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La Guerra Dei Creatori: Libro Primo della Leggenda della Creazione e della Distruzione
La Guerra Dei Creatori: Libro Primo della Leggenda della Creazione e della Distruzione
La Guerra Dei Creatori: Libro Primo della Leggenda della Creazione e della Distruzione
E-book500 pagine7 ore

La Guerra Dei Creatori: Libro Primo della Leggenda della Creazione e della Distruzione

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Info su questo ebook

Secoli sono passati dalla devastante Guerra che causò la definitiva scomparsa dei Creatori, e nel mistico Regno di Celkrast, plasmato da incredibili poteri di cui ormai vige solo il frammentario ricordo di leggende, un apparente risveglio rischia di compromettere la precaria stabilità costruita da due spregevoli sovrani.
Ardwin Daint, nello spingersi oltre i limiti dell'umano intraprendendo un insolito viaggio verso la redenzione, rivela scivolando attraverso combattimenti e intrighi verità sepolte dal tempo e dal sangue. Realtà che, alle sue spalle, possono dimostrarsi ignobili e terrificanti, poiché nel loro nefasto mistero, incomprensibili.

Un misto di azione, sentimento e magia, in quello che è il primo titolo ne "La Leggenda della Creazione e della Distruzione".
"La brina, la neve, l'acqua, persino il vento. Tutto ciò che pareva aver evocato l'ancestrale essere poco prima, si stava ora fondendo nel vitreo palmo corazzato, unificando, creando una letale scheggia traslucida di ghiaccio solida come il ferro più mortale."

-Mondo Integro-
LinguaItaliano
Data di uscita3 feb 2018
ISBN9788827563601
La Guerra Dei Creatori: Libro Primo della Leggenda della Creazione e della Distruzione

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    Anteprima del libro

    La Guerra Dei Creatori - Carlo F. Tropiano

    -Nota dell'Autore-

    A tutti coloro che, per la prima volta, leggono queste righe, perché la Vita di questi personaggi appartiene a voi .

    Copyright © Carlo F. Tropiano 2023

    Tutti i diritti riservati.

    Questo romanzo è opera di fantasia.

    Ogni riferimento a persone, avvenimenti, o gruppi esistenti è puramente casuale.

    immagine 1

    -Prologo-

    Ardwin era intento a proseguire il suo viaggio. Attraversando lo stretto passaggio nelle montagne di Dainor avrebbe tagliato di un giorno, forse due. Ammirò con interesse crescente le scanalature nelle rocce ai suoi lati, cosparse di antiche rune incise in una lingua a lui estranea, probabilmente risalenti all'Era della Creazione.

    Trovò istantaneamente meraviglioso e spaventoso al tempo stesso il varco che stava percorrendo. Un'angusta via scavata nella roccia migliaia di anni prima, che gli avrebbe permesso di passare attraverso la catena montuosa di Dainor in poco tempo, evitando i pericoli delle strade principali. Un cammino troppo limitato e tortuoso per poter essere visitato a cavallo, colmo di ripiani, gradoni e ostacoli di ogni genere, ma indubbiamente poco incline a pullulare di barbari e predoni pronti a tutto.

    La sicurezza del percorso era innegabile, palese, ma Ardwin fu comunque sopraffatto dal timore. Sentiva il vento passare attraverso lo stretto, lo scricchiolio della neve sotto i suoi stivali, lo schiocco del mantello intento a garrire al vento e la solitudine crescergli dentro come il freddo gelido del nord durante l'inverno.

    Nonostante le sue nobili origini e l'alto rango, Ardwin Daint era una persona dal cuore relativamente umile e sincero. Si batteva per ciò che riteneva giusto, e non aspirava a divenire uno dei tanti servitori o consiglieri del pomposo Re dell'Ovest. Nella sua speranzosa e testarda ingenuità, pericolosamente vicina a sfociare nell'infantilità, confidava di riuscire a seguire solo due, importanti ideologie: onore e giustizia.

    Con ventidue anni d'età addosso, ovvero uomo ormai fatto, era mediamente alto e protetto dalla muscolatura piuttosto accentuata solita di un guerriero, segno del duro lavoro e addestramento bellico. I folti capelli neri come il carbone erano tenuti all’indietro, tirati sopra le orecchie, intenti a ricadere sull’attaccatura del colletto in quella che appariva come un'abbondante cascata di sottili figmenti. Grandi occhi marroni con sfumature grigie, ma talmente scuri che li si sarebbe potuti facilmente scambiare per neri, scrutavano abilmente ogni cosa. La possente mascella aveva un accenno di barba ispida color corvino, probabilmente lunga di due o tre giorni.

    Indossava un mantello con cappuccio di seta nero, dal quale usciva il fondo penzolante di una spessa sciarpa. Sulla camicia, una pesante cotta di maglia scura andava a posarsi quasi all’altezza del ginocchio di un pantalone di lana cenere, sovrastato a sua volta da un paio di stivali di solido cuoio nero. Le spalle trasportavano una sacca nella quale erano principalmente contenute quelle che erano le vettovaglie sufficienti al viaggio, vicino cui era inoltre in malo modo nascosta una spada a una mano, posta di traverso lungo la schiena. Era una lama a doppio taglio ben affilata e curata, dotata di ottimo bilanciamento e completata da un liscio filo privo di ossidazioni. Accompagnava tale arma un arco corto dallo spigoloso stile nordico, istoriato dai più svariati dettagli ed incisioni, mentre alla cinta erano rinfoderate due spesse daghe corte, chiaramente forgiate da poco e ben tenute, vista la loro invidiabile fattura.

    Ardwin avrebbe voluto indossare la cappa raffigurante il corvo a due teste blu zaffiro in campo nero, emblema e blasone di Casa Daint e simbolo del castello di Dainhood. Ma per evitare attenzioni indesiderate, aveva preferito indossare vesti semplici e grezze. Lo scopo del suo viaggio era segreto, e non voleva certo che un lord delle terre del nord della sua importanza venisse riconosciuto per via di un qualche insignificante simbolo rappresentativo quale il marchio del suo Casato.

    Ardwin percepì l'abbattersi di una forte folata di vento nell'apprestarsi ad uscire da quel lugubre, misterioso passaggio. Nonostante fosse incuriosito da ciò che avrebbe trovato alla fine, non era certo sua intenzione rimanere bloccato in quell'angusto e antico cammino per sempre. Inquieto e nervoso, ma rinfrancato nello spirito dopo aver inspirato profondamente quella ghiacciata aria a lui così familiare, varcò la fine della stretta strada.

    Una volta uscito, la forte luce dei raggi di sole che colpì i suoi occhi parve accecarlo, ma tale effetto fu solo provvisorio, poiché dopo quella che sembrò una manciata di secondi lo sguardo si abituò, sfumando la visione della realtà, all’intensa luminosità. E nel vedere ciò che si poneva davanti a lui, l'animo prima indeciso si rassicurò. Una vasta distesa di colline desolate quasi completamente innevate, eccetto per una piccola strada secondaria che portava a Edmiral, la cittadina verso cui Ardwin era diretto.

    Ammirò stupefatto lo spettacolo dinanzi al suo stanco corpo, perdendo scioccamente la cognizione del tempo. I piccoli fiocchi di neve posati a terra, che parevano assorbire la luce del sole per poi creare un meraviglioso riflesso intento a disperdersi lentamente nell’immensità del cielo ingrigito, avevano un che di ipnotico. Lo spesso manto biancastro alto due piedi, invece, nascondeva abilmente le fattezze naturali dell'ambiente, coprendo con il suo gelido strato anche la vita più tenace.

    Ardwin tornò in sé. Scese con attenzione il ripiano a gradoni scavato nella roccia per poi continuare il suo tragitto sulla strada principale. In quella particolare zona, così vicina alle cittadine, non si aggiravano banditi, perciò lo spostamento sarebbe stato più rapido, e forse, privo di pericoli. Aveva già superato una buona parte del viaggio, un solo giorno di marcia e probabilmente sarebbe arrivato a destinazione.

    Ardwin pensò a Edmiral, una delle città della sua infanzia. Si chiese se fosse cambiata con il passare degli anni, o se fosse ancora l’accogliente luogo che aveva abbandonato quando ancora era un bambino... Ma i pensieri nostalgici vennero bruscamente interrotti, e le convinzioni di sicurezza parvero abbandonare il così mutabile variare emotivo che era in quel momento la mente, quando si udì provenire dalle vicinanze una sorta di violento brusio ansimante.

    « ... Aa... Aaiuto. » Un brivido risalì lungo la schiena di Ardwin nel sentire una specie di rantolo, di sussurro, levarsi dal retro di una collina a sinistra della nivea strada periferica. Senza esitare, si mosse rapidamente per raggiungere il luogo di provenienza di quel desolato grido soffocato. Superato l’alto ripiano di neve e terra, confermò la sua teoria e capì che l'udito, anche in quella occasione, non lo aveva traviato.

    Vide un uomo accasciato a terra, in armatura, alto e massiccio. Sanguinava copiosamente, e cercava di trascinare quella debole carcassa che era il corpo un tempo torreggiante aggrappandosi alla neve con gesti spasmodici delle mani, in un triste e disperato tentativo di avanzare.

    Rapido e agile come un felino, Ardwin scattò verso l'uomo affranto dal dolore, sperando di poter aiutare in un qualche modo la sua sfortuna. Lo girò sulla schiena ed esaminò con estrema cura le sue ferite. Aveva schegge traslucide e inumidite, simili a coltelli di vetro bagnati lunghi quanto il palmo di una mano, conficcate nelle gambe e nelle costole.

    In uno sconsolato tentativo di sostegno, Ardwin inserì il braccio destro dietro le spalle dell’uomo per cercare di facilitargli i movimenti, e sfruttando la forza delle ginocchia cercò in ogni modo di tirarlo su. Lo sforzo eccessivo fece invece boccheggiare ulteriormente il guerriero, che ricadde al suolo in uno sgradevole suono, simile a quello di lamiere che sferragliano l'una contro l'altra. Ardwin non riuscì a fare altro se non fissare terrorizzato quelle orribili lastre insanguinate conficcate nell’armatura, nella carne e nelle ossa dell’uomo. Simili a coltelli o a pugnali affilatissimi, ma trasparenti come pezzi di vetro.

    «L’elm... L’elmo», disse con voce metallica il cavaliere morente.

    Lentamente, Ardwin si chinò, e dopo aver alzato la celata, rimosse il pesante copricapo di ferro dalla testa dell’uomo mostrandone il viso. Staccò di forza anche la gorgiera, che pareva essersi piegata in modo irregolare sulla gola del cavaliere impedendogli una corretta e soddisfacente respirazione. Fatto questo, il febbricitante guerriero inspirò profondamente e con avidità, quasi a cercare l’aria con l’ardore con il quale si cerca un’amante. Era un uomo vissuto, o almeno così parve visto l’enorme numero di rughe che aveva in volto. Probabilmente sui cinquanta o sessant’anni, l'addestramento militare aveva mantenuto il suo fisico asciutto e torreggiante. I penetranti occhi blu, simili alle profondità del mare, erano resi incerti dalla presenza di radi, corti capelli bianchi cosparsi di fili neri chiaramente visibili, ultimo segno rimasto di quella che un tempo doveva essere stata una lunga chioma scura. Due folte basette, che dall’attaccatura delle orecchie andavano a concludersi all’altezza del mento, sovrastavano le scarne guance arrossate.

    «Qual’è il tuo nome, cavaliere?», chiese Ardwin, confuso più che spaventato da ciò che gli si poneva davanti.

    «Breidan. Ser Breidan Eshwort», rispose l’uomo con un tono profondo e tonante (e colmo di arroganza), carattere distintivo della presentazione di un cavaliere di alto rango.

    «Breidan... In nome degli Dèi, che ti è successo?» Ardwin era genuinamente sconvolto.

    «Eravamo stati mandati ad eliminare un... Un Creatore del ghiaccio, colui che mi ha ridotto in questo stato.» Il cavaliere cominciò a tossire e dalla sua bocca uscì un rigagnolo di sangue, che colò dalle secche labbra fino a toccare una delle lunghe basette.

    Impossibile!, pensò istintivamente Ardwin. «I Creatori sono morti, sterminati! Non se ne vede più uno dall'Era della Guerra.» Eppure, sapeva che le ferite dell’uomo dovevano essere state causate da una qualche forza inumana, che quelle truci lame di ghiaccio non potevano essere certo comparse dal nulla.

    «Non è così», replicò ser Breidan con voce rauca, morente ma solenne, traboccante di espressa sincerità.

    «Anche se fosse vero», interruppe Ardwin bruscamente, in quello che sembrò un infantile scuotere di capo. «Affrontare un Creatore del ghiaccio ora che l'inverno è alle porte? È stato un folle colui che vi ha mandato, e ancora più folli voi, che avete eseguito il suo ordine senza pensare alle conseguenze!» Sospirò e sbuffò, cercò di calmare il suo spirito, ancora scosso, e si guardò intorno in cerca di qualche altro cavaliere, o almeno di qualche passante che lo potesse aiutare.

    La neve coprì ogni possibile visione, attutì qualsiasi rumore e strozzò perfino la più forte delle speranze del lord di Dainhood con la sua sola pallida presenza.

    Ardwin riprese solo dopo aver constatato la loro solitudine con un tono serio, quasi distaccato, il discorso. «Hai detto eravamo, ma io non vedo nessuno nelle vicinanze. Dove sono i tuoi uomini, Breidan?»

    «Morti. Tutti morti! Quel demonio deve aver usato una qualche stregoneria!» Boccheggiò, poi inspirò profondamente. «Ricordo solo di averlo visto lanciare queste schegge su di noi.» Indicò fissando con orrore, quasi disgusto, i frammenti trasparenti conficcati in lui. Tossì sangue per l'ennesima volta. «Tutti coloro che ne sono stati colpiti sono stati lentamente privati delle forze... E una volta morti... Sono diventati blocchi senza vita di ghiaccio che si sono andati a frantumare davanti ai miei stessi occhi!» Breidan continuava a fare pause durante il discorso. Soffriva intensamente nel dire quelle parole, non solo per via dell'apparente perdita subita, ma sicuramente, anche a causa della ferita alle costole, che continuava a sanguinare in maniera a dir poco eccessiva. Un flusso costante di denso liquido purpureo sgorgava infatti dagli squarci che aveva nella pelle, imbrattando la candida neve sottostante rendendola lucente e preziosa come in un prato di lucidi rubini.

    «Sia lodato Holshor... Non sono rimasti neppure i loro cadaveri per una degna sepoltura.» Il cavaliere strinse a fatica il pugno destro, in un estremo, sofferente, e soprattutto definitivo gesto che indicò il dolore e la rabbia per il crudele fato subito dai compagni caduti. «Entro poche ore, la stessa sorte toccherà a me», concluse infine in ciò che parve un singulto sussurrato, un esplicito pensiero. Iniziò poi a tossire di nuovo, così tante volte che il suo soccorritore, nonostante trovasse a dir poco surreale il racconto del cavaliere, capì che una cosa era vera: Breidan sarebbe spirato da un momento all’altro.

    Ardwin osservò con particolare interesse l’uomo. Probabilmente è al servizio di un nobile. È di Celkrast, ma non vive nell'estremo nord dell'isola dell'Ovest, altrimenti avrebbe invocato gli Dèi Evanescenti invece che Holshor il Magnanimo. Il suo accento è grezzo, a me estraneo, rimuginò nel percepire chiaramente un aspro sapore in bocca, il sapore della morte. Notò le fattezze della pesante armatura d’acciaio e i minimali dettagli a forma di toro incisi su essa, oramai rovinati da graffi e lordati dal sangue intento imperterrito a fluire dalle ferite. Un uomo che incontra la morte in una terra a lui sconosciuta... Che brutta fine...

    «Non ti rimangono poche ore, ma meno», bisbigliò Ardwin in un’affermazione che desiderava rimanesse più un pensiero, invece di ciò che avrebbe dovuto dire. " Molto meno... "

    «Lo so.» Ser Breidan fece una lunga pausa. Riprese parola con tetro sguardo fisso, perso fra le nuvole del cielo. «Ma non starò certo ad aspettare quel momento. Non morirò per le dannate stregonerie di quel demonio. Ti... Ti prego, poni fine alle sofferenze di un commilitone morente che desidera andarsene come uomo d'onore. Fallo tu. Uccidimi! »

    Ardwin rimase fermo, pietrificato, a osservare l'uomo per un paio di secondi che parvero alle sue percezioni come un’eternità. Dovrei lasciarlo qui, a morire? O lo dovrei aiutare? Forse dovrei semplicemente scappare via e fingere che non sia successo nulla, ma che razza di uomo ne abbandona un altro solo per non sporcarsi le mani? Si trovò stranamente spaventato da ciò che aveva davanti. Aveva già ucciso altre volte, qualche brigante o ladro o traditore del Regno, ma solo per difendere la vita di innocenti, di donne, bambini, e soprattutto, la sua. Questa volta avrebbe però dovuto porre fine alla vita di un uomo morente, che conosceva appena, e che non lo aveva minacciato in alcun modo.

    Non posso farlo!, ma poi, un’altra terribile osservazione lo assillò. Lasciarlo lì a soffrire sarebbe un gesto troppo crudele, quasi più crudele della morte stessa. Ardwin pensò e ripensò a ciò che avrebbe dovuto fare. Cosa sarebbe stato giusto? E cosa sbagliato? La morte era una condanna definitiva che aspettava lentamente la venuta di ogni essere, ma allo stesso tempo, un sollievo eterno alle crudeli ferite del mondo.

    Sospirò. Prese fiato e chiuse gli occhi, per cercare d'immaginare, anche solo per un secondo, di non trovarsi in quello sfortunato luogo. Infine, con aria rassegnata e demotivata, quasi stanca, rispose con sua stessa sorpresa alla richiesta dell’uomo. «Lo farò... Lo farò, Breidan.»

    Ardwin Daint si chinò sul corpo morente del cavaliere. Sganciò i fermagli del pettorale della corazza per poi rimuoverlo con un gesto incerto e insicuro. Sguainò subito dopo con un tremolio una delle daghe che portava alla cinta, afferrando saldamente l’impugnatura di essa con entrambe le mani.

    Ormai non si torna indietro. Questo continuò a ripetersi per non pensare all'atto che era in procinto di compiere. Ma un'altra realizzazione lo fece ponderare. "Io eseguo sempre sentenze di morte nella Piazza Nera di Castello Daint... Questo non è forse poi così diverso. Breidan è un cavaliere innocente, questo è vero, ma io potrei aver già eliminato degli innocenti sotto falsa accusa o indicazione. Un male vale l'altro, e nessuno di noi è senza peccato. Devo riuscire a controllarmi, se voglio davvero arrivare ad uccidere Lui ." Convincendosi attraverso immagini di odio che instillarono in lui un puro impulso rabbioso, Ardwin riuscì a tornare gelido e inviolabile come il lord che era.

    «Gr... Grazie.» Le parole febbrili di ser Breidan Eshwort risultarono colme di sofferenza, più simili a gemiti straziati che a versi umani.

    Ardwin capì che era arrivato il momento di agire, di colpire, per far si che l'ultimo desiderio del cavaliere si realizzasse. Alzò con mani ferme e salde la daga proprio sopra il petto dell’uomo e il sole la colpì, creando un fascio luminoso che parve rendere tutto molto più solenne di quanto già non fosse. Le braccia schizzarono verso il basso e il tempo parve fermarsi, mentre il colpo rapido e secco risuonava nell’aria e si andava violentemente a schiantare nel petto di ser Breidan dando vita a un’orribile suono, un suono di decesso eterno. La lama passò maglia di ferro, carne, ossa e centrò il cuore. Un ultimo, affannoso respiro sanguinante, e il cavaliere spirò.

    Che i suoi dèi possano accoglierlo nel loro regno. Ardwin sperò che in un qual modo quelle parole potessero far sentire meglio il suo spirito affranto, tranquillizzandolo, ma la verità rimaneva solida e indiscutibile, in tutto il suo orrore e la sua malvagità, causando la necessità di essere costretti a sostenere un aggravio irremovibile, un peso di proporzioni indefinite in più sulla coscienza.

    Ardwin rimosse la daga dal corpo morto in un unico movimento, ma, con enorme stupore, notò che la ferita inferta non sanguinava come le altre nonostante fosse mortale e ben più profonda. Si sentì raggelare, quando vide che il corpo senza vita del cavaliere, partendo dal taglio al centro del petto, stava mutando in puro ghiaccio .

    Le ossa, la pelle, persino gli indumenti, stavano trasformando la loro originale materia in una solida massa traslucida bagnata, dalla quale si potevano chiaramente intravedere la neve sottostante e chiazze rotonde di sangue, oramai in procinto di coagularsi.

    Una volta che l’intero corpo di ser Breidan divenne un’unica, pesante statua di ghiaccio che cominciò a frantumarsi pezzo per pezzo, Ardwin capì cosa stava cercando di descrivere il cavaliere quando parlava della sfortunata morte dei suoi compagni. Un'orrore senza eguali, nel quale un essere vivente e senziente che poteva muoversi, parlare e amare, era costretto a mutare in una rappresentazione di solidità trasparente del tutto priva di sentimenti.

    Nessuna emozione o falso desiderio di giustizia poté salvare Ardwin dal terrore della visione alla quale fu costretto.

    Dopo un paio di minuti non rimase più nulla del cavaliere, se non frammenti di vari dimensioni, simili a cocci di vetro, sparsi nella desolazione della neve.

    -Capitolo 1-

    -L'amico Perduto-

    Mancava ormai mezza giornata di cammino dalla destinazione, quando Ardwin, ancora terribilmente scosso dall’esperienza subita, giunse al bivio che decideva le strade per Edmiral e Stinthor. Senza pensarci due volte, in un unico movimento imboccò la strada sulla sinistra più in fretta che poté.

    Assillato dal pensiero di trovare altri cavalieri morenti che avrebbero chiesto il suo aiuto per evitare di soffrire un’ altro paio d’ore, cercò di ricordare dell'altro, come l'immagine di un qualche dettaglio fondamentale che credeva di aver tralasciato senza rendersene conto, ma l’unica cosa che riusciva a vedere era il momento in cui la sua daga penetrava nella carne di un uomo, a suo avviso innocente, donandogli la morte tanto desiderata. Continuò a chiedersi da quanto tempo Breidan fosse stato lì, nella neve, a soffrire. E soprattutto, quanto lontano poteva essere andato quel Creatore del ghiaccio dopo aver eliminato lo squadrone di cavalieri.

    Era incredibilmente spaventato dal pensiero di dover affrontare quel " demonio ", come lo aveva chiamato ser Breidan. Ardwin sapeva battersi, e anche in modo eccellente. Non a caso era infatti considerato uno dei migliori guerrieri di tutto il Regno di Celkrast... Ma opporsi ad un nemico che poteva scagliare lame di ghiaccio sarebbe stata un’esperienza nuova, e quasi sicuramente, fatale nei suoi confronti.

    Non poteva credere che ci fossero Creatori ancora in vita. Secondo le leggende, buona parte di loro era morta durante la Guerra per Celkrast che aveva posto fine all'Era della Guerra. L’altra parte, sterminata nelle ultime spedizioni punitive di quella che veniva ricordata come la Liberazione Umana. Evidentemente si sbagliava. Dei Creatori erano vivi e vegeti, e veniva data loro la caccia, come con degli animali selvaggi.

    Ardwin passò molto tempo immerso in pensieri oscuri, di morte e guerra, ma quando il suo cuore venne scaldato dalla visione, quasi celestiale, di ciò che aveva tanto desiderato rivedere dopo così tanti anni, si sentì ringiovanire.

    Edmiral. Cittadina costruita tra le colline di Estiorn in un tempo indeterminato, era caratterizzata dalla complessità dell'intricato disegno di strade, passaggi e cunicoli che si univano gli uni agli altri fino a formare un preciso intreccio, dalla simmetria a dir poco perfetta, diretto al centro della città. In tale centro, si trovava l'immenso e famoso spiazzo circolare in cui gli abitanti erano soliti riunirsi per tenere conciliabolo nelle più svariate occasioni, come l'osservare con stupore le bancarelle piene di merci provenienti dall'oriente, o il discutere di affari politici che trattavano di alti lord e nobili delle terre vicine.

    Ogni pensiero cupo svanì e al suo posto riaffiorarono stupendi ricordi d'infanzia. Nulla è cambiato! Questa fu una delle tante osservazioni che pervasero la mente di Ardwin. Il fabbro, il panettiere, il sarto, tutto era rimasto proprio come tredici anni prima, quando aveva visto per l'ultima volta Edmiral. Rivide il giovane sé stesso in ogni strada. Ricordò quanto divertimento aveva provato in passato, nel giocare con gli altri bambini. Quando aveva cercato di arrampicarsi sui tetti afferrando mattoni sporgenti dalle mura degli edifici, quando aveva giocato a fare il cavaliere con la fidata spada di legno e persino quando si era malmenato con il figlio del fabbro sul fondamentale cruccio di chi avesse forgiato il pugnale migliore.

    Quest'ultimo pensiero gli ricordò il perché del suo viaggio, e subito, la gioia calò drasticamente. Doveva incontrare il prima possibile Beilor Salt, primogenito di Deriom Salt, primo fabbro di Edmiral. Era il suo più grande amico d'infanzia, e sicuramente lo avrebbe aiutato nella furtiva impresa in cui era in procinto di lanciarsi.

    Chissà se il padre sa dove si trova... Con quest'idea, Ardwin diresse subito il rapido passo verso l'armeria, colmo della speranza d'incontrare il suo vecchio amico. Passò attraverso il Gran Piazzale, come veniva chiamato dagli edmiriti, e prese la seconda strada a destra dalla locanda del Lupo Nero per poi passare attraverso un angusto vicolo che sfociava proprio di fronte all'armeria, dove sapeva di trovare Deriom Salt.

    Ardwin entrò passando la pesante porta di legno aperta e posò un rapido sguardo su tutte le spade, le mazze da guerra, le daghe, i pugnali, le lance e le altre svariate armi sia appese al muro che accatastate in un remoto e impolverato angolo, pronte a formare una pila disordinata. Subito i suoi occhi allenati andarono a riflettersi su Deriom.

    Un uomo rude, maleducato e privo di interesse verso gli affari. Mai stato particolarmente cortese con i suoi clienti e duro come il metallo che lavorava, Deriom Salt era estremamente fedele all'onore della sua famiglia. La cosa di lui che contava soprattutto, però, era il fatto che fosse uno dei pochi amici di cui godeva Ardwin. Quando fu distratto dall'entrata del lord in borghese, stava colpendo con un martello una lama incandescente che presto sarebbe diventata una spada affilata e ben bilanciata. Scintille e piccole braci schizzavano ogni volta che il martello colpiva la bozza vibrante di calore della lama, andando spargendosi in ogni singolo angolo dell'armeria.

    Deriom non era cambiato, se non per delle rughe chiaramente visibili sulla fronte corrugata e per i capelli a forma di ferro di cavallo ormai bianchi come la neve.

    «Sei invecchiato», annunciò Ardwin in un saluto sarcastico.

    Il fabbro smise di battere con il pesante martello sull'incudine e lasciò andare la lama incandescente. Si voltò verso l'interlocutore e lo squadrò dalla testa ai piedi per poi scoppiare in una grassa e raschiata risata. «Riconoscerei quella lama ovunque», ammise alludendo alla spada che Ardwin portava con sé. «Dopotutto, è uno dei miei lavori migliori. Come stai, Daint?» Il grosso fabbro strinse la mano dell'amico, quasi a stritolarla per la forza che mise in quel gesto.

    «Sto bene, grazie Deriom.» Ardwin aveva fretta, perciò cercò di parlare il meno possibile. Per quanto gli sarebbe piaciuto, proprio non aveva il tempo di soffermarsi in convenevoli e nostalgiche conversazioni. Tra meno di un'ora sarebbe calata la notte, e muoversi nell'oscurità non sarebbe stato di certo il modo migliore per cercare di trovare una persona di cui ricordava a stento l'aspetto.

    «Hai la voce di un uomo ora, e anche il corpo. Ah! Dov'è tuo padre? Quella spada che porti con te è stata forgiata con il metallo migliore del Regno apposta per lui. Quella canaglia di un lord cosa mi racconta dopo tanto tempo?»

    Ardwin abbassò lo sguardo e si strinse nelle spalle. Dopo tutti questi anni neppure Edmiral, che è la più vicina a Dainhood, ne è a conoscenza... Bene. Meglio così. «Lui è morto, Deriom. È... deceduto dodici anni fa.»

    Il fabbro allentò la stretta di mano e riprese solo dopo essersi seduto su un'enorme sedia di legno, adottando uno sconvolto sguardo ricolmo di apprensione. «Brutta notizia. Aldoin Daint era un uomo valoroso, e un caro amico. Scusa Ardwin, non sapevo. Che gli Dèi Evanescenti possano trattare la sua memoria con riguardo.»

    " L'informazione fu trattenuta... ", avrebbe voluto rispondere il lord di Dainhood, ma fermò la lingua. «Non potevi sapere. Non ti devi preoccupare, Deriom. Ora, non vorrei sembrare scortese, ma avrei una certa fretta. Potresti dirmi dove posso trovare Beilor? Dovrei parlare con lui.»

    Il fabbro aggrottò la fronte. Nei suoi occhi, neri come la pece, nacque chiaramente in un drastico cambiamento di espressione il più crudo disappunto. Si alzò dalla pesante sedia, sbuffò e tornò all'incudine, dove riprese a martellare violentemente la lama ancora calda. «Perché vuoi vederlo?», chiese con possente voce rabbiosa.

    «Vorrei discutere di alcune questioni private, di affari. Sempre che a te non dispiaccia.»

    «Quell'uomo non è più mio figlio da anni, ormai. Ha sporcato il buon nome dei Salt diventando uno schifoso mercenario. La nostra famiglia vantava la reputazione di aver posseduto i migliori fabbri della storia di Celkrast per generazioni e generazioni, ma quell'idiota, nella sua fottuta ambizione ha buttato tutto al vento per la battaglia! La battaglia !» Deriom si voltò verso Ardwin con sguardo disgustato, poi sputò a terra. «Se proprio lo vuoi incontrare, lo trovi tutte le sere nella taverna del Leone Rosso, dall'altro lato della città. Quell'ubriacone va sempre lì a vantarsi delle sue stronzate di combattimenti.» Sputò di nuovo per terra.

    Ardwin si mosse verso l'uomo e lo salutò con un cenno del capo. «Che gli Dèi abbiano cura di te, Deriom. Grazie dell'aiuto.»

    Il fabbro, cupo in volto replicò solo con un rude gesto della mano. Non fece mai caso al suo interlocutore, intento ad avviarsi fuori dall'armeria nel più completo silenzio.

    Ardwin arrivò a destinazione nel bel mezzo della notte. La taverna del Leone Rosso era un luogo squallido, sporco e maleodorante e pieno di uomini sbronzi accompagnati dalle loro cortigiane. Nulla di nuovo, insomma. Ogni altra locanda presente a Celkrast dopotutto offriva la stessa identica scena. Passò fingendo di non vedere il particolare spettacolo che si poneva davanti a lui. Persone di tutte le età, dai ragazzini ai vecchi, tutti talmente ubriachi o storditi da non riuscire neppure a pronunciare il loro stesso nome correttamente. Uomini che il giorno si definivano nobili, puliti, corretti, perfino superiori, che ora stavano pregando una qualche meretrice per un paio d'ore di divertimento sotto le lenzuola, lanciando loro tutte le monete d'oro che possedevano.

    Ardwin sapeva bene che fin troppi uomini erano a corto dell'onore necessario per resistere al desiderio del piacere carnale. Lui era (purtroppo?) stato educato rigidamente. Non avrebbe mai disonorato il nome della sua famiglia per una donna che neppure conosceva. Se cercava di restare sempre lucido e pronto all'azione possedendo desideri ben diversi da quelli degli altri uomini, desideri di libertà che solo lui poteva comprendere, era soprattutto perché aveva vissuto e provato su pelle il vero male .

    Sedette vicino ad un tavolo appostato all'angolo in ombra dell'edificio, mangiando pane duro e sorseggiando un bicchiere di vino amaro proveniente da una qualche isola d'oriente, probabilmente Rhend. Squadrò con attenzione ogni singolo volto gli capitasse a tiro con voracità, cercando di riconoscere l'amico tra la folla e il caos, ma nessuno sembrò avere le somiglianze caratteristiche di Beilor Salt.

    La ricerca venne violentemente interrotta quando, dall'altro capo della taverna, due uomini iniziarono a urlare insulti e malmenarsi per chissà quale motivazione. Ardwin vide solo boccali ancora mezzi pieni volare da un capo all'altro del salone, pugni che si concludevano con uno sgradevole suono di ossa rotte fra bestemmie, insulti e imprecazioni, e notò che i due uomini impegnati nella colluttazione ora erano diventati una decina. Nulla di nuovo, pensò per la seconda volta.

    Osservò per un paio di minuti la scena che aveva davanti a sé. Uomini, donne, ragazzi e vecchi, tutti impegnati a percuotere a suon di colpi chiunque capitasse a tiro, finché non si passò alle armi. In fin dei conti, anche quell'aspetto della faccenda era del tutto normale.

    Un uomo sfoderò un pugnale dalla cinta, in risposta qualcun altro una mazza di legno chiaramente fatta in casa, qualcuno addirittura cercò di usare il proprio boccale come oggetto contundente.

    Ardwin decise che quello era il momento adatto per dare una fine a tutta quella follia. Se non si fosse mosso, dopotutto, delle persone sarebbero morte. Si alzò. Evitando la mischia si diresse verso l'uomo che aveva fatto iniziare la colluttazione, in un movimento tanto silenzioso e furtivo quanto rapido e preciso, e con una sonora spinta lo gettò a terra. Sperò in una conclusione istantanea della rissa, ma come risposta ottenne solo un pugno ben assestato in testa. A causa della svista nata dall'ingenuità romantica che tanto contraddistingueva il suo spirito di filantropo, Ardwin cadde su un tavolo rovesciando insieme a sé tutto il bene che vi era sopra.

    Adirato, il lord di Dainhood si rialzò e sguainò la spada contro colui che lo aveva colpito. Non avrebbe certo ucciso un uomo per rabbia, ovvio che no, ma gli avrebbe comunque impartito una lezione che per un bel po' di tempo avrebbe tenuto la sua persona lontano da taverne e simili. Deviò tre affondi di daga e schivò un boccale, poi, cercò di avvicinarsi il più possibile al centro della mischia. Riuscì ad arrivare e parò un colpo di pugnale con la sua lama, infine assestò un possente calcio al petto del nemico scagliandolo in un angolo della taverna, accompagnato da una sgradevole cacofonia di ossa rotte.

    Vedendo che impugnava una spada, buona parte dei rissosi arretrò e si nascose da Ardwin, che era armato, lucido e ben addestrato al combattimento.

    «Qualcuno vuole finire ammazzato? Che mi affronti allora!», urlò infuriato menando fendenti all'aria. Non desiderava eliminare nessuno, ma sperava che la paura potesse portare la ragione. Tutti arretrarono ancora di più, e finalmente, la follia parve calmarsi.

    «Io voglio affrontarti.» Una poderosa voce rombante ruppe il silenzio. Si fece avanti un uomo enorme, appena entrato nella taverna. Era alto, grosso, ben piazzato e... in armatura completa. Un pesante elmo placcato con la celata abbassata impediva di riconoscerne il viso, e in cima ad esso, una sorta di crine di lunghi fili porpora decorativi sfuggiva nella sua rozza estetica primitiva. Una cappa di seta, scura con dettagli e striature rosse, sormontava le larghe spalle tozze fino ad arrivare all'altezza delle caviglie. La corazza era composta di solidi pezzi di spesso ferro nero, opaco, e il riflesso plumbeo delle torce la rendeva scura quasi quanto l'ebano. Ogni singola placca era segnata con incisioni scarlatte, e pareva assorbire la luce delle fiamme in un implosione mistica di colore instabile. L'uomo gigantesco aveva con sé una mastodontica mazza da guerra a due mani, intenta ad elargire un affabile benvenuto con la sua sola comparsa mortale. L'impugnatura era in legno di quercia, la parte contundente, invece, composta da possente ferro battuto, sul quale si potevano ancora chiaramente vedere le striature e le ripiegature del metallo risalenti alla forgiatura. Sulla cima erano legate, con piccole strisce di cuoio tinto, due imponenti zanne d'avorio, trattate in modo da essere affilate e letali come pallide lance.

    Il pesante guerriero si fece strada all'interno della taverna fino ad arrivare davanti ad Ardwin, mentre il resto delle persone indietreggiò per fare spazio al combattimento. Si udirono chiaramente bisbigli impauriti provenire dalla folla. Molti, tra uomini e donne uscirono più in fretta che poterono, per evitare di essere coinvolti nella mischia. Altri cominciarono a scommettere, mentre altri ancora erano talmente sbronzi da non essere neppure in grado di capire la situazione che avevano davanti agli occhi.

    Una volta che il torreggiante uomo fu dinanzi al suo sfidante, sfoderò la possente mazza da guerra che aveva come arma e iniziò a rotearla davanti a sé, in una spudorata esibizione di forza.

    Dannazione a me alla mia lingua lunga. La sua clava è notevole... e lui sa chiaramente maneggiarla. Questo è un guerriero, non un civile ubriaco, notò Ardwin con un accenno di timore. Ma se mi abbandono alla paura, sono già morto.

    «Pronto?», chiese il guerriero. La sua voce era talmente possente che, nonostante fosse mascherata dall'elmo, risuonò in ogni angolo della taverna. Pareva in un qual modo divertita, intrattenuta.

    «Sono sempre pronto.» Ardwin non si scompose, rimase concentrato sull'obbiettivo: vincere.

    Entrambi i guerrieri alzarono la guardia e si misero in posizione di difesa.

    Il primo ad attaccare fu l'uomo dall'armatura pesante. Un colpo rasoterra a spazzata diretto alle gambe si mosse rapidamente, risuonando nell'aria con un sibilo. Ardwin, prevedendo l'attacco, saltò e riuscì a schivare il violento colpo. Appena rimise i piedi a terra, vide che il suo avversario era già in difficoltà: la sua mazza si era conficcata nel pavimento per colpa del precedente schianto. Approfittanto dell'occasione, attaccò in un preciso affondo mirato al centro dell'addome.

    Il guerriero riuscì a spostarsi in tempo, e il colpo graffiò semplicemente un lato dell'addominale della corazza, riportando alla luce un filo dell'originale colore argenteo. Sradicò violentemente la mazza dal suolo, scagliando i minuti resti della pavimentazione in aria e lasciando un rozzo buco nel terreno, e urlando assestò un tremendo colpo dall'alto verso il basso. Ardwin lo parò con la lama della spada, ma il brutale impatto e il troppo peso fecero cedere le sue gambe, costringendolo a scivolare in avanti e sbattendo violentemente la sua schiena a terra. Sdraiato al suolo, fissò intensamente la situazione di stallo in cui era stato portato. Davanti a sé, la mazza acuminata che strideva scorrendo contro la sua spada dava vita ad un suono particolarmente sgradevole, e a un leggero cedimento delle giunture del gomito, estremamente sforzate nel loro tremolio dallo sfregamento più che intenso delle armi intente a baciarsi.

    Il guerriero rialzò la mazza per cercare di finire il suo nemico una volta per tutte, ma Ardwin riuscì a fuggire rotolando verso destra, evitando che il colpo frantumasse il suo cranio, invece del pavimento. Balzò in piedi con la rapidità di un gatto selvatico e scattò alle spalle del suo sfidante, impegnato nel cercare di recuperare l'arma nuovamente bloccata a terra. Saltò sulla schiena dell'uomo e si arrampicò su di essa afferrando saldamente le spalle, poi iniziò a stringere con forza il braccio intorno alla sua gola in una presa sicura e decisa.

    Il grosso guerriero dimenò il suo enorme corpo. Schiantò più volte la schiena contro il muro in un estremo tentativo di staccarsi l'avversario di dosso, che invece di mollare, strinse ancora di più.

    Ha una forza mostruosa. Quasi non sembra un uomo, notò Ardwin nel lasciare la spada per stringere con entrambe le mani. Ma ormai ho vinto. Colpì con un calcio ben assestato il retro del ginocchio del guerriero, facendolo inginocchiare con un tonfo. Subito dopo afferrò rapidamente una delle daghe e la puntò alla gola del nemico, inserendone il filo tra gorgiera e cotta di maglia.

    «Non voglio ucciderti. Arrenditi.» Ardwin era serio, non voleva inutili spargimenti di sangue, ma se fosse stato costretto, non avrebbe avuto ripensamenti nell'eliminare l'uomo che fino a poco prima lo voleva morto. Il grosso guerriero si dimenò un'ultima volta, scrollando le spalle, ma nulla cambiò.

    «Smettila di combattere e arrenditi!», ordinò Ardwin. «O giuro che ti taglio la gola da un orecchio all'altro.»

    L'avversario sembrò guardarsi attorno per un po', come per constatare in un gesto attento di vergogna (e qualcos'altro) che non fossero presenti altri individui ad assistere alla scena, poi parve calmarsi, e dopo pochi secondi, la ragione pose fine alla faccenda. «Mi arrendo.» Furono queste le parole borbottate che separarono i due uomini dall'abbraccio della morte.

    Completamente indolenziti, si alzarono entrambi da terra. Ognuno riprese la propria arma caduta. Ardwin uscì infuriato dalla taverna. Aveva fin troppi occhi puntati addosso e preferiva poter pensare almeno per un paio di secondi nella più completa calma.

    Girò a lungo per la città, e una volta arrivato nel Gran Piazzale si sedette su una delle panche di granito lavorato, tanto usate in gioventù. Era vicino ad un tempio degli Dèi Evanescenti, ma nessuno era intento a pregare. La mattina, la stessa piazza in cui era pullulava di uomini e donne di tutte le età che discutevano, ma ora, nel cuore della notte, era un luogo silenzioso e di pace, dove si sentiva solo il sibilare del vento per le anguste vie e lo scoppiettare delle fiammelle delle torce.

    Dannazione!, imprecò Ardwin. "Senza Beilor non riuscirò mai nel mio intento. Forse dovrei tornare a Dainhood... Tutta questa storia è una follia ." Ma una visione scavò nel suo cuore ricordandogli il perché del suo viaggio. Una visione che preferiva non essere costretto a rivedere mai più. Lui doveva andare avanti, doveva proseguire nella sua impresa, con o senza Beilor. "No... Devo farlo, per loro ."

    I suoni tranquilli della cittadina furono gli unici che si poterono udire, almeno finché non arrivò la voce rombante di un individuo estraneo. «Sei un abile guerriero, sicuramente addestrato da un maestro d'armi esperto», disse in tono potente. «Mi hai risparmiato la vita. Nonostante sia ben poca cosa, essa ti appartiene. Hai i miei servizi.»

    Ardwin si voltò verso il suo interlocutore, a lato della panca dove sedeva. Era il guerriero della taverna. Portava l'elmo sotto braccio e la mazza appesa sulla schiena. Sì... Per il giusto compenso, aggiunse intelligentemente Ardwin. "Sai che m'importa

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