Quel che non sai di me
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Anteprima del libro
Quel che non sai di me - Silvia Meconcelli
© Alter Ego s.r.l., Viterbo, 2017
Scatole Parlanti
Collana: Voci
I edizione digitale: novembre 2017
ISBN: 978-88-3281-068-4
Progetto grafico: Luca Verduchi
Tutti i personaggi di questa storia sono frutto della mia fantasia, ogni riferimento a nomi e persone è puramente casuale. Alcuni fatti, come il bombardamento del 26 aprile 1943, l’Eccidio di Maiano Lavacchio e la Liberazione di Grosseto, pur essendo realmente accaduti, sono stati rielaborati e arricchiti dalla mia immaginazione.
www.scatoleparlanti.it
A te, Nina.
"Cos’era la Maremma allora se non un reticolo infinito di verde,
rosso e azzurro, con i pruni che ti tenevano a distanza
e il sole così teso che rincitrulliva: sembrava una terra presa in prestito,
qualcosa che tocchi e poi sparisce, un posto in cui finisci dentro
e dimentichi all’istante dove sei.
Chi l’aveva inventata la Maremma e di chi era?".
(Alessandro Angeli, Nostra patria è il mondo intero)
"I polmoni liberati s’aprivano e per la prima volta respiravo.
Per la prima volta lagrime di riconoscenza mi scendevano sulle labbra.
O era il sapore arso e forte di quel vento che si chinava
sulla mia bocca a baciarmi?".
(Goliarda Sapienza, L’arte della gioia)
1.
C’è silenzio oggi. Troppo silenzio. Sono abituata a venire qui con i ragazzi che riempiono le giornate con le loro urla e le loro risate. Non si zittiscono mai, non si fermano mai. Con loro non c’è tempo per riflettere o per finire un discorso. Loro colmano ogni spazio della giornata e ti fanno stare bene, quando te li porto ti brillano gli occhi e ridi sguaiata. Come se tu fossi piccola come loro. Se tu potessi, scenderesti da quel letto e li porteresti in giardino a giocare a nascondino. Ma oggi i ragazzi non ci sono, li ho lasciati a casa con Alfredo; sai, devono andare a scuola e non possono perdere troppi giorni. Lo so che ti dispiace, l’ho visto dal tuo sguardo quando sono entrata nella stanza. Mi hai guardata sorridente, poi le tue pupille marroni si sono mosse a destra e sinistra alla ricerca di loro e non li hai trovati. Si è spenta una lucina dal tuo sguardo, me ne sono accorta, i tuoi occhi interrogativi indagavano silenziosi.
Ma ci sono io dai, ci sono io, cercherò di bastarti. Certo, io non ti faccio ridere come fanno loro, però ti farò compagnia. Ecco, sì ti farò compagnia, ci proverò. Staremo insieme per qualche giorno, io e te, da sole. Succede raramente, vero? Ora stai lì e mi osservi da quel letto, mi scruti, a cosa pensi? Sono qui di fronte a te che vorrei dirti qualche cosa, ma non esce niente. Non è mai uscito molto dalle nostre bocche, siamo sempre state molto sbrigative, sommarie. Poche parole, essenziali. Adesso però questo silenzio è totale, appena chiudo la bocca e smetto di parlare il vuoto rimbomba. Chissà come mai il silenzio ci fa così paura. Il silenzio è lo specchio dell’anima, ci obbliga alla riflessione. E io non mi sento a mio agio se sto zitta, perché tu mi osservi e non so cosa pensi. Se tu potessi parlarmi ti chiederei cosa pensi, ma non puoi e allora non te lo chiedo. Mi sono sopravvalutata, credevo di essere molto più forte e invece mi sento vulnerabile di fronte al tuo sguardo muto. Mi sento indifesa, disarmata. Come passeranno questi due giorni, così lenti? Forse potrebbe essere il momento giusto per raccontarti un po’ di cose di me, per farmi conoscere meglio; sono tante le cose che non sai di me, mamma. Forse troppe. Potrebbe essere un’idea, che ne pensi? Fammi un cenno con gli occhi, ti va di conoscermi un po’?
2.
Sono venuta a prenderti per riportarti a casa. I medici mi hanno detto che stai meglio, il periodo di riabilitazione è finito. Sono mesi ormai che sei qui e questa stanza ti è familiare, capisco che non sarà facile tornare nella vecchia casa popolare. Le infermiere ti curano, sono gentili ed educate. Qui è tutto pulito, c’è la palestra con gli attrezzi e un bel giardino ricco di alberi e vegetazione, con grandi viali dove le giovani volontarie ti portano a passeggio a respirare l’aria buona di questa bellissima zona della Toscana. Ogni volta che vengo a Volterra a trovarti mi godo il paesaggio incontaminato che trovo lungo la strada piena di curve e, se ho tempo, faccio un giro nelle poche botteghe artigiane rimaste nel centro storico, dove i veri mastri dell’alabastro scolpiscono ancora le loro opere.
Oggi che è l’ultima volta che vengo a Volterra, prima di arrivare da te sono passata a comprare una scacchiera di alabastro che osservavo da mesi in un negozio all’angolo della strada. Il proprietario è un signore di una certa età con la barba bianca e i capelli lunghi legati con un codino dietro la schiena, ha le rughe negli occhi e nella fronte. Mi ha fatto entrare nel negozio e mi ha offerto la sua storia. Così, senza che glielo chiedessi, mi ha raccontato che è in pensione, ma continua a lavorare l’alabastro perché è ancora forte in lui la sensazione di dover creare qualcosa; forse ha paura che il tempo gli sfugga di mano. Sai mamma, mi piace molto giocare a scacchi, mi ha insegnato Alfredo. È un gioco d’intelligenza e di logica, ma anche di intuizione, devi prevedere le mosse dell’avversario e difenderti, e nel frattempo andare avanti con la tua strategia. Generalmente perdo, Alfredo è molto più bravo di me, mi fa scacco matto quasi sempre, però sto affinando le mie mosse. Passiamo le ore a giocare a scacchi in terrazza quando i ragazzi dormono e ci fumiamo un pacchetto di sigarette in due. Sì, non lo sapevi che fumavo? In realtà non fumo veramente mamma, stai tranquilla: potrei stare tutta la settimana senza fumare neppure una sigaretta, ma quando gioco a scacchi ci vuole, mi dà concentrazione.
Insomma, dobbiamo iniziare a preparare le valigie, restiamo qui ancora qualche giorno per sbrigare le pratiche. Devo parlare con il fisioterapista e il logopedista e poi ce ne torniamo a Grosseto. Ho fatto dare una rinfrescatina alla casa popolare, l’ho fatta imbiancare e ho cambiato qualche mobile così da rendere la tua quotidianità più semplice. Ho trovato una signora che vivrà con te, si chiama Liliana, è molto disponibile e gentile. Non mi guardare con quegli occhi, mamma, lo so che non la conosci, ma non puoi vivere da sola. Dovrai fare tanti esercizi a casa e lei ti darà una mano. Non c’è altra soluzione, mamma, non posso portarti a casa con noi, lavoriamo tutto il giorno e i bambini hanno bisogno dei loro spazi. Ti prego rilassati, sei agitata.
Vedrai che andrà tutto bene. Ora ascoltami, ti prego.
Ti ricordi il Casermone? Era lì che andammo a vivere con babbo e i nonni, insieme a tanti grossetani che erano rimasti senza casa a seguito dei vari bombardamenti. Mi ricordo che era una grande area militare, uno spazio enorme, ma misero e precario, dove vivevano circa duecento famiglie sfollate come noi. I vari edifici, che prima della fine della guerra erano stati usati dalle truppe americane, erano formati da grandi stanzoni e capannoni con le pareti scrostate dall’umidità. Il bianco della calce era diventato grigio sporco. A ogni famiglia era stata assegnata una stanza che veniva usata come camera da letto; noi avevamo un ampio locale dove dormivamo tutti insieme io, te, babbo e i nonni. I letti erano separati da tende grigie, così da poter preservare una sorta di intimità visiva, ma non reale, anche se voi vi illudevate che lo fosse. Quelle tende erano un inganno, i rumori non potevano essere isolati e certe notti udivo i sospiri soffocati e accalorati di babbo, che per fortuna duravano pochi minuti, anche se a me sembravano eterni. Il tuo silenzio assoluto, invece, era interrotto solo da un sospiro strozzato che poteva quasi sembrare di sollievo. Perché mi guardi così? Credevate davvero che non vi sentissi? Io dormivo, ma quasi come per magia in quei momenti mi svegliavo sempre e non ne ero affatto felice. Cercavo di non ascoltarvi, ma eravate a due metri da me! Tu non sentivi i respiri gracchianti di nonno e nonna che si alternavano a un ritmo quasi programmato? Dai, non arrossire mamma, ormai sono grande, allora cosa dovevo fare? Mi mettevo il cuscino sopra la testa e facevo finta che fossero i fantasmi della mia fantasia che venivano a farmi visita.
La grande stanza aveva anche un angolo adibito a cucina, con un tavolo di legno e cinque sedie traballanti intrecciate con la corda. Da un lato un piccolo lavabo e una stufa a legna che serviva sia per cucinare che per scaldare l’ambiente. Pochi ciocchi di legno erano accatastati vicino alla parete, per non prendere l’umidità d’inverno. In realtà la cucina serviva a poco, dato che da mangiare non ce n’era. La nostra povertà era assoluta, totale, smisurata, ma quello che vedevamo noi bambini lì dentro era la normalità, la prassi; non ci facevamo tanto caso, ci accontentavamo di avere un tetto e degli amici con cui giocare. L’unico momento critico era quando avevo fame; la fame è una brutta bestia, non puoi vivere senza mangiare. Ti rammenti quando mi preparavi la minestra con la cipolla bruciata? Mamma, io la odiavo. Acqua, sale, cipolla bruciata e stelline. Quell’odore di cipolla bruciata mi dava la nausea e non potevo sopportarlo, avrei preferito non mangiare, ma a volte mi obbligavate. In quei momenti mangiavo controvoglia, quel sapore dolciastro mi rimaneva non solo sulla lingua, ma anche nel naso e nei capelli finché esausta correvo ai bagni in comune a rimettere. Cercavo di non farmi vedere, ma secondo me tu lo sapevi, vero? Poi ve ne accorgeste definitivamente quando non trattenni il vomito e rigettai le stelline nelle scarpe di nonno.
Babbo si arrabbiò tanto.
«Ninaaaa» urlò, «che stai a fa’?».
«Babbo, ho vomitato» gli risposi con le lacrime agli occhi.
«Qual è il tu’ problema? Un ti piace?».
«No babbo, questa cipolla bruciata non mi piace» provai a replicare piagnucolando.
Babbo si alzò dal tavolo con uno scatto, si avvicinò e mi guardò dritto negli occhi. Il suo naso quasi toccava il mio. Sentivo il suo odore pungente avvolgermi, era un effluvio acuto, forte.
«Ti devi accontenta’ bellina, non ti pòi mica permette di sceglie sai? Sei fortunata ad avé un pasto caldo al giorno, vòi per caso mori’ di fame, eh?».
«No babbo, non voglio morire di fame» ma neppure mangiare tutti i giorni questa minestra, ma questo evitai di dirlo. Avevo i brividi addosso. Ti guardai, tu eri lì pronta a intervenire.
Mi tranquillizzasti.
«Vieni, andiamo a lava’ le scarpe di nonno, Cicera» mi dicesti, prendendomi per mano e portandomi al pozzetto pubblico. Lì mi spiegasti che a babbo la minestra piaceva così, che andava accontentato per non farlo arrabbiare troppo e mi promettesti che il giorno dopo mi avresti preparato la stessa pastina senza la cipolla bruciata. Per me fu un sollievo, anche se l’odore in cucina non andò via e dovetti imparare a conviverci.
Perché mi chiamavi Cicera
, mamma? Non me lo hai mai spiegato, forse perché non te l’ho mai chiesto prima d’ora. Tutti gli altri al Casermone mi chiamavano Canapina
, perché avevo i capelli biondi, quasi bianchi, un po’ stopposi, come la canapa. Nonostante mangiassi poco, non stavo male dentro il Casermone; c’erano tanti bambini della mia età e ci divertivamo, eravamo liberi di muoverci e riuscivamo a trovare sempre qualcosa da fare, ci inventavamo i giochi con niente. Non eravamo belli da vedere: eravamo secchi, allampanati, smunti, ma vivaci e svegli come tutte le creature. Nei pomeriggi di pioggia ci riunivamo nello stanzone della vecchia signora Velia, che amava raccontarci le storie dei briganti della Maremma. Ci narrava di qualche suo trisavolo che aveva vissuto nella macchia e che aveva conosciuto i banditi fuorilegge. Ogni storia, anche quelle palesemente inventate sul momento, era come vera perché lei riusciva ad associarla a persone della sua famiglia o ad amici dei suoi parenti. Come quando raccontò l’avventura in cui il Tiburzi aveva assassinato un carabiniere a colpi di baionetta per salvare un suo vecchio zio, che aveva avuto il merito di aver