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Darkwing vol. 1 - La Spada dai Sette Occhi ed. Redux
Darkwing vol. 1 - La Spada dai Sette Occhi ed. Redux
Darkwing vol. 1 - La Spada dai Sette Occhi ed. Redux
E-book590 pagine8 ore

Darkwing vol. 1 - La Spada dai Sette Occhi ed. Redux

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Info su questo ebook

EDIZIONE REDUX *** Nuova versione restaurata con scene extra *** "Un viaggiatore giungerà per reclamare la Spada" Terra. Un futuro non molto lontano. Una nuova fonte di energia promette di cambiare il mondo, ma quel sogno si trasforma in una catastrofe. Peter scompare nell'esplosione. Sembra la fine, invece è l'inizio di uno straordinario viaggio. Scopre di essere in un luogo chiamato Corown, dove viene scelto dalla Spada dai Sette Occhi per diventare il Darkwing, un guerriero investito di un potere terribile e oscuro che rischia di consumarlo. Riuscirà a servirsene per proteggere coloro che ama?
LinguaItaliano
Data di uscita17 gen 2020
ISBN9788831657129
Darkwing vol. 1 - La Spada dai Sette Occhi ed. Redux

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    Anteprima del libro

    Darkwing vol. 1 - La Spada dai Sette Occhi ed. Redux - Davide Cencini

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    Darkwing vol. 1 - La Spada dai Sette Occhi ed. Redux

    ISBN: 978-88-31657-12-9

    Autore: Davide Cencini

    Copertina: Federico Musetti, Rita Micozzi

    I edizione: agosto 2010

    II edizione: ottobre 2012

    III edizione: giugno 2019

    IV edizione: gennaio 2020

    V edizione: ottobre 2020

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo consenso dell’Autore.

    http://worldofdarkwing.com

    DAVIDE CENCINI

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    Libro I

    La Spada dai Sette Occhi

    Grazie:

    A Rita, che ha nutrito i miei sogni.

    Ad Alessandro, per il suo aiuto e la sua amicizia.

    A tutti coloro che mi hanno sostenuto

     nella realizzazione di questo libro.

    ~ I ~

    IL CAVALIERE DEL FUTURO

    1. ARRIVO

    Il tramonto era ormai passato da un pezzo, ma gli abitanti di Andorr non se n’erano accorti. Già da due giorni una coltre di nubi nere e impenetrabili oscurava il cielo, rendendo vago lo scorrere della giornata nella cittadina. Malgrado fosse iniziata l’estate, da qualche giorno il sole era stato spazzato via da un’improvvisa ondata di maltempo. La pioggia incessante che scendeva giù a catinelle non faceva che aumentare la monotonia del quadro e ingrigire l’atmosfera. La stradina in terra battuta che s’incuneava tra le modeste abitazioni verso la piazza centrale si era trasformata in un rigagnolo di fango.

    Con un tempo simile, gran parte del paese si ritrovava sprofondato nel silenzio. Gli abitanti, tramutati in ombre schive, erano tappati in casa, seduti di fronte al fuoco, a cena o già a letto, perciò solo un paio di essi pigramente adagiati alla finestra notarono l’ingresso nel borgo di una figura ammantata e solitaria, in groppa a un destriero scuro come la notte.

    Il cavaliere fermò il suo cavallo davanti a una taverna, dal cui interno proveniva una luce calda e invitante. Rabbrividì, mentre l’ennesima folata di vento umido gli entrava nelle ossa. L’insegna diceva Ai Due Dragoni, e vi erano rappresentati due draghi, uno dorato e uno nero, avvinti in un duello mortale. Sotto notò un’altra scritta in piccolo: Esercizio appartenente alla catena Settebecchi, un marchio che gli era familiare. Da dentro provenivano canti e risa, ma soprattutto un piacevole odore di carne arrosto. La locanda sorgeva nella piazza cittadina, al centro della quale cresceva un imponente platano dai rami appuntiti e nudi. Il platano era rappresentato anche sul cartello di benvenuto piantato fuori dalla staccionata che delimitava il borgo, per cui il cavaliere dedusse che fosse il simbolo della città: infatti era rinsecchito e deprimente, in perfetto accordo con essa.

    – Non è il Grand Hotel, ma credo che possiamo accontentarci. Vero, Landar? – disse al suo destriero, come se stesse parlando a un compagno di viaggio. Gli carezzò il collo con una pacca delicata. Il muso era l’unico punto dove il manto nero dell’animale veniva spezzato da una macchia bianca; la sua forma ricordava quella di una stella a quattro punte, di cui la punta in basso leggermente più lunga. Lo stallone rispose con uno sbuffo e scrollò la testa con aria palesemente dubbiosa.

    Il cavaliere smontò e condusse la sua cavalcatura nella stalla della locanda. Gli si presentò subito lo stalliere, un ragazzetto con più brufoli in faccia che pagliuzze nei vestiti; il cavaliere gli offrì una moneta d’oro raccomandandosi di trattare il suo animale con riguardo, e il giovane, intascandola con gioia, promise che gli avrebbe riservato una doppia razione di fieno e una coperta calda. Il padrone gli accarezzò il muso e lo lasciò alle cure del lavorante.

    L’uomo ammantato di nero entrò nella locanda silenziosamente, quasi di soppiatto, mentre i suoi stivali borchiati lasciavano impronte fangose sul pavimento. Gli avventori erano presi dalle loro faccende e il suo ingresso in scena passò inosservato, nonostante l’occhio indagatore di qualche vecchio mercenario lo avesse trafitto sulla soglia. Tirò il cappuccio più avanti sul viso, cercando di non incrociare alcuno sguardo, e si diresse verso un tavolino rannicchiato in un angolo in penombra, facendo del suo meglio per non farsi notare. Di sicuro i vestiti blu scuro, i guanti di pelle e il corpetto dell’armatura in cuoio erano indumenti abbastanza comuni, ma lo stesso non poteva dirsi del bracciale metallico quadrangolare infilato al polso, su cui era impresso il simbolo sacro dei chierici Toras, un sole giallo con otto raggi triangolari, o la spada corta di fattura elfica che teneva alla cintola. Più di tutto, però, sembrava lo mettesse a disagio la stranissima arma che portava sulla schiena. Racchiuso in un fodero rosso decorato da fasce intrecciate blu scuro, giaceva uno spadone pesante e spesso, lungo quasi quanto il suo stesso portatore. L’elsa, invece che di comune acciaio, era stata scolpita da un unico blocco di roccia lavica ruvida e lucida, probabilmente ossidiana, che conferiva all’intera spada un aspetto grezzo. Dal centro si protrudevano verso l’alto e verso il basso due spuntoni ad ogni lato, simili a corna. Sulla pietra si notavano a malapena quattro protuberanze bulbose di forma ellittica da un lato - due sulle corna laterali, e due nel mezzo una sopra l’altra - e tre dall’altro, e su questo lato l’ellisse di mezzo era più grande delle altre. Il manico era invece di metallo argenteo, avvolto in un cordame rossastro per aumentare la presa. Nonostante il guerriero non fosse di elevata statura, quell’oggetto da solo bastava a renderlo più imponente.

    Mentre il piacevole tepore della locanda scioglieva le sue membra rattrappite dal freddo, il cavaliere si guardò attorno. C’era gente di ogni tipo che rideva, mangiava, beveva, giocava a carte o a dadi, cantava o si dedicava ad altre attività, più o meno censurabili. Alcuni dei clienti erano davvero pittoreschi. Ad esempio, era impossibile non notare un nano con i capelli tagliati a mo’ di cresta che faceva più baccano degli altri, mentre mostrava ai suoi commensali come riusciva a sollevare sulla spalla una donna volgare dai seni procaci, con una scollatura debordante. I nani erano una razza umanoide dalla bassa statura, ma dotati di un’impressionante robustezza fisica che non cessava mai di stupirlo. Malgrado superassero raramente il metro e cinquanta, avevano braccia grosse e dure come tronchi, fronti basse che sovrastavano occhi profondi, e portavano per tradizione un’inconfondibile barba che si allungava con l’avanzare dell’età, che amavano arricchire con decorazioni di diverse fogge a seconda del ceto sociale di nascita. Si poteva capire molto di un nano dal modo in cui intrecciava la barba. Da quel che riusciva a vedere, il tizio laggiù era di umili origini, forse appartenente a un clan mercantile di bassa estrazione.

    Il campo visivo del cavaliere fu invaso improvvisamente dalla pancia dell’oste e dal sudicio grembiule che la ricopriva.

    – Buonasera a voi, straniero. Cosa posso servirvi? – domandò con cortesia.

    Per un attimo lo aveva scambiato per un essere umano, ma quando alzò lo sguardo si accorse che era di razza aviana. Il volto era dominato da un becco spiccatamente arcuato e adunco, schiacciato tra due guance paffute ricoperte da basettoni; per contro, non gli erano rimasti molti capelli. Le mani tozze stringevano uno straccio, con cui si stava asciugando l’impalpabile piumaggio rossiccio che gli ricopriva la pelle. Inclinò la testa di lato e batté le palpebre, in un tipico atteggiamento incuriosito da pappagallo.

    – Qualunque cosa da mettere nello stomaco, purché sia calda e pronta in fretta. − rispose il cavaliere, in tono esausto.

    – Che ne dite di una bella zuppa? Stasera abbiamo un ottimo stufato di agnello e verdure.

    – Perfetto, ne prendo una porzione doppia. Da bere un vino rosso leggero. E vorrei fermarmi per la notte.

    − Vi faccio preparare subito una stanza.

    Appena qualche minuto dopo, lo straniero si ritrovò davanti una gustosa brodaglia fumante. Iniziò a consumare il suo pasto con appetito, gettando lo sguardo intorno solo di tanto in tanto.

    In un angolo in penombra, un ragazzo osservava con attenzione il nuovo arrivato. I suoi grandi occhi azzurri, attenti e concentrati dietro ai ciuffi di capelli castani che gli ricadevano sul viso, sembravano attratti in particolar modo dalla borsa che pendeva dalla sua cintura. Le sue agili dita fremettero sotto il mantello verde scuro in cui era avvolto.

    Approfittando della confusione, sgusciò alle spalle dello straniero senza farsi notare. Era solo un adolescente, ma si muoveva già con maestria e sicurezza tra le ombre. La borsa era lì appesa alla sua cintura, grassa e gonfia come un frutto maturo, quasi aspettasse solo di essere colta da qualcuno.

    Come faceva sempre prima di mettere a segno un colpo, si sciolse le mani con un movimento preparatorio istintivo, sentendo la consistenza dei guanti in cuoio. Già stava allungando le dita sui cordoni del sacchetto, quando la spada che lo straniero portava sulle spalle attirò la sua attenzione.

    Si avvicinò per osservarla meglio. Esercitava su di lui un fascino irresistibile, ne era incantato. Maledicendo la sua stessa curiosità, protese una mano nel tentativo di toccarla.

    All’improvviso il bulbo più grande al centro dell’elsa si spalancò come un paio di palpebre, e apparve un occhio vivo e intelligente, che lo trafisse col suo sguardo. Il ragazzo si vide riflesso nella pupilla malevola che si stringeva verticalmente nel metterlo a fuoco, la sua immagine racchiusa nell’iride rossa; nello stesso istante, le spalle del cavaliere s’irrigidirono.

    Il ladruncolo si lasciò sfuggire un sussulto che tradì la sua presenza. Lo straniero si voltò con una prontezza impressionante e lo afferrò per il polso, piegandosi a guardarlo dritto in faccia. I suoi occhi grigi brillavano sotto il cappuccio e lo colpirono come strali di fuoco.

    – Ragazzino… questa spada non è roba per te. Trovati qualcun altro da borseggiare, se vuoi continuare a vivere! – sibilò. La sua presa sembrava una morsa d’acciaio; il ragazzo capì che gli sarebbe bastato stringere un po’ di più per spezzargli le ossa come rametti, eppure si era limitato ad applicare soltanto la forza necessaria per sottolineare il messaggio.

    Non appena il cavaliere lo lasciò andare se la diede a gambe. Mentre cercava di raggiungere l’uscita urtò un omaccione barbuto dalla stazza taurina. Rimbalzò indietro e fu sul punto di cadere, ma questi lo afferrò per il bavero e lo strattonò.

    – Guarda guarda chi si vede! − esclamò, attirando l’attenzione degli altri clienti.

    – Che volete? Lasciatemi! – si ribellò il giovane, tentando di divincolarsi.

    Il colosso lo squadrò da vicino coi suoi occhi bovini ricolmi di venuzze.

    Mmmh… non mi sbaglio! Tu sei il ladruncolo che tre giorni fa mi ha rubato la borsa! – dichiarò con aria arcigna. Il suo tono era alticcio, lo sguardo ottuso, e dall’espressione disgustata con cui il ragazzo cercò di allontanare la faccia dalla sua bocca, il cavaliere dedusse che lo sterco profumava di più del suo alito.

    – Mi confondete con qualcun altro! − insistette il ragazzino.

    – E invece sei proprio tu, piccolo demonio. Rendimeli! E subito! – gridò questi, scuotendolo. Ora tutti li guardavano, in particolare un gruppo di personaggi dall’aria poco raccomandabile seduti attorno al tavolo da cui si era alzato l’aggressore.

    – C’erano… c’erano solo pochi miserabili spiccioli, Signore! – ammise il ladro, assumendo un tono di voce più compiacente.

    – Per quegli spiccioli io mi spacco la schiena tutto il giorno! E se adesso non me li ridai, vedi come ti spacco la tua!

    L’accusato non si perse d’animo. Si infilò una delle sue facce più angeliche e la buttò sul patetico.

    – Ci ho comprato da mangiare per me e mia madre, Signore! E per i miei tre… cioè, cinque fratelli! − singhiozzò, mentre i suoi occhioni blu si riempivano di lacrime. Il bestione parve poco convinto.

    – Cos’è, non sai neanche quanti fratelli hai?

    – A volte mi confondo… sapete, mio padre era uomo di mondo! – rispose il ragazzino con la massima faccia tosta.

    Il cavaliere in nero, incuriosito, fermò l’oste per chiedere spiegazioni.

    – Chi sono quei due?

    – Quelli? Oh! – il resto lo sussurrò soltanto − Uno è un boscaiolo ubriacone che viene qui a sbronzarsi con i suoi degni amici, l’altro un orfanello che rubacchia per vivere. Quando lo beccano va raccontando che ha una famiglia da sfamare, ma sono tutte baggianate.

    – Il boscaiolo sembra piuttosto infuriato.

    L’oste si limitò a scuotere la testa e a borbottare con riprovazione:

    – Quel ladruncolo se l’è cercata: ha sbagliato a derubare Albert, quello spacca i tronchi a mani nude! Ora la sconta, così gli passa la voglia di ficcare le mani in tasca al prossimo!

    Il cavaliere sollevò un sopracciglio con aria infastidita.

    – Penso che ormai abbia capito la lezione. Non vi sembra il caso di intervenire?

    – Intervenire? E se poi quelli mi devastano il locale per vendicarsi? Nossignore, non è affar mio.

    – Già, figuriamoci. – gli rispose in tono pungente. L’oste fece spallucce e se ne andò per i fatti suoi. Intanto, l’alterco andava degenerando.

    – Bugiardo! – ruggì il bruto – Sono stanco di farmi prendere in giro da te! Rendimi i miei soldi o la paghi, moccioso!

    – Non li ho più, va bene?! Li ho spesi per mangiare, razza di scimmione ottuso! – sbottò finalmente il giovane ladro, irritato dalla testardaggine del boscaiolo.

    Le vene del collo di Albert si gonfiarono per la rabbia.

    – Ah, è così, eh? Adesso ti sistemo io!

    L’uomo sbatté violentemente il ragazzo sul tavolo a cui sedevano i suoi compari e gli stese il braccio destro sul piano, mentre gli altri lo tenevano fermo; questi lottava disperatamente contro le potenti zampe dell’ubriacone con ogni oncia della sua forza, ma il confronto era impari. Albert afferrò un’accetta che portava sempre legata alla cintola per tagliare i rametti, alzandola minacciosamente e mirando al polso.

    – Eccola qui, la punizione per chi ruba! – esclamò. Il rumore di fondo cessò di botto e tutti gli sguardi si puntarono su di lui.

    Proprio quando stava per vibrare il colpo, s’impietrì, emettendo uno grido strozzato.

    Un coltello da tavola sporgeva dalla sua natica. Qualcuno glielo aveva lanciato addosso con incredibile precisione.

    L’omaccione se lo estrasse con una smorfia di dolore, poi si voltò iniziando a guardarsi intorno con gli occhi iniettati di sangue. Il ladruncolo ne approfittò per togliersi d’impaccio e guizzare dietro a un tavolo vicino con la rapidità di un gatto.

    – Chi… è… stato…? – tuonò ribollendo di rabbia, mentre un grumo di schiuma gli si ammassava su un lato della bocca.

    Attorno al tavolino del cavaliere nero si fece d’un tratto il vuoto, risposta che ad Albert parve piuttosto chiara. Lo straniero continuò a consumare la cena con la massima indifferenza, come se nulla fosse accaduto. Il boscaiolo imbestialito si avvicinò a grandi passi brandendo la sua accetta.

    – È vostro il coltello che mi ha colpito un attimo fa, messere? – chiese in tono gelidamente sanguinario, mentre la sua ombra lo oscurava completamente.

    – Tenetelo pure. Non ho alcun desiderio di contaminare il mio cibo con i batteri che crescono sulle vostre natiche.

    Nel cervello ottuso di Albert le parole dello straniero non trovarono un significato, ma la sensazione di essere stato sbeffeggiato si fece strada prepotentemente.

    – Mi state prendendo in giro?! – esclamò, sbattendo le sue gigantesche zampe sul tavolo. Il piatto da cui il suo interlocutore stava mangiando sobbalzò.

    Il cavaliere posò il cucchiaio con calma ostentata e rispose in tono altrettanto controllato, ma con una nota di fermezza.

    – Ascoltate. Ho cavalcato tutto il giorno e vorrei soltanto riposare. Perciò fatemi il favore di cambiare aria, prima che qualcuno si faccia male.

    – Come osi, cencioso figlio di un blorgh?! – gridò Albert, strattonandogli il mantello. Lo straniero gli afferrò il polso e lo torse come se fosse stato quello di una gracile fanciulla. Il boscaiolo urlò, colto alla sprovvista in egual misura dal dolore e dallo stupore per la forza dell’avversario.

    – Forse non sono stato abbastanza chiaro. − proseguì quest’ultimo, imperturbabile − Io i prepotenti non li sopporto. Sparite!

    Gli occhi bovini di Albert sembrarono in procinto di esplodere. Posseduto dalla collera, vibrò un colpo d’accetta che avrebbe potuto spaccare in due la testa di un uomo come un melone maturo. Il cavaliere reagì d’istinto: alzò il braccio sinistro e con un movimento preciso del polso azionò una levetta posta nella parte interna del suo bracciale. Scattò un meccanismo, e il bracciale si espanse istantaneamente trasformandosi in uno scudo, la cui forma ricordava quella di un aquilone, nel mezzo del quale spiccava il simbolo sacro del Sole. Parò il colpo e l’accetta si ruppe; poi, velocissimo, sferrò al suo avversario un montante così forte da farlo caracollare indietro, mandandolo a schiantarsi rovinosamente proprio dove era seduta la sua cricca.

    Gli sguardi degli amici del boscaiolo indugiarono attoniti sul tavolo sfondato, dove Albert giaceva svenuto tra pezzi di legno rotti e boccali di birra rovesciati. Pochi istanti dopo quegli sguardi si rivolsero verso lo straniero, promettendo vendetta.

    – Ecco fatto, lo sapevo. – sospirò stancamente il cavaliere.

    2. RISSA

    I compagni del boscaiolo si avvicinarono minacciosi. Si raccolsero lentamente attorno al tavolo dello straniero che, in men che non si dica, si ritrovò circondato. Questi li scrutò con attenzione: erano in cinque, perlopiù semplice marmaglia, ma tre di loro erano armati e, a giudicare dalle armi, un paio erano senz’altro mercenari. Uno era orbo da un occhio, un altro aveva tutti i denti marci e brandiva due coltellacci arrugginiti da tagliagole. C’era poi il grassone con la mazza ferrata, e ancora, un contadino dai capelli rossicci con una barbaccia untuosa che emanava una puzza di stalla insopportabile; ma quello che più lo colpì era lo spilungone con la faccia da scimmia abbellita da una cicatrice sull’occhio, e uno spadone così grosso che quasi non riusciva a sollevarlo.

    Dal primo all’ultimo, sembravano pronti a uccidere.

    – Non possiamo discuterne da gentiluomini? – disse lo straniero, sorridendo con ironia sotto il cappuccio.

    Quello che puzzava di stalla gridò come una bestia e si lanciò alla cieca contro di lui, ma il cavaliere nero si scansò e lo afferrò per i capelli, facendogli lo sgambetto e sfruttando il suo stesso slancio per sbattergli la faccia sul tavolo. Un attimo dopo l’uomo era riverso a terra e mugugnava reggendosi il naso spaccato. Ovunque spuntarono visi meravigliati, primo fra tutti quello del giovane ladro che, invece di svignarsela, non aveva saputo trattenersi dal rimanere a osservare l’evolversi della situazione.

    Il cavaliere contò i suoi assalitori, indicandoli uno per uno, mentre gli animi si facevano ancora più agitati.

    – Uno, due, tre, quattro, mmmh… quattro contro uno, non è esattamente uno scontro equo. Per colmare la differenza non mi servirò della spada né dello scudo, contenti? – li schernì, scrocchiandosi le dita con aria di sfida.

    – Si fa beffe di noi!

    – Ti tiriamo fuori le budella, bastardo!

    Lo straniero non riuscì a trattenere uno sbadiglio.

    – Va bene, però facciamo presto, non vedo l’ora d’infilarmi a letto…

    Il tagliagole dai denti marci si gettò contro il cavaliere il quale, nel tentativo di liberarlo dal mezzo chilo di tartaro che si portava in bocca, sferrò un calcio ben calcolato a una sedia, mandandola a schiantarsi precisamente sui suoi incisivi superiori; i denti saltarono via e l’aggressore crollò a terra sbavando sangue. Il ciccione cercò di fracassargli il cranio con la mazza, ma lo straniero, anticipandolo, balzò all’indietro compiendo una capriola sul piano del suo tavolo, e sfruttò il proprio peso per capovolgerlo, così da fargli da scudo. In questo modo il colpo successivo dell’assalitore rimase incastrato nel legno. Il cavaliere ne approfittò per vibrare un poderoso pugno attraverso le assi danneggiate, colpendo l’avversario al plesso solare; poi scavalcò con un balzo il suo riparo improvvisato e gli assestò un calcio alla mascella, che lo mandò a sbattere dritto addosso al guercio. I due picchiarono la testa l’uno contro l’altro con violenza e andarono giù a peso morto. Era rimasto solo il gigante con lo spadone.

    – Fuori tre. Forza, amico! Il pubblico si annoia! – esclamò il cavaliere nero, con aria spavalda.

    Lo scimmione si sentì ridicolizzato quando si rese conto che i clienti della locanda stavano incitando lo straniero. Qualcuno gridò scommesse e si videro addirittura girare monete d’oro.

    Con la furia cieca di chi vuole ripagare un’umiliazione, il mercenario sollevò quel suo spadone enorme e iniziò a rotearlo, con molta energia ma poca tecnica, arrivando a sfiorare le teste di alcuni clienti. Il nano con la cresta se la ritrovò scorciata all’improvviso e non risparmiò un’imprecazione in nanico contro quell’idiota impazzito. Era evidente che la rabbia e la paura ormai lo accecavano, e lo straniero non si fece sfuggire l’occasione per provocarlo ancora di più, così da fargli abbassare la guardia. Si appoggiò a una colonna e disse in tono beffardo:

    – Però, che spada enorme! È forse per compensare una lacuna di virilità?

    La battuta scatenò le risate corali di tutti gli astanti.

    – Crepa! – ruggì il mercenario, vibrando un affondo.

    Il cavaliere schivò l’attacco, guizzando dall’altra parte della colonna, e lo spadone trovò solo il legno.

    – Ammettilo, te la sei comprata…

    Il bruto vibrò un colpo dal lato opposto, incidendo il pilastro ancor più a fondo, ma di nuovo il cavaliere evitò la sua lama, limitandosi a tornare dov’era prima.

    – … solo per far scena!

    – Sì, con tua sorella!

    A quell’insulto il cavaliere sembrò irrigidirsi e da sotto il cappuccio i suoi occhi grigi luccicarono di aggressività. Parò il colpo successivo con lo scudo, respingendolo con tale forza che lo spadone rimbalzò via dalle mani del suo portatore e roteò in aria, andando a conficcarsi proprio nel tavolo del solito nano, i cui improperi in lingua straniera si moltiplicarono. Poi, con un gesto fulmineo, afferrò il suo nemico per la cintura. Era un colosso, ma lui lo alzò con una mano sola e lo scaraventò di peso fuori dalla finestra, dritto attraverso il vetro. Per un attimo il pubblico ammutolì. Nessuno si aspettava che un uomo di un metro e settanta possedesse una simile forza.

    Il cavaliere si avvicinò al tizio a cui aveva tirato la sedia, che ancora stava spargendo denti sul pavimento. In prospettiva, un favore non da poco, considerata la sua situazione odontoiatrica.

    – Ehi, tu.

    Questi alzò gli occhi colmi terrore verso di lui.

    – I tuoi compagni hanno deciso di coricarsi presto, stasera. Sarebbe salutare se seguissi il loro esempio. – gli suggerì il cavaliere, mostrando le nocche rinforzate in metallo sul suo pugno. L’uomo scappò via di corsa, tenendosi le mani sulla bocca sanguinante.

    – E fatti vedere da un dentista! – aggiunse a voce alta. Tutta la locanda esplose in un coro di risa e applausi.

    Distratto dal clamore, solo troppo tardi sentì un fruscio dietro alle sue spalle e non fece in tempo a voltarsi. Il delinquente con la benda all’occhio, desto a malapena, lo sorprese e gli tirò giù il cappuccio.

    – Ma… chi sei… tu? – balbettò. Per tutta risposta, il cavaliere nero tirò un bel cazzotto all’indietro, colpendolo con il dorso della mano dove portava il suo strano scudo di metallo. L’aggressore stramazzò a terra grondando sangue dal naso.

    Il suo volto era quello di un uomo di circa trent’anni, con dei corti capelli color prugna scuro, il naso dritto e una barba incolta di qualche giorno. Un viso tutto sommato comune, ma dominato da uno sguardo penetrante.

    – Se proprio ci tieni… puoi chiamarmi Duckwing!

    Appena terminata la rissa, il ladruncolo si ricordò che ne era stato la causa e pensò bene che fosse meglio svignarsela, prima che qualcuno venisse a presentargli il conto.

    – Ehi, ragazzo! – lo chiamò l’imperiosa voce del cavaliere. Dopo il numero di prima, quell’uomo gli pareva cresciuto all’improvviso di un paio di metri.

    – Sì, signore? – balbettò.

    – Dì un po’, come ti chiami?

    – Mi… mi chiamo Tom, signore! Vi prego, prima di picchiarmi pensate ai miei otto fratelli…

    – Ascoltami bene, Tom: questa volta ti è andata liscia, ma la prossima non sarò qui a proteggerti… perciò d’ora in avanti resta fuori dai guai, capito?

    – Sì, signore! – rispose il giovane, lisciandosi nervosamente i capelli sulla nuca. Un ottimo consiglio che non sembrava avere la minima intenzione di seguire. Lo straniero sospirò e gli lanciò una moneta d’oro.

    – Tieni, va’ a comprarti da mangiare! E poi trovati un lavoro onesto, così conservi le dita!

    Tom l’afferrò al volo e con un sorriso infinito se la mise in tasca.

    – Grazie, signore! – esclamò. Un attimo dopo era sparito fuori dalla porta d’ingresso. Duckwing non seppe trattenere un sorriso di simpatia verso quella piccola canaglia.

    Tra i clienti ancora agitati si fece largo l’oste, che iniziò a ragliare come un asino ferito mentre esaminava i danni prodotti dalla rissa.

    – La mia povera locanda! Guardate qua che disastro! Che sciagura! Che calamità! Che…

    – … che esagerato che siete! – lo interruppe il cavaliere. Infilò la mano nella sua borsa e gli gettò ai piedi una mezza sovrana, ovvero un lingotto d’oro di forma rettangolare lungo un pollice che valeva cinquanta corone singole. Anche troppo per quei quattro mobili tarlati che erano andati in pezzi, ma meglio così che rischiare che chiamasse le guardie.

    − Ecco qua: dovrebbero bastare per rifondervi i danni di stasera e pagare il mio soggiorno… i vostri clienti, temo che dovranno arrangiarsi. Ora che ne dite di chiudere le fontane e accompagnarmi alla mia stanza?

    L’oste, che dopo aver messo in tasca un po’ d’oro aveva improvvisamente ritrovato il sorriso, fu ben felice di mostrargli la sua camera. Duckwing gli raccomandò di non disturbarlo fin quando non si fosse svegliato, fosse stato anche nella tarda mattinata.

    Finalmente solo, poté concedersi un momento per tirare il fiato. Appese con cura lo spadone alla spalliera del letto, accogliendo con sollievo la sensazione di essere finalmente libero dal suo peso. Si sfilò i guanti, scoprendo le mani fasciate che si erano fatte callose per il continuo sforzo di brandire la spada, e a seguire si tolse gli stivali. Si spogliò del mantello, poi del corpetto in cuoio e delle spalline in ferro, per arrivare finalmente a liberarsi della maglia, così da rimanere in canottiera, una veste di lino sbracciata di colore giallino. Il suo fisico appariva snello, con i muscoli ben disegnati e tonici, duri come l’acciaio. Infine, si sdraiò sul letto e intrecciò le dita dietro la nuca, rilassandosi e guardando il soffitto, gli occhi persi nel vuoto. Ora che l’emozione del momento era passata si sentiva deluso da se stesso per essersi lasciato coinvolgere in quel modo in una rissa, dato che la sua missione si supponeva dovesse restare il più possibile segreta. E invece era passato inosservato come una suora in un bordello… così era solita dire Anya.

    Lentamente sentì i muscoli rilassarsi, e il sonno appannare i suoi occhi stanchi. Un attimo prima di assopirsi pensò che ancora non riusciva a credere a tutto ciò che gli era capitato…

    3. NEW HOPE

    Il Balrog di Morgoth lo salutò come tutte le mattine, col suo fastidioso e martellante trillo e il suo ghigno satanico, dal comodino accanto al letto. Peter inviò da sotto le coperte il suo dito cieco a fare le veci della Fiamma di Anor.

    – Sveglia, Peter Klein! È ora di andare all’inferno! Sveglia, Peter Klein! È ora di andare all’inferno! Sveglia, Peter Klein! È ora di… – clic.

    Va bene, ho capito, stupida sveglia… il lavoro mi aspetta!

    Peter strisciò fuori dalle lenzuola quanto bastava per osservare l’orologio a forma di Balrog, il famoso demone alato de Il Signore degli Anelli, che aveva comprato al Comicon di New York un paio d’anni addietro. Il suo sguardo intorpidito vagò in cerca dell’ora sul display. Messaggio: Wake up, Peter… tempo soleggiato… 21 Maggio 2029… ore 7.02 AM.

    Devo alzarmi o farò tardi …

    Con fatica, Peter si tirò su a sedere sul letto, respingendo a forza la coperta. Sbadigliò come un leone in un documentario; ancora sentiva ristagnare in bocca un saporaccio residuo di patatine e birra tedesca d’importazione, ben imputridito dalla fermentazione notturna. Fortunatamente non era sposato perché probabilmente con un’alitata a distanza ravvicinata avrebbe potuto uccidere qualcuno.

    Devo decidermi a cambiare questo messaggio… già è abbastanza spaventoso vedere un mostro appena mi sveglio, ma farlo prima di andare al lavoro, dopo una sessione di gioco durata fino alle tre di notte e con un mezzo dopo sbronza, è davvero troppo, pensò, dandosi una bella grattata ai capelli spettinati. La canottiera bianca gli ricadeva spiegazzata su quel suo filo di pancetta.

    Si alzò, issando sulla natica i boxer mezzi calati, brancolando verso il bagno e incespicando sulla sua pila di manuali per i giochi di ruolo, tanto che per appoggiarsi alla parete quasi tirò giù il suo preziosissimo mega poster del Signore degli Anelli con scritta olografica stampato in tiratura limitata; era solo una delle innumerevoli altre stampe pieni di personaggi di romanzi fantasy e di cartoni animati di cui i muri erano tappezzati (chissà di che colore era la carta in origine…?). Si infilò nella doccia dopo essersi a malapena ricordato di spogliarsi. Mentre l’acqua calda gli scorreva addosso orinò con gusto, senza curarsi di dove finivano gli schizzi, amando la sensazione liberatoria di non dover centrare il water.

    Un po’ meno rimbambito, passò a lavarsi i denti e farsi la barba. Dopo essersi rasato le guance e il mento si guardò bene allo specchio, notando delle grosse occhiaie. Le notò anche lo specchio elettronico, che gli segnalò con un messaggio un alto livello di stress, consigliando riposo e cibo sano per colazione. La tecnologia di quel decennio stava iniziando a somigliare sempre più a una zia impicciona. Comunque, non poteva dargli torto.

    Guarda che faccia, pensò… sembro uno degli zombi che ho ucciso ieri sera! Che bella figura a presentarsi così per il neopromosso capo della sicurezza Peter Klein… la prossima riunione col gruppo la facciamo di sabato sera… gli avevo pure detto di togliersi dalle scatole verso mezzanotte!

    Invece, i suoi amici avevano salvato il regno alle prime luci dell’alba, e aveva pure dovuto prestare a David il manuale dell’ultima espansione delle Cronache di Legendia, intitolato L’Eredità di Zortek.

    Con i giochi di ruolo da fare in gruppo era così: un principio universale, come la forza di gravità o le leggi della termodinamica. Tra un dado da lanciare e una scheda personaggio da aggiornare si finiva sempre col perdere ore intere; per questo, quando si giocava la sera dopo cena, se si partiva alle dieci, era matematico che prima di mezzanotte neanche si iniziasse. Se poi per caso qualcuno si era scordato a casa, o aveva perso, la scheda con le statistiche del personaggio, era finita: un suicidio collettivo stile samurai era una soluzione più pratica e indolore al cercare di ricostruirla a memoria. Erano quei giochi allo stesso tempo terribilmente divertenti e mortalmente noiosi per cui si passava metà della sera a calcolare punti vita, armatura e bonus vari perché le somme venivano sempre sbagliate, l’altra metà a sparare cavolate tipo abilità inventate e azioni assurde da far fare ai propri personaggi, e la terza metà che rimaneva a tentare di immedesimarsi nell’avventura che il master, o narratore, tentava con somma frustrazione di esporre ai giocatori. Peter aveva ormai rinunciato a questo ruolo quando aveva scoperto che i master, di solito, morivano giovani di ipertensione per la totale mancanza di disciplina dei giocatori, e ora che aveva trentatré anni si accontentava di forgiare un personaggio ogni qualche anno e di trascinarselo dietro facendolo aumentare di potenza finché non diventava un dio e regnava sul suo universo, per poi passare a un’espansione diversa. Il suo ultimo personaggio era già abbastanza forte e prometteva bene; era stato proprio lui a dare il colpo di grazia al cattivo di turno.

    Indossò la divisa del personale di sicurezza della EnerFed Corporation, arrotolando le maniche della sua camicia azzurrina per alleviare il caldo, e infilò i suoi occhiali da sole quadrati nel taschino, dopodiché scese al piano di sotto per far colazione. Sua nipote Amanda era già lì, intenta a versare il latte su una ciotola di cereali. Peter si fermò un attimo sulla porta ad ascoltare la TV. Il telegiornale stava dando notizia dell’ennesimo disastro legato al riscaldamento globale: in Bangladesh, un’altra città costiera di cui Peter non aveva sentito il nome era finita sott’acqua a causa dell’innalzamento del livello del mare, costringendo milioni di persone a una penosa, straziante evacuazione. Catastrofi simili erano ormai all’ordine del giorno in tutto il mondo, a causa dello scioglimento dei ghiacci, e anche da loro erano in molti ormai a chiedere un piano di emergenza per città in pericolo come Miami, New York e Boston. Peter era sicuro che, come al solito, i politici avrebbero perso tempo a discutere senza combinare nulla finché non fosse stato troppo tardi.

    Sospirò, poi accantonò le sue preoccupazioni ed entrò in cucina.

    – ‘Giorno. Caffè italiano, 43 gradi. – esordì, rivolgendosi prima ad Amanda e poi alla macchinetta del caffè, che subito reagì al comando vocale attivandosi secondo il programma.

    Amanda scansò dal viso un ciuffo dei suoi bei capelli rossi. Quattordici anni e ogni giorno somigliava più a sua madre. Specie per gli occhi, verdi e vispi proprio come quelli di Anya.

    – Ehi, buongiorno! – lo salutò con enfasi − Il perfido mago Zortek non si dava per vinto ieri sera, eh?

    – Era più coriaceo del previsto, ma Sir Duckwing gli ha dato una lezione! – rispose Peter con aria complice, mentre mescolava due cucchiaini di zucchero nel caffè e si sedeva a tavola.

    – Ma stai ancora giocando a Chronicles of Legendia? Dimmi di no, ti prego…

    − Beh?

    − Beh, è l’ambientazione fantasy più ridicola che sia mai uscita! Che ci hanno messo pure? Una razza di uomini-uccello? Ormai non sanno più che inventarsi…

    Aviani, prego… e poi, non maltrattare la mia incarnazione ludica… gli aviani sono una razza divertente da giocare, danno un tocco di colore, altrimenti si finisce per interpretare i soliti elfi oscuri… e poi era un sacco che non giocavo un guerriero, che rimane sempre e comunque la mia classe preferita.

    – Pensavo che stessi giocando un umano…

    – Sì, ma il mio arcinemico Zortek mi aveva trasformato in papero… cioè, in un aviano, con una maledizione… era proprio per scioglierla che dovevo recuperare il leggendario Uovo di Mestia… ma te l’avevo raccontata quella sessione, no?

    Sicuro… senti, è arrivato un pacco per te… – seguitò Amanda con aria disincantata, sforzandosi a malapena di fingere che, quando suo zio le raccontava le sue sessioni di gioco, lei gli desse retta. Mostrò un pacchetto postale di cartone e iniziò a rigirarlo cercando l’etichetta.

    – Se sono ancora quelli di Dragon Love Slave, sai che ne penso…

    – … C’è scritto: Mr. Peter Klein, Rosebush Terrace sessantanove, New Hope… Fantasy Superdisc Megapack…

    Peter sputacchiò metà del caffè e si avventò sulla scatola come una iena affamata su una gazzella moribonda, iniziando a strappare l’involucro con avida ferocia. Tra una cosa e l’altra quell’ordine fatto via Internet giorni addietro gli era completamente passato di mente.

    – Vai! Finalmente è arrivato! Mi ero quasi dimenticato! – esclamò entusiasta, come un ragazzino la mattina di Natale.

    – Ma si può sapere che roba è?

    Peter sollevò in aria con estatica adorazione un pacchetto di film, simile a un sacerdote che presenta alla folla un neonato erede al trono. Mancava solo il cono di luce dal cielo per completare l’affresco.

    – La più libidinosa raccolta di film che un uomo possa desiderare… la terza trilogia de Il Signore degli Anelli: Il Ritorno di Sauron, il musical del Silmarillion e Aragorn contro Darth Vader: Il Lato Oscuro dell’Anello! … O era Il Signore della Forza Oscura? Vabbé, è uguale…

    – La tua generazione è ancora fissata con i supporti fisici. – sospirò laconicamente Amanda – Se non vuoi che te li scarichi io, non potevi almeno prenderli in streaming come tutte le persone normali?

    Peter sogghignò e fece oscillare il dito.

    – Eh no, carina, perché questa è l’edizione Ultra Gift Box col pupazzetto del Signore degli Orchi Sith in regalo! – esclamò, trattenendosi a malapena dallo sbavarci sopra. Subito dopo iniziò a scartare il primo cofanetto, sulla cui copertina figurava una guerriera elfica tutta pistole, scimitarre e seni rifatti quinta misura, circondata da un esercito di orribili orchi armati di spade laser. Ultimamente erano tornate di moda delle azzardate rimasticature di vecchie glorie del cinema di quando era ragazzino… forse non proprio fedeli agli originali, ma si poteva resistere alle machiavelliche invenzioni del marketing?

    Mentre Peter spolpava la confezione, Amanda si limitò ad alzare gli occhi al cielo con muta sopportazione e un pizzico di condiscendenza: vivendo con uno zio che, a trentatré anni suonati, passava gran parte della sua vita mentale nella Terra di Mezzo, aveva sviluppato uno spesso strato di santa pazienza. Semplicemente, suo zio era cresciuto senza superare del tutto la fase manga. Sapeva che non era affatto immaturo come sembrava; dalla tragica perdita di sua madre si era preso cura di lei con esemplare senso di responsabilità, ed era ormai diventato per lei molto più importante di quel padre che l’aveva abbandonata quando era piccola. Ogni volta che lo vedeva comportarsi da imbranato, cercava di ricordarsi che era stata proprio quella passione smodata per il fantasy ad aiutarlo in tanti momenti difficili, offrendogli rifugio durante un’adolescenza ribelle piena di conflitti col padre e una giovinezza segnata dal fallimento della sua carriera militare. In fondo, quel suo lato un po’ da bambino mai cresciuto faceva parte, assieme a un viso belloccio e alla barba perennemente incolta, del suo fascino da uomo vissuto che piaceva tanto alle sue colleghe. Guardandolo con i suoi occhi di donna, Amanda era acutamente consapevole che, fissazioni da nerd a parte, Peter era un uomo con un non so che di irresistibilmente sexy. E tuttavia, sembrava che non riuscisse mai a trovare la donna giusta: in un modo o nell’altro le sue storie finivano sempre male, come se fosse legato a un qualche ideale che faticava a vedere in una persona in carne e ossa. Già, parlava lei, che non riusciva a rimediare un ragazzetto che non la scaricasse dopo essersi reso conto che era più intelligente di lui di almeno 30 punti di QI…

    – Stasera la TV in salotto è prenotata… adesso scappo, al laboratorio c’è quel test importante! – disse Peter mentre inforcava gli occhiali da sole.

    – Ah, già! Collaudano l’invenzione di Jasmine, giusto?

    – Non me ne parlare, oggi sparerà protoni anche dalle orecchie! Ha detto di voler portare anche il figlio, pensa! – aggiunse Peter, sgranocchiando una fetta biscottata.

    – Stasera ho un impegno anch’io. Ho il raduno in chat col gruppo di hacking… – proseguì Amanda issandosi lo zainetto in spalla.

    – Ancora con quei tizi? Ti ho già detto che preferirei frequentassi altre compagnie. Non vorrei che ti cacciassi in qualche guaio. Proprio l’altro giorno hanno beccato uno che si era intrufolato al Dipartimento della Difesa… – rispose Peter, prendendo il soprabito e le chiavi della macchina.

    – Tranquillo, sono tutti bravi ragazzi! – lo rassicurò Amanda il più angelicamente possibile; nel frattempo pensava al suo povero amico Serial_Eater che languiva in chissà quale cella federale. Ed era fortunata a non fargli compagnia in quello stesso momento: l’incursione era andata malissimo a causa di un sistema di protezione secondario di cui nessuno si era accorto e che per poco non aveva bruciato tutto il gruppo, inclusa T@lita. Tuttavia era quasi sicura che non fossero riusciti a tracciarla. Gli hacker migliori sapevano prendere le giuste precauzioni: protocolli di offuscamento di ultima generazione, macchine ghost e un assoluto anonimato anche tra i membri del gruppo assicuravano un ottimo grado di protezione, ma nessun sistema era imbattibile. Chi avrebbe spiegato allo zio se due uomini in nero avessero bussato alla porta e trascinato via in manette l’alter-ego elettronico della sua dolce nipotina? Oltretutto col suo lavoro di responsabile della sicurezza alla EnerFed sarebbe stata una pessima figura, avrebbero potuto anche licenziarlo. Meglio starsene buoni per un po’, in modo che si calmassero le acque. Amanda… o meglio, T@lita… si reputava un hacker in grado di mettere il sale sulla coda a metà dei programmatori del Pentagono, ma prima o poi un passo falso capita anche ai migliori.

    Tutto questo naturalmente non le avrebbe impedito di fare sega al compito di filosofia di quella mattina…

    – Vuoi un passaggio? – chiese Peter.

    La mente di Amanda evocò una storica esclamazione: D’oh!.

    – Ma no, non preoccuparti, oggi vai di fretta… andrò a scuola con l’autobus… – rispose, sforzandosi di sorridere.

    Insisto. – ribatté Peter, con un ghigno sadico.

    ***

    Amanda sbuffò, ciondolando un braccio fuori dal finestrino della loro Fiat Devil ("-man", come aveva aggiunto a pennarello Peter sulla carrozzeria), mentre il tranquillo, ordinario quartiere residenziale di Rosebush Terrace scorreva davanti ai suoi occhi assenti. Non amava quel posto, le sembrava così noiosamente borghese. I viali ben curati, le villette a schiera tutte uguali; la staccionata bianca e il giardino col barbecue, la cuccia del cane e la buchetta delle lettere con il cognome scritto in stampatello. Il signor Jackson tagliava l’erba, e due isolati dopo la signora Maller innaffiava i gerani. Il Sogno Americano: me ne faccia diecimila copie, prego. Una cosa che per qualche motivo le dava l’ansia. All’inizio del secolo New Hope era una piccola città di provincia come tante altre, finché non era stata quasi rasa al suolo da un tremendo terremoto nei primi anni del secondo decennio. La ricostruzione successiva ne aveva fatto una metropoli moderna e tentacolare… ai cui margini il quartiere residenziale di Rosebush Terrace si contentava di vegetare beatamente.

    – Dai, come l’hai capito stavolta?

    – Sono nato prima di te… e poi, stai diventando prevedibile. È ora che la pianti con queste assenze, i tuoi professori dicono…

    – Me ne frego di quello che dicono, va bene?! La scuola è una rottura, e io la odio. Mi annoio. E poi i miei compagni sono così…

    – Antipatici?

    – Idioti. Fidati, imparo di più da sola…

    – Ne abbiamo già parlato tante volte, Amanda. Che ti piaccia o no…

    … è una mia responsabilità farti avere un’istruzione!, lo so, lo so… i nonni dovevano battezzarti Peter Parker, invece che Peter Klein… sempre con ‘sta storia Da un grande potere derivano grandi responsabilità e idiozie del genere! Per me hai letto tanti fumetti di supereroi che ti credi di esserlo!

    – Beh, invece di criticare prova ad assumerti anche tu un po’ di responsabilità, allora! – scattò Peter, voltandosi verso Amanda e poi tornando con gli occhi sulla strada.

    Calò un gelido silenzio per i minuti successivi, fin quando Peter si fermò davanti al liceo di Amanda. Un bellissimo parallelepipedo bianco dalla perfetta ed elegante ripetitività, con l’orologio al centro, costruito da un architetto giapponese che non aveva niente di meglio da fare che venire in America a costruire licei fatti tutti uguali.

    – Quando torni? – chiese Amanda affacciandosi al finestrino da fuori.

    – Se tutto va bene sarò a casa per cena.

    Amanda pensò che lei invece ci sarebbe stata per l’ora di ricreazione, mentre, dopo essere entrata a scuola ed evasa dall’uscita posteriore, strisciava fuori dal giardino attraverso un buco nella recinzione.

    4. PROMETHEUS

    Peter sporse il gomito dal finestrino, guidando con una sola mano e accogliendo con sollievo il soffio del vento in faccia.

    Era preoccupato. E aveva ottime ragioni per esserlo.

    Amanda era una ragazza in gamba, e si stava facendo una bella donna ogni giorno di più. Era il ritratto di sua madre: aveva la sua stessa curiosità, la sua stessa intelligenza, lo stesso carattere deciso (anche se mancava

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