava per primi ai Nervi: popolo fortissimo, uomini molto coraggiosi. Mai avevano permesso ai commercianti stranieri di entrare nelle loro terre a importare vino e prodotti di lusso perché temevano potessero indebolire il fisico e il morale della gente. Ci odiavano, si erano preparati a rispedirci a casa. Insieme agli Atrebati e ai Viromandui avevano formato un esercito di circa sessantamila uomini e stavano per arrivare i soldati degli Aduatuci. Donne, bambini, vecchi e quelli non in grado di combattere li avevano portati al riparo tra le paludi.

    Minacciose, le legioni romane arrivarono nelle terre dei Nervi in tre giorni di marcia: CGC sapeva che lo stavano aspettando di là del fiume Sabis (Sambre). Il luogo scelto dagli esploratori per il campo era su una collina che scendeva verso il fiume, dall’altra parte, proprio di fronte, un altro colle saliva con pendenze regolari, quasi interamente coperto da un fitto bosco. Per raggiungere quel posto, Giulio aveva mandato in avanscoperta la cavalleria con gli ausiliari, lui seguiva con il resto delle truppe: sei legioni senza bagagli avanti, poi i carri con l’equipaggiamento dell’esercito, le altre due legioni chiudevano l’ordine di marcia. Io stavo con la retroguardia.

    Quando l’avanguardia giunse nella zona individuata, un battaglione di cavalieri barbari gironzolava oltre la Sabis (Sambre) sicché i nostri uomini a cavallo decisero di attraversare il fiume per allontanarli. Li attaccarono, loro prima scapparono per rifugiarsi nel bosco, poi contrattaccarono ma come furono di nuovo assaliti, si rintanarono, e così via: durò parecchio. Durante questo tira e molla arrivarono le prime sei legioni, iniziarono a costruire il campo. Legionari tranquilli: i nostri dall’altra parte, il fiume e la collina davano un ampio margine di sicurezza. Invece, i Celti al completo erano nascosti nella boscaglia sul colle di fronte e avevano organizzato le truppe in ordine di combattimento: avrebbero attaccato in forze durante la costruzione dell’accampamento, prima dell’arrivo della seconda parte dell’esercito.

    Di botto, sessantamila barbari schizzarono fuori dal bosco con un boato e giù di corsa dal pendio: sembrava la colata piroclastica di un vulcano in eruzione. I cavalieri e gli ausiliari da quella parte del fiume scapparono come se volassero. Quelli al lavoro sulla collina da quest’altra parte sentirono le urla, un attimo dopo videro un mare di guerrieri che scendeva, attraversava il fiume, in un baleno che stava ai piedi dell’altura occupata da loro, un secondo dopo che saliva.

    Si schierarono appena in tempo, alla rinfusa, le legioni erano separate una dall’altra, vulnerabili. Però, a sinistra c’erano i picciotti della gloriosa nona e decima guidati da Labieno: un breve scontro e ricacciarono verso la Sabis (Sambre) gli Atrebati.

    Li inseguirono, ne ammazzarono un sacco in mezzo al guado e proseguirono oltre il fiume. Anche quelli dell’ottava e dell’undicesima, a destra, avevano respinto e rincorso gli avversari, i Viromandui, fino alla riva. Ma l’avanzamento delle quattro legioni aveva lasciato scoperti i fianchi della dodicesima e della settima, piazzate al centro; i Nervi non si lasciarono sfuggire l’occasione. Incuneandosi nel lato aperto, una parte dei Belgi si avviò verso la sommità della collina dove c’era l’accampamento in costruzione, una parte iniziò la manovra di aggiramento, il grosso si parò di fronte. Poi attaccarono con violenza.

    Menavano forte: pericolo, e sotto l’altura regnava una gran confusione. I cavalieri, che ancora scappavano, erano saliti sul colle per rifugiarsi nel campo ma avevano incocciato i Belgi che volevano occuparlo e via, di nuovo a squagliarsela di corsa. E pure i servi arrivati con il convoglio degli equipaggiamenti crearono casino: visti i nemici sul colle e il fuggi fuggi dei compagni, avevano mollato tutto per filarsela il più velocemente possibile.

    Si era messa proprio male. Nel caos, anche i cavalieri dei Galli Treveri, alleati, considerati molto coraggiosi, vedendo la malparata, si erano allontanati per tornarsene a casa.

    In effetti, quella collina era diventata un calvario. I nostri combattevano ammucchiati, si ostacolavano tra loro, alcuni furono uccisi, parecchi i feriti che neanche riuscivano a muoversi dal posto per curarsi: prendevano botte da tutte le parti. Dalle ultime file in molti abbandonarono la lotta, sfiduciati, certi di non avere possibilità di vincere. E i Nervi incalzavano, premevano a destra, a sinistra, al centro, i ragazzi di Giulio cedevano, piano piano; l’orlo del baratro era vicino.

    Per fortuna Cesare è un tipo che non molla, mai: strappa lo scudo dalle mani di un soldato, sgomita, s’incunea nel mucchio, avanza fino alla prima fila e chiama per nome i centurioni che vede. Incita gli uomini, ordina di allargare gli spazi in modo da combattere meglio e si butta contro i barbari. Colpisce, mena, randella, spinge, trafigge con il gladio. È una scarica di adrenalina pura per i legionari; nessuno vuole essere secondo al coraggio di quell’indemoniato, ognuno getta nella mischia l’ultimo residuo d’energia.

    Adesso combattono con l’anima, ce la mettono tutta e la pressione dei Celti-Germani cala. Cesare è nel cuore della battaglia, si rende conto delle difficoltà causate dalla divisione delle due legioni; ordina di accostarle e compattarle per fare fronte unico contro i nemici.

    Mossa provvidenziale, la svolta.

    Lo scontro è nella fase cruciale, nel momento in cui un niente può cambiarne le sorti ed ecco che arriviamo noi con le due legioni della retroguardia di scorta al convoglio. In un batter d’occhio accorriamo a dare una mano ai compagni. E non solo, giunge in soccorso anche la decima inviata da Tito Labieno che, conquistato il campo nemico dall’altra parte del fiume, si è accorto del pericolo. La situazione si ribalta a nostro favore: adesso sono loro a tribolare.

    Nei miei compagni il morale è salito alle stelle, sono passati dalla paura all’euforia, picchiamo duro; la cavalleria interrompe la fuga, ritorna sul campo di battaglia, perfino i feriti si mettono a lottare, addirittura i servi. I Nervi, però, reagiscono; l’esito della battaglia è ancora aperto a tutti i risultati. Poi, un po’ alla volta, i barbari si afflosciano ma sono ostinati, continuano a resistere, non fuggono sebbene fossero arrivati al punto di non avere più possibilità di sfangarla. Combattono sui corpi dei loro compagni morti, fino all’ultimo uomo. Li abbiamo uccisi tutti.

    Nell’estate del 57 a.C., alla Sabis (Sambre) è stato annientato l’esercito dei Nervi e cancellato dalla storia il loro stesso nome. I più anziani, con le donne e i bambini, si arresero il giorno dopo: dissero a Cesare che erano rimasti in vita tre senatori su seicento e cinquecento soldati su sessantamila. Secondo me, ci comunicarono dei numeri un tantino esagerati per essere compatiti.

    Prima della fine dell’estate, Cesare doveva portare a termine le operazioni a nord: era giunta l’ora dei discendenti dei Cimbri e dei Teutoni, gli Aduatuci, che abitano non lontano dai Nervi (intorno a Liegi). Presumendo che avremmo invaso le loro terre, si erano rifugiati in una città inespugnabile, protetta da dirupi rocciosi molto ripidi che consentivano un unico passaggio, largo circa sessanta metri, difeso da un doppio muro, parecchio alto.

    Impiegammo pochi giorni ad arrivare in prossimità della loro fortezza, altrettanti per costruire una muraglia di quattro chilometri e circondarla. Nel frattempo avevamo cominciato a realizzare una torre, lontana dalla città.

    I barbari ci sfottevano.

    Pensavano che fosse un lavoro del cavolo, che nanerottoli com’eravamo ai loro occhi, non ce l’avremmo fatta a muovere un marchingegno così grande. Quando videro la pesante costruzione avvicinarsi sui rulli se la fecero sotto; ci considerarono esseri umani dotati di poteri soprannaturali, eravamo marziani, nel senso di discendenti dal Dio Marte. Pensarono che solo una forza divina poteva spostare quella torre gigantesca. Si arresero senza combattere.

    Erano dei sempliciotti, ma un po’ paraculi. Come concordato, gettarono le armi dalle mura, non tutte, nella notte sguainarono quelle nascoste e, all'improvviso, uscirono fuori urlanti per rompere l’accerchiamento. Non ce la fecero, morirono in parecchi, rientrarono e alzarono bandiera bianca in modo definitivo. Il giorno successivo, Cesare occupò la

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