La scalata della piramide di sale
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Un viaggio nella terra di Sicilia attraverso i suggestivi paesaggi inebriati di colori e profumi tipici dell’isola che si legano a doppio filo alle vicende che hanno come sfondo le bianche distese di sale. Quel bianco ed immacolato sale, raccolto nelle perfette forme geometriche puntute, destinato a sciogliersi nelle vite dei piccoli eroi per dare un nuovo sapore alla loro vita.
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Anteprima del libro
La scalata della piramide di sale - Antonio Conticello
Villaroel)
IL RISVEGLIO
L’immensa palla infuocata si nascondeva dietro il promontorio del grande golfo Xifonio su cui si affaccia il paesino di Austa, situato sul lembo orientale del diamante più prezioso di cui il Padreterno abbia fatto dono all’incantevole Mediterraneo: la terra di Sicilia, culla d’arte e di storia. Il giorno dava i primi timidi cenni di risveglio; voli di gabbiani punteggiati di grida disegnavano figure evanescenti nel maestoso cielo violaceo, su cui si delineava in lontananza l’arrivo di un’alba rossastra. I raggi già caldi d’inizio estate s’introducevano dove la notte era scesa ancora una volta per trasportare la terra nel mondo dei sogni. I depositi d’oro bianco della salina Regina, simili a piccole piramidi egizie attorno alle immense vasche d’acqua salmastra si ridestavano per vivere un nuovo giorno. Il sole aveva raggiunto anche le persiane della piccola vecchia casa di mastru Inuccio, il noto trasportatore di sale, che ci viveva insieme alla moglie Rita e ai figli Antonio, Corrado e Loredana. Lunghi tentacoli incandescenti si erano furbamente intrufolati all’interno della stanza e la illuminavano in modo fastidioso per chi, come il tredicenne Antonio, era ancora tra le morbide braccia di Morfeo. Scherzosi fasci luminosi gli passavano sugli occhi ad intervalli regolari, scanditi dal movimento delle persiane mosse da un leggero vento di scirocco. La tavolozza dei colori, protagonista principale del suo sogno ricorrente, fu incendiata dal forte bagliore del sole e Antonio aprì gli occhi per un istante ma li richiuse subito, infastidito dalla luce. Si voltò lieve mente sul fianco sinistro, con la mano destra si coprì il volto e strizzò gli occhi verdi per far sparire quella luce che accecava i suoi sogni da piccolo artista.
Inutile. Si sedette sul letto e si guardò i piedi che lo salutavano fuori dal lenzuolo a righe bianche e celesti, nel quale si arrotolava piacevolmente ogni sera prima di addormentarsi. Si stava preparando l’inizio delle vacanze estive. Il giorno precedente, la campanella di fine anno aveva suonato per tutti gli studenti d’Italia, e dall’enorme portone di legno della scuola media Orso Mario Corbino
centinaia di ragazzini si erano riversati sulla piazzetta, pronti al lancio di libri e quaderni. La scuola era una splendida struttura di circa dodici metri, quasi monumentale; al pianoterra c’erano le classi maschili ed al primo piano quelle femminili.
Il prospetto principale era stato ben studiato e presentava modanature su porte e finestre degne della migliore architettura del tempo. Il bidello Luigi aveva spalancato le enormi ante di legno massiccio del portone centrale, e con gli occhi lucidi aveva dato l’ultimo saluto a una mandria di puledri imbizzarriti, ragazzini che difficilmente avrebbe riconosciuto negli anni a venire. Li aveva seguiti ancora per un tratto di strada sino a quando, pieni di energia, il distintivo di III media cucito sul petto ed il tricolore sull’avambraccio destro, avevano voltato verso la mastra-rua.
Poi un clanc
era rimbombato per i corridoi vuoti e inanimati della scuola, confermandone la chiusura definitiva e decretando l’inizio della libertà che prometteva straordinarie avventure estive. Dal suo letto spiacevolmente inondato dal sole, Antonio, percepì una serie infinita di note musicali che si diffondevano per tutta la casa. Fu come vedere un enorme spartito su cui crome e biscrome accompagnavano in una nota melodia la bella voce di Massimo Ranieri.
Le onde sonore si propagavano dalla radiolina posta sulla credenza della cucina e si rincorrevano lungo il corridoio, spandendo le dolci parole della canzone vincitrice dell’ultima Canzonissima:
"La mia vita cominciò, come l’erba come il fiore,
e mia madre mi baciò come fosse il primo amore …".
Parole meravigliose, da restituire il buonumore a chiunque si fosse svegliato con la luna storta
. Dolce e delicata, la musica continuava a diffondersi, inseguita dalle lontane ma riconoscibilissime voci di Domenico, Vinicio e Roberto, i compagni di Antonio.
L'ATTESA
I tre amici lo attendevano sotto il portone di casa per iniziare il primo giorno di vacanza. Senza far rumore, Antonio si alzò lentamente, poggiò i piedi nudi sulle piastrelle di marmo a scaglie bianche e nere, attraversò la cameretta e raggiunse la porta che dava sul corridoio. L’aprì con molta cautela per ridurre lo stridio causato dal rigonfiamento del telaio; cercando di non essere visto, avanzò a piccoli salti lungo il corridoio. Il pavimento rifletteva il bianco delle mutandine e della canottiera a costine.
A distoglierlo da quella sequenza ricca di suspense fu la voce di mamma Rita che proveniva dall’esterno dell’abitazione. Con grande arte oratoria stava cercando di persuadere Domenico, Vinicio e Roberto a tornare qualche ora dopo, in quanto Antonio stava ancora runfuliànnu e poi avrebbe dovuto fare, cosa sacrosanta, colazione. Rita rientrava proprio in quell’istante dal rituale del giovedì
, il mercato rionale che ogni settimana offriva agli abitanti di Austa un’allettante vetrina di vestiti, stoffe, scarpe, borse, alimentari e oggetti per la casa a costi competitivi rispetto a quelli proposti dalla UPIM, il nuovo grande magazzino del paese. Sembrava che la mamma avesse svaligiato l’intero mercato, carica com’era di reticelle colorate piene di cartocci di carta di giornale ricolmi di frutta, verdura, profumatissimi limoni e fragranti biscotti all’uovo. Il suo bel pancione lasciava presagire che di lì a poco il suo quarto bambino avrebbe visto la luce di questo fantastico mondo. Un gran bel dono del Signore, certamente, che però avrebbe causato un’inevitabile revisione dell’economia familiare, già da qualche tempo in cattive acque. Molti partivano in cerca di fortuna per il continente
o per l’estero, ma per Inuccio e Rita questa era l’ultima cosa a cui desideravano pensare.
Antonio si soffermò davanti alla porta della cameretta di Corrado e Loredana, sospinse leggermente l’uscio di legno e vetro ghiacciato, si accertò che stessero ancora dormendo, richiuse la porta e si diresse verso il bagno. Una volta entrato, aprì il rubinetto del lavabo da cui uscì un violento scroscio d’acqua proveniente dal serbatoio sul terrazzo, riscaldato a dovere fin dal primo mattino dalla calda temperatura siciliana. Si sciacquò il viso, lo asciugò rapidamente, prelevò i pantaloncini color verde militare poggiati sulla maniglia della porta e se li infilò, sobbalzando un po’ goffamente. Poi, mentre la voce di Massimo Ranieri, sempre più chiara, cantava le parole:
…Io credo che lassù c’era un sorriso anche per me…
.
Antonio si avviò verso la cucina, dove la luce che entrava dalle persiane gli striò il volto. Tagliò in due un pomodoro, lo strofinò sulla fetta di pane che la mamma aveva già abbrustolito e lo pose sotto u muluneddu i sali, uno strano contenitore artigianale fatto di canne e riempito di pregiatissimo sale. Antonio grattò delicatamente con l’indice l’interno del cilindretto di canne e sul pane cadde in piccoli fiocchi di neve, in una polvere più lieve dello zucchero a velo, la primizia del sale che insaporì la sua tipica prima colazione. Pose la fetta di pane tra i denti e si avviò verso la porta che dava sul terrazzino. Dalle fessure delle persiane verdi, scorse i suoi tre compagni già pronti sulle biciclette: stavano scambiando gli ultimi convenevoli con la mamma, che si accingeva ad entrare nel cortile di casa. Papà Inuccio era uscito alle prime luci dell’alba con il suo camioncino telato alla volta di Marzè, un paesino ad un’ottantina di chilometri più a sud, dove avrebbe consegnato ad un laboratorio di pesce azzurro un intero carico di sale grosso. Antonio si fece coraggio e spalancò le persiane, lasciandosi inondare dal forte riverbero che le saline d’intorno regalavano al nuovo giorno, mentre la radio continuava a diffondere le parole della canzone:
…la stessa luce che si accende quando nasce un re…
.
Antonio legò velocemente una corda robusta alla ringhiera del terrazzo, un po’ rosa dalla salsedine, e tenendosi ben stretto alla fune saltò l’inferriata. Con la fetta di pane tra i denti, si lasciò scivolare disinvolto fino a terra, puntellandosi sulla pietra arenaria della piccola casa fuori paese, poi si lasciò cadere nel vuoto, atterrando vicino alla sua bicicletta safari
color girasole, poggiata come da copione sulla porta del garage. La inforcò e cominciò a pedalare insieme ai suoi amici. Mamma Rita, che aveva già raggiunto la cucina, si affacciò dal terrazzino e lo richiamò più volte; poi, un po’ indispettita ma con un tenero sorriso, cedette e lo lasciò andare verso una giornata ricca di sole e d’avventura.
LA CORSA DELLE BICICLETTE
I quattro picciùtteddi raggiunsero in breve tempo un vecchio casolare abbandonato in riva al mare, dove cominciarono ad armeggiare con le loro biciclette: con l’aiuto di mollette di legno applicavano al telaio posteriore vari tipi di cartoncini, da loro sapientemente tagliati e ripiegati. Iniziò così una passerella di finte motociclette
, sottolineata da strani e diversissimi rumori provocati dai cartoncini che sbattevano velocemente sui raggi delle ruote. Il primo ad iniziare fu Roberto: dopo aver girato varie volte e descritto un grosso cerchio con la sua Legnano dalle grandi ruote esclamò:
«Kawasaki 750!»
Poi fu la volta di Antonio che, avendo applicato alla bicicletta un pezzo di cartone dei pomodori pelati, spesso e voluminoso, trovò il giusto equilibrio con una poderosa pedalata, riuscendo a provocare un borbottio cupo. Terminò il giro e urlò soddisfatto:
«Fantic Caballero!»
Vinicio lo seguì, tenendosi dritto sui pedali e portandosi avanti con spostamenti millimetrici, lasciandosi dietro il rumore stridulo provocato dal coperchio della scatola di cartone delle sue scarpe nuove, maldestramente legato al telaio con grossissimi mollettoni. Sottolineò fieramente l’esecuzione con un’impennata finale:
«KTM 125 regolarità!»
Arrivò il turno di Domenico, che però non sarebbe andato molto lontano con la sua Graziella bianca, tant’è che aveva legato il cartoncino con delle banalissime mollette di plastica colorata rubacchiate alla signora Assunta. Tutti sapevano come sarebbe andata a finire, tranne il povero Domenico che una volta issatosi sul sellino esclamò:
«Questo però è il migliore di tutti. Sentite!»
Affondò sul pedale ma non produsse alcun rumore; anzi, dai cerchioni della bicicletta partirono a raffica, come proiettili impazziti, le piccole tenaglie di plastica che si dispersero tutt’intorno. I tre giovani spettatori scoppiarono in una sonora risata. Non era stata una gran bella presentazione. Domenico ci rimase un po’ male ma poi, come spesso accade quando si è ancora bambini, tutto passò e l’intero gruppetto s’involò velocemente senza dare troppo peso a quanto era accaduto.
Le grida dei gabbiani in volo accompagnarono la corsa delle biciclette, che adesso andavano verso la salina piccola. Il blu del mare era una linea netta tra il bianco del sale e l’azzurro del cielo, mentre il caldo di quei primi giorni d’estate infuocava le vasche destinate al turno di riposo, oramai essiccate, e rese dure e scivolose sulle quali i centauri stavano per ultimare il loro sprint di fine corsa. I loro sguardi andavano alle vasche più lontane, sulle quali si ergevano imponenti piramidi di sale che li attiravano come mai era accaduto; erano come le pagine di un libro di antiche leggende sulle quali era scritto il segreto dei più anziani del paese:
CU RINESCI A SCALARI A MUNTAGNA DI LA SALINA REGINA, DIVENTA GRANNI!
.
Antonio, Roberto, Domenico e Vinicio si bloccarono. Pensieri e movimenti erano come ostaggi di un campo magnetico. Cominciarono ad avere paura. Non era la prima volta che si recavano sulle pianure di sale, ma quello che stava succedendo non l’avevano mai sperimentato. Si ricordarono della credenza popolare e si chiesero se forse, alla soglia dei loro prossimi quattordici anni, non fosse giunto il momento di provare a sfidare la piramide di sale più alta. Si fissarono in un dialogo privo di parole, cercando una risposta che non tardò ad arrivare. In quel preciso istante riacquistarono la consueta libertà di movimento e tornarono a muoversi. Le bianche pareti triangolari incendiate dal sole del primo mattino avevano rapito gli animi dei quattro: la sfida alla piramide della salina grande Regina era stata dichiarata!
Chissà cosa avrebbero provato nello scalare le ripide pareti friabili, affondandovi o sprofondando come in un tuffo a volo d’angelo. Ritornarono a correre sulle biciclette, in una vera e propria sarabanda di rumori, urla liberatorie e finta radiocronaca dell’ultima tappa del giro d’Italia:
«Ed ecco lo spagnolo Ocaña che si stacca dal gruppo… ma lo insegue l’italiano Motta», ansimò Roberto. «E