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Hard Rock Emotions: Un viaggio attraverso la musica più elettrica degli ultimi cinquant’anni
Hard Rock Emotions: Un viaggio attraverso la musica più elettrica degli ultimi cinquant’anni
Hard Rock Emotions: Un viaggio attraverso la musica più elettrica degli ultimi cinquant’anni
E-book472 pagine7 ore

Hard Rock Emotions: Un viaggio attraverso la musica più elettrica degli ultimi cinquant’anni

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Un viaggio attraverso la musica più elettrica degli ultimi cinquant’anni. L’hard rock non è semplicemente un genere musicale, è un’emozione intensa, avvolgente, che se vi entra in circolo finisce col diventare la colonna sonora delle vostre azioni e dei vostri pensieri, e non potete più farne a meno. Per conoscerne la storia, per dare nomi e volti ai suoi protagonisti bisogna semplicemente amarla, sentirla scorrere prepotentemente dentro di noi. Se non provate istintivamente queste sensazioni è tutto inutile, andate a leggere altro. Hard Rock Emotions non è un’enciclopedia, preparatevi a scoprire qualcosa di eccitante, un romanzo elettrico che vi racconterà la storia del rock più duro, più emozionante, più autentico. A trent'anni dalla pubblicazione del suo "Hard Rock Story" (Gammalibri 1986) Silvio Ricci amplia e matura la sua visione della storia dell'hard rock dalle origini ai giorni nostri.
LinguaItaliano
Data di uscita26 feb 2018
ISBN9788826468761
Hard Rock Emotions: Un viaggio attraverso la musica più elettrica degli ultimi cinquant’anni

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    Anteprima del libro

    Hard Rock Emotions - Silvio Ricci

    Marcone

    Introduzione

    Introduzione

    Se avete cominciato a leggere queste pagine la musica forte, energica, elettrica vi piace, vi emoziona, vi regala sensazioni. L’hard rock non è semplicemente un genere musicale, è un’emozione intensa, avvolgente, che se vi entra in circolo finisce col diventare la colonna sonora delle vostre azioni e dei vostri pensieri, e non potrete più farne a meno. Per conoscerne la storia, per dare nomi e volti ai suoi protagonisti bisogna semplicemente amarla, sentirla scorrere prepotentemente dentro di noi. Se non si provano istintivamente queste sensazioni è tutto inutile, andate a leggervi altro, ci sono tante cose da leggere in giro.

    Questo libro è un atto d’amore. Io non sono un critico specializzato, un addetto ai lavori o altro, sono soltanto un grande appassionato di questa musica. Un appassionato non più ragazzo che ha dedicato molto del proprio tempo migliore ad ascoltare dischi, a girare l’Italia (ma non solo l’Italia) in lungo e in largo per assistere a tanti concerti e per cercare tanti dischi introvabili. Certo, oggi con la rete è diventato tutto molto più facile, è diventato semplice ascoltare la musica online e prendere immediata visione del concerto che c’è stato l’altra sera a migliaia di chilometri da casa nostra. Qualche decennio fa era tutta un’altra storia, credetemi. Bisognava andare a Londra a cercare i dischi che non pubblicavano in Italia, bisognava macinare chilometri per vivere l’irripetibile esperienza della musica dal vivo, musica che non sempre arrivava vicino a casa nostra. Tutto ciò era semplicemente fantastico, il valore emotivo di certe esperienze legate al sogno di inseguire, catturare e vivere la musica è difficilmente descrivibile a parole, è una condizione puramente emozionale.

    Ecco perché Hard Rock Emotions . Non è un’enciclopedia, ne sono già state scritte. Preparatevi a leggere una storia eccitante, un romanzo elettrico che vi racconterà la storia del rock più duro, più emozionante, più autentico. Non vogliamo elencare musicisti, dischi e correnti musicali, vogliamo condurvi verso l’estasi elettrica allo stato puro.

    E poi parliamoci chiaro, perché l’hard rock? Chi lo ama lo sa già, ma possiamo comunque dire che è musica che convoglia in modo irrefrenabile l’energia spesso positiva che scorre in ognuno di noi. Se è vero che alcune particolari forme di rock duro possono proporre una visione cupa e oscura del mondo, il genere nella sua più diffusa espressione è vitalità, sesso, amore, tenerezza, energia e tante altre emozioni fondamentalmente utili a vivere meglio la propria vita. Al di là delle critiche di chi questa musica l’ha sempre snobbata o ritenuta fonte di negatività, vorremmo affermare senza timore di smentita che chi suona o semplicemente ascolta rock duro è spesso romantico, ribelle dentro, non omologato alle regole, tenero e sensibile, e scusate se è poco. Buona lettura!

    Rock Emotions è anche un cloudcast sul web. Ascolta Silvio Ricci e la sua musica su Radio Eido Lab digitando:

    https://www.mixcloud.com/circoloeccentrico/playlists/rock-emotions-by-silvio-ricci/

    Shapes of things to come (i primi anni Sessanta)

    Shapes of things to come (i primi anni Sessanta)

    Tutto inizia negli anni Sessanta. Ad essere precisi bisogna partire dagli anni Cinquanta, dal primo rock’n’roll. Da quella musica nata negli Stati Uniti che, unendo le melodie bianche di matrice country con l’impeto ritmico della musica nera (blues, r’n’b), diede voce a una giovane generazione che in anni post-bellici cominciava a cercare faticosamente una propria dimensione, esprimendo istinto di ribellione, irrequietezza e pulsioni sessuali, che all’epoca si tendeva a non esprimere in modo esplicito. Il rock’n’roll cambiò per sempre le carte in tavola; musicisti come Elvis Presley, Chuck Berry, Little Richard e Jerry Lee Lewis sono da considerare dei veri pionieri, degli apripista. I loro brani Lucille , Little Queenie , Tutti Frutti e Johnny B. Goode , giusto per citare i più noti, hanno spesso fatto parte del repertorio live di tanti gruppi hard di prima generazione, formati da musicisti che si erano trovati da adolescenti a vivere l’esplosione del rock’n’roll. Non scordiamoci che le esperienze vissute nell’età adolescenziale spesso condizionano emotivamente per tutta la vita.

    Quindi il rock nasce in America, ma con gli anni Sessanta arriva la British invasion. Basterà citare Beatles e Rolling Stones per capire che il mondo della musica giovane sarebbe cambiato per sempre diventando forza aggregante, esercitando influenza e diventando veicolo primario di emozioni, rivendicazioni, contrapposizioni generazionali e tanto altro. Anche la moda cambiava rapidamente, ai ragazzi si allungavano i capelli mentre alle ragazze si accorciavano le gonne, si cominciava a delineare sempre più un cambiamento epocale che ha creato davvero nuove concezioni della vita che ci accompagnano fino ai nostri giorni. All’epoca Beatles e Rolling Stones venivano contrapposti gli uni agli altri, si diceva che i primi fossero bravi ragazzi e i secondi cattivi ragazzi ma in realtà nessuno di loro era tanto rassicurante e nessuno di loro era tanto pericoloso. La verità è che il rock, tutto il rock, e poi nello specifico l’hard rock, è stato sempre un po’ angelo e un po’ diavolo nello stesso tempo, un po’ heaven e un po’ hell, inferno e paradiso fusi insieme. Si voleva provocare con testi, suoni e atteggiamenti espliciti ma poi si riusciva a sciogliere il cuore con brani teneri e struggenti oltre ogni limite. I Beatles romantici di Yesterday, Michelle, Let It Be e Hey Jude erano gli stessi inquietanti e allucinati di A Day in the Life, Lucy in the Sky with Diamonds e I’m the Walrus, così come gli Stones oltraggiosi e provocatori di Satisfaction, Brown Sugar e Jumpin’ Jack Flash erano gli stessi languidi interpreti di Ruby Tuesday, Angie e Lady Jane. Si è spesso detto che l’influenza degli Stones sul rock duro è stata maggiore di quella dei Beatles, proprio grazie ai brani che abbiamo citato; ma è anche vero che le Pietre Rotolanti non hanno mai suonato così hard come i Beatles di Helter Skelter. Quindi entrambe le band hanno avuto un’enorme influenza su qualunque gruppo e corrente rock successivi, e molti loro brani sono stati coverizzati da gruppi hard rock. Basta citare Paint It Black dei Deep Purple, Eleanor Rigby dei Vanilla Fudge, Gimme Shelter dei Grand Funk Railroad oppure Taxman dei Black Oak Arkansas, I’m the Walrus degli Spooky Tooth o la già citata Helter Skelter di Ian Gillan e dei Motley Crue. Non dimentichiamo poi la personale amicizia che ha legato George Harrison con i membri dei Deep Purple (con i quali ha suonato in un concerto del 1984) e dei Led Zeppelin, che ha visitato dietro le quinte del tour 1973, come a suggellare una continuità generazionale nella storia del rock.

    Ma la B ritish invasion non è stata solo Beatles e Rolling Stones. Insieme a loro vennero fuori molti altri gruppi, molti dei quali particolarmente interessanti nel determinare la nascita dei primi esempi definibili, con il senno di poi, di hard rock seminale. Diciamo allora dei Kinks di Ray Davies, i quali nel 1964 pubblicano due singoli (si chiamavano 45 giri, all’epoca) davvero indicativi e riff-oriented, All Day and All of the Night e soprattutto You Really Got Me. Quest’ultimo pezzo fu realizzato, guarda caso, con l’ausilio di due musicisti all’epoca semplici turnisti di studio, ma che in seguito avrebbero fatto parte dei due gruppi più importanti di tutta la nostra storia: il chitarrista Jimmy Page (Led Zeppelin) e il tastierista Jon Lord (Deep Purple). Vanno anche ricordati gli Animals di Eric Burdon, che non solo hanno lasciato brani – come We Gotta Get Out of This Place – coverizzati in seguito da gruppi come Grand Funk e Blue Oyster Cult, ma che grazie al bassista Chas Chandler hanno contribuito alla scoperta e al lancio del talento assoluto di Jimi Hendrix, come vedremo. Sono degni di menzione i Troggs, il cui brano Wild Thing con il suo riff basico sarebbe diventato il punto di partenza dello stesso Hendrix in vena di spaccare tutto alla fine dei concerti.

    Ma è con gli Yardbirds che entriamo nel vivo della nostra storia. Nelle loro fila si sono alternati alcuni dei maggiori chitarristi della storia del rock, tutti determinanti nella nascita dello stile musicale e delle sonorità poi definite hard rock: parliamo di Eric Clapton, Jeff Beck e Jimmy Page. Nei primi Yardbirds, con Eric Clapton, gli spunti hard rock erano ancora timidi. Jeff Beck subentra a Clapton nel 1965 e da subito il suono Yardbirds si fa più acido, psichedelico e distorto. Brani come Mr. You’re a Better Man Than I, Shapes of Things, Heart Full of Soul e album come Having a Rave Up e Roger the Engineer introdussero nel rock dimensioni nuove, con la chitarra di Beck intrisa di feedback e di distorsione che ancora non si erano sentiti in giro, tanto da influenzare persino Jimi Hendrix. Nel 1966 subentra Jimmy Page, inizialmente come bassista, poi come sostituto di Beck in caso di temporanee assenze. Una breve parentesi a due chitarre produsse un interessante singolo, Happening Ten Years Time Ago/Psycho Daisies, intriso di chitarrismo avventurosamente elettrico. Nel 1967 Jeff Beck lascia gli Yardbirds nelle mani di Jimmy Page, il quale – dopo l’album Little Games, contenente l’assolo di White Summer – trasformerà la band prima in New Yardbirds e poi, con nuovi musicisti, in Led Zeppelin. Da ascoltare il disco Live Yardbirds Featuring Jimmy Page, dove il chitarrista comincia a volare idealmente sul dirigibile zeppeliniano con un’embrionale Dazed and Confused, con l’archetto di violino sulla chitarra elettrica già in buona evidenza.

    Un altro gruppo particolare degli anni Sessanta furono gli Small Faces di Steve Marriott (di lì a poco leader degli Humble Pie, un gruppo di cui ci occuperemo diffusamente) e Kenny Jones, che in seguito sostituirà Keith Moon negli Who.

    Gli Who appunto, un gruppo fondamentale per la nostra storia del rock duro. Formatisi nel 1964, erano Roger Daltrey alla voce, Pete Townshend alla chitarra, John Entwistle al basso e Keith Moon alla batteria. Possiamo dire che gli Who hanno indurito le sonorità del rock più di qualunque altro gruppo dell’epoca. Hanno introdotto un certo senso di pericolosità, imprevedibilità e tensione emotiva che avrebbe cambiato per sempre l’approccio al rock da parte di tantissimi artisti successivi. I loro brani in studio hanno certamente influenzato la nascita dell’hard rock, ma è l’impatto live di questa band che ha creato il mito del rock come forza realmente pericolosa, ribelle, anarchica e iconoclasta. Una forza davvero capace di scuotere i benpensanti e minare le certezze rassicuranti che reggevano il sentire comune. Gli Who in concerto spaccavano letteralmente tutto già dal 1964/65, e possiamo solo figurarci lo sbigottimento di un pubblico che non poteva ancora immaginare un approccio scenico così estremo, violento e brutale. Pete Townshend non era un chitarrista ipertecnico come solista, ma come ritmico macinava riff assassini, roteando il braccio a mulinello producendo strani suoni con il feedback, spaccando la chitarra alla fine dei concerti come supremo gesto di rabbia, di ribellione, di impeto iconoclasta. La mancanza di tecnica raffinata del chitarrista veniva compensata dall’incredibile lavoro di contrappunto melodico del bassista John Entwistle, un lavoro massiccio e deflagrante che fondendosi con i suoni emessi da Townshend creava un muro di suono difficilmente eguagliabile. La voce di Roger Daltrey esprimeva rabbia allo stato puro, ribellione naif e disarmante per spontanea intensità, per poi sorprendere con momenti di struggente disperazione. E infine, last but not least, la tempesta ritmica del batterista Keith Moon, senza dubbio una figura folle e anarchica, un iperattivo che nel suonare la batteria aveva trovato il modo ideale per veicolare la propria irrefrenabile esuberanza. Keith Moon forse non ha mai eseguito un vero e proprio assolo di batteria, ma nessun altro drummer ha mai suonato come lui. Viveva come un personale tour de force ogni passaggio di ogni brano, le sue rullate furibonde si ascoltavano in ogni momento dei concerti, davvero non riusciva a tenere semplicemente il tempo. Non è stato il batterista tecnicamente più bravo della storia del rock – forse Ginger Baker, John Bonham, Ian Paice, Carl Palmer e Carmine Appice sono stati migliori di lui – ma nessuno è stato più feroce, più folle, più imprevedibile e più pericoloso dietro le pelli. Sì, pericoloso, in senso letterale, perché lui alla fine dei concerti talvolta prendeva a calci il suo drumkit e qualche volta lo faceva addirittura esplodere con la dinamite, mentre Pete Townshend, come abbiamo già detto, schiantava la sua chitarra sugli amplificatori e infine sul palco… Il primo album, My Generation del 1965, contiene il brano omonimo, che era registrato con un livello di distorsione talmente inusuale per quei tempi da indurre i discografici americani a ritenere di aver ricevuto dall’Inghilterra una copia difettata del nastro... Nel 1966 arriva il secondo album, A Quick One; la title-track, un brano diviso in diverse sezioni musicali che raccontano una stessa storia, è il primo esempio di mini opera rock. In quel periodo uscivano album come Sergeant Pepper dei Beatles, Aftermath degli Stones ma anche Highway 61 del cantautore americano Bob Dylan, che erano destinati a riscrivere il concetto stesso di canzone rock in termini di durata, contenuti e suono, e in questo senso gli Who andarono oltre. Nel 1967 fanno uscire The Who Sell Out, un album un po’ stravagante che utilizzava con ironia un bizzarro collage di spezzoni pubblicitari.

    Nel 1969 esce Tommy, album capolavoro, la prima rock opera di sempre. È la storia di un ragazzo muto, sordo e cieco in conseguenza di un trauma infantile, che diventa un fenomeno del flipper; una storia che riusciva a convogliare tutto l’immaginario esistenziale e psichedelico di fine anni Sessanta. La musica si snoda potente, struggente, con il rock che trova inedite suggestioni orchestrali creando un nuovo archetipo musicale, l’opera rock appunto. Un genere che negli anni seguenti avrebbe conosciuto momenti di fulgore grazie soprattutto ai compositori Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, autori di musical entrati nell’immaginario della cultura pop come Jesus Christ Superstar, Phantom of the Opera o Evita; ma sono da ricordare anche altre importanti opere come The Rocky Horror Picture Show di Richard O’Brien o Hair di Galt Mc Dermot. Molti brani di Tommy, come Pinball Wizard, See Me Feel Me o Amazing Journey , sono rimasti nella scaletta dei concerti per sempre, ma negli anni 1969-70 l’opera veniva eseguita integralmente in ogni esibizione dal vivo della band. Gli Who hanno suonato in quei famosi festival musicali di fine anni Sessanta passati alla storia come momenti assoluti di aggregazione giovanile all’insegna della nuova musica rock, ormai diventata simbolo della nuova cultura libertaria e antagonista rispetto all’establishment. Parliamo di Monterey (1967), Woodstock (1969) e dell’Isola di Wight (1970), che sono stati registrati, filmati e pubblicati. Il modo migliore per comprendere l’impatto live della musica degli Who resta comunque l’album Who Live at Leeds del 1970, di recente integrato con Live at Hull, contenente un concerto registrato esattamente il giorno dopo (gli Who suonarono il 14 febbraio a Leeds e il 15 a Hull). Nel 1971 arriva Who’s Next, forse il migliore album in studio, con brani incredibili come Baba O’Riley e Won’t Get Fooled Again (di recente utilizzati come sigle delle serie televisive C.S.I.), che mostrano un avventuroso utilizzo dei sintetizzatori in un contesto hard rock. Gli Who sono uno dei gruppi più acclamati della scena rock, i loro dischi vendono milioni di copie e i loro concerti riempiono stadi e arene. Nel 1973 il doppio Quadrophenia – un altro capolavoro – è una nuova rock opera incentrata sulla vita di un ragazzo nella Londra delle bande giovanili di Mods e Rockers (ambiente da cui gli stessi Who provenivano), con punte massime in The Real Me e e In Love Reign O’er Me. The Who by Numbers è un buon lavoro e ancora meglio è Who Are You del 1978. In quello stesso anno Keith Moon muore, stroncato dai suoi eccessi, e viene sostituito da Kenny Jones degli Small Faces. La band continua dignitosamente, escono album discreti in studio ( Face Dances del 1981 e It’s Hard del 1982) e i concerti dal vivo sono ancora bellissimi, ma la follia incontrollabile che c’era con Keith Moon dietro le pelli scompare per sempre. C’è un lunghissimo tour d’addio celebrato dal doppio Who’s Last, poi la band si scioglie, anche se in seguito ci sono state diverse reunion. Nel 2002 anche John Entwistle viene a mancare; l’eccellente doppio album dal vivo Live at Royal Albert Hall, uscito nel 2003, testimonia le sue ultime apparizioni live. Daltrey e Townshend hanno continuato a fare musica come Who. Gli ultimi dischi rilasciati sono stati Endless Wire del 2006 e TBA del 2015; gli spettacoli dal vivo sono teneri e dignitosi, specie se si ricorda che il brano My Generation conteneva i versi " spero di morire prima di diventare vecchio…".

    Prima di continuare il nostro racconto è doveroso menzionare due musicisti inglesi che, in questi anni cruciali in cui la forma delle cose che verranno inizia a delinearsi, hanno suonato e sperimentato con formazioni non molto famose. Parliamo del chitarrista Ritchie Blackmore e del tastierista Jon Lord. Questi due incredibili talenti, destinati a unire le forze, si sono forgiati nello studio classico dei rispettivi strumenti in un periodo in cui la maggioranza dei musicisti iniziava da autodidatta; all’interno di formazioni come Artwoods, Outlaws e Savages hanno maturato tantissima esperienza, dilatando le proprie parti solistiche in direzione di sonorità sempre più taglienti che però introducevano elementi e stilemi derivati dalla musica classica. Ne parleremo meglio più in là nella nostra storia. Profondamente (deeply…).

    Born to be wild (gli anni Sessanta)

    Born to be wild (gli anni Sessanta)

    Possiamo dire che con la seconda metà degli anni Sessanta il rock compie passi da gigante nella sua rapida evoluzione musicale e contenutistica. Ormai esiste una vera e propria cultura giovanile, una controcultura si diceva, e il rock ne diventa la colonna sonora. Le tensioni sociali e politiche del periodo – guerra fredda, movimenti studenteschi, istanze femministe, diffusione delle droghe come (presunto) veicolo per ampliare le coscienze – fanno sì che il rock prenda forme nuove, sorprendenti, trasgressive e provocatorie. Nessuna band di quel periodo programmava di creare il genere hard rock, ma da infinite parti si generavano i semi di quello che solo dopo sarebbe stato definito come genere . La musica rock è ormai un fiume in piena, carico di emozioni fisiche, mentali ed esplicitamente sessuali, dal momento che la cultura giovanile sosteneva anche la più assoluta libertà di costumi, in un’epoca in cui il fantasma dell’AIDS non era ancora comparso all’orizzonte. In America nascevano dal nulla band incredibili come Doors e Velvet Underground, che cantavano la trasgressione estrema e il delirio allucinogeno, dilatando e manipolando liberamente l’idea di canzone. Dall’Inghilterra arrivavano esperienze come Pink Floyd e Traffic, che in altre direzioni allargavano i confini del rock e dei suoi stilemi. In California, e in particolare a San Francisco, nacque tutta una scena musicale legata alla cultura hippy; gruppi come Grateful Dead, Jefferson Airplane, Quicksilver, Spirit e Big Brother and the Holding Company (Janis Joplin) sulla scia del delirio visionario e drogato dilatavano la materia sonora liberamente, con la chitarra elettrica strumento leader. C’era poi il blues, che pur essendo nato in America come patrimonio della musica nera conosceva in Inghilterra un’ondata di interesse molto forte, al punto che si parlava di B ritish blues ; ed ecco i vari John Mayall, Graham Bond, Alexis Korner e naturalmente Eric Clapton. Esisteva anche un rock psichedelico con le tastiere in grande evidenza (a dispetto dello strapotere della chitarra) che traeva spunto dalle suggestioni dei Doors, dei primi Pink Floyd e dei Nice di Keith Emerson, e che avrebbe dato luogo a incredibili sviluppi nell’immediato futuro.

    Nel 1966 arrivano due formazioni, i Cream dall’Inghilterra e la Jimi Hendrix Experience dall’America, che creano un nuovo approccio musicale rispetto al concetto di canzone, di rock, di approccio sonoro, di solismo. Sono loro che cominciano a far parlare di hard rock, sempre loro cambiano per sempre la scena musicale. Sia i Cream che la Jimi Hendrix Experience sono formazioni triangolari formate da chitarra, basso e batteria. Partono dalla rilettura del blues in chiave elettrica, dalla quale nasce così spontaneamente l’hard rock che, ricordiamolo, in questa fase embrionale è più un’attitudine che un genere. Entrambe le formazioni, per la prima volta in modo così esplicito nel rock, pongono l’accento sul solismo elettrico, sull’improvvisazione mutuata dal jazz; in questo modo i brani musicali potevano risultare stravolti nella durata e nell’intensità di esecuzione. Le potenzialità della chitarra elettrica vengono esplorate in ogni direzione e nascono così sonorità sature, distorte, straripanti e completamente nuove, davvero innovative per le orecchie di quegli anni. Nulla sarebbe più stato come prima, era nata una nuova era musicale.

    I Cream erano Eric Clapton alla chitarra, Jack Bruce alla voce e al basso e Ginger Baker alla batteria. Erano considerati i numeri uno dei rispettivi strumenti e provenivano dai più importanti gruppi legati al blues britannico, come i Blues Breakers di John Mayall e la Graham Bond Organization. La scelta del nome Cream non è casuale, si ritenevano appunto la crema della scena musicale, un supergruppo consapevole di esserlo. L’esordio discografico, Fresh Cream del 1966, è un ottimo album che presenta un solido rock blues già orientato verso un approccio hard, ma il suono della chitarra era ancora pulito, non abbastanza sporco e aggressivo. Ben diverso il suono del secondo, Disraeli Gears del 1967, con il riff seminale di Sunshine of Your Love, uno dei riff più importanti del rock e uno dei primi brani hard di senso compiuto. Pare che Eric Clapton fosse stato impressionato dall’esordio discografico di Jimi Hendrix, comprendendo che una Fender Stratocaster aveva potenzialità sonore ed espressive immense. Wheels of Fire, del 1968, è un disco doppio, metà in studio e metà dal vivo. Se la parte in studio prosegue il discorso hard/blues/psichedelico degli album precedenti, con l’epica White Room in evidenza, nel disco dal vivo si comprende davvero come i Cream abbiano innovato il linguaggio del rock blues. Si ascolti la versione di Spoonful dal primo album e la si ascolti poi nella versione di Wheels of Fire. Dura tre volte di più, e i musicisti improvvisano a incastro: chitarra, basso e batteria improvvisano contemporaneamente tre trame soliste indipendenti, in un gioco folle di rimandi e di scontri. In pratica, la sezione ritmica non è più al servizio dello strumento guida (la chitarra) e l’idea di musica che ne scaturisce è di estrema anarchia creativa. Forse nessun’altra formazione rock ha mai avuto un tale approccio, più jazzistico in realtà, e forse anche per questo l’ego dei singoli membri si è manifestato in modo eccessivo, favorendo il precoce scioglimento dell’esperienza. Dopo un ultimo concerto alla Royal Albert Hall di Londra il 26 novembre 1968 (parzialmente documentato dall’album Goodbye) i Cream si sciolgono. Conviene ascoltarsi i due album Live Cream Volume I e Volume II per valutare in pieno il valore della loro musica dal vivo. Eric Clapton, colpito dalle sonorità del gruppo The Band, orienta la sua gloriosa carriera solista verso un approccio più rilassato al blues. Ginger Baker spazia fra jazz, musica etnica e momentanei ritorni al rock. È Jack Bruce, scomparso nel 2014, a suonare più spesso la musica hard blues inventata dai Cream, attraverso validissime esperienze con grandi chitarristi come Leslie West, Robin Trower e Uli Jon Roth, che avremo modo di approfondire più in là nel nostro racconto. Da segnalare la nostalgica reunion dei Cream del 2005, che ha generato l’ottimo album Royal Albert Hall.

    Jimi Hendrix, questo ragazzo nero con sangue pellerossa – che credeva nella pace ma che si arruolò nei paracadutisti perché amava la sensazione di lanciarsi nel vuoto, e a cui il rombo degli aerei aveva ispirato sonorità assordanti – potrebbe essere da solo un’icona della controcultura di quel periodo. È stato un geniale e rivoluzionario talento che ha letteralmente creato il nuovo universo sonoro della sei corde elettrica, conducendo il rock nel paradiso delle emozioni più assolute. La sua musica esprime sensualità pura, Jimi faceva letteralmente l’amore con la sua chitarra che fra le sue mani gemeva, sussurrava, soffriva, urlava, piangeva, rideva, godeva e si immolava in un gesto supremo di passione. Una chitarra elettrica maneggiata da un artista fantasioso emette suoni inediti se viene strattonata, se viene fatta strisciare sul muro di amplificatori in un gioco di feedback estremo. L’apoteosi scenica della distruzione è l’inevitabile atto finale di un approccio estremistico alla musica. È indubbio che un tale impeto iconoclasta fosse anche un gesto teatrale, ma esprimeva anche una forma di sublimazione dell’energia straripante che scaturiva dallo spremere uno strumento come la chitarra elettrica oltre ogni limite immaginabile. Fu Chas Chandler, già bassista degli Animals, a scoprire il talento di Jimi Hendrix in America e a portarlo in Inghilterra dove fu assemblata la Jimi Hendrix Experience. Il bassista Noel Redding e il batterista Mitch Mitchell sono qualcosa più che semplici comprimari, sono due splendidi musicisti in grado di fondersi con le più ardite improvvisazioni dell’indiscusso leader. Il primo album, Are You Experienced?, esce nel 1967 ed è travolgente, dirompente, nuovo, diverso da qualunque cosa uscita fino ad allora. Tutto l’universo di Jimi viene espresso in pieno, c’è il blues ( Red House), c’è la psichedelia estrema, visionaria e spaziale ( 3rd Stone From the Sun), la pausa melodica di The Wind Cries Mary e i riff granitici di Purple Haze e Foxy Lady, veri e propri brani di rock duro. La ballata blues psichedelica di Hey Joe diventa il 45 giri che fa da propulsore all’album. Ben presto tutto il mondo si accorge di Jimi Hendrix, il suo modo di suonare influenza tutti i chitarristi rock contemporanei e successivi, e continua ad esercitare influenza anche ai giorni nostri. Le esibizioni live sono trascinanti, il suono era di una violenza e di una distorsione neanche pensabili all’epoca. Hendrix suonava la chitarra dietro la nuca, con i denti, e alla fine spaccava tutto, realmente. Si guardi la sua esecuzione di Wild Thing dal festival di Monterey (1967) e si noti lo sguardo sbigottito del pubblico che mai si sarebbe aspettato una tale furia distruttiva in un concerto. Nel 1968 l’Experience rilascia altri due album, Axis: Bold as Love e Electric Ladyland. Axis era un po’ meno travolgente dell’esordio ma conteneva brani bellissimi come Spanish Castle Magic e perle melodiche come Little Wing e Castle Made of Sand, mentre Electric Ladyland è un album grandioso, al cui interno si può ascoltare un Hendrix estremamente creativo e ispirato. Basterebbero le due Voodoo Chile, una – la più famosa – che costituisce un magistrale esempio compiuto di rock duro senza compromessi e l’altra, più blues e registrata dal vivo, che grazie all’organo di Steve Winwood dei Traffic lascia capire come sarebbe stato sentire la chitarra di Jimi dialogare con delle tastiere, o ancora la psichedelia rarefatta di 1983 A Merman I Should Turn to Be, gli accordi drammatici di Burning of the Midnight Lamp o la ritmica scoppiettante di Crosstown Traffic, per capire che un disco così, uscito doppio in vinile, conteneva una sorta di summa della poliedricità hendrixiana. Non dimentichiamo le atmosfere jazzate di brani come Rainy Day, Dream Away, che fanno capire perché un jazzista innovatore di quel periodo come Miles Davies fosse interessato a suonare con Hendrix, cosa che purtroppo non è mai avvenuta. L’Experience pubblica tre dischi, di cui uno doppio, in tre anni e gira il mondo tenendo concerti ovunque. Ricordiamo il 25 maggio 1968 al teatro Brancaccio di Roma (pare sia stato un concerto memorabile), o ancora i concerti di Stoccolma, che sono stati registrati, o la serie di concerti al Winterland di San Francisco, mitico locale gestito da Bill Graham, famoso promoter ed eminenza grigia del rock dal vivo in America in quel periodo. I concerti del Winterland – dove tra il 10 e il 12 ottobre 1968 l’Experience tenne due concerti al giorno, uno il pomeriggio e l’altro la sera – sono stati registrati e pubblicati in varie forme, e costituiscono forse il documento ufficiale più completo, dal punto di vista del suono e della performance, per comprendere e apprezzare pienamente la portata di Hendrix in sede live. Dopo altri memorabili concerti, fortunatamente registrati e pubblicati, come quello alla Royal Albert Hall di Londra (24 febbraio ’69) e alla San Diego Sports Arena (24 maggio ’69), l’Experience si scioglie. Jimi Hendrix continua a suonare sia in studio che dal vivo durante l’anno di vita che gli resta da vivere, e registra chilometri di nastro di prove, improvvisazioni e versioni alternative di brani, da cui sono stati ricavati numerosi album postumi non sempre all’altezza delle aspettative. Nel 1971 vede la luce l’album in studio Cry of Love, l’ultimo disco concepito da Hendrix, ma uscito già postumo. Da ricordare l’esperienza della Band of Gypsies con Buddy Miles alla batteria e Billy Cox al basso, che generò un album dal vivo, così come le memorabili esibizioni di Hendrix a Woodstock e all’isola di Wight. Nell’ultimo periodo era inquieto, voleva certamente esplorare nuovi territori musicali, sicuramente andava in direzione del jazz, del funky, sempre attraverso la sua inimitabile sensibilità elettrica. Se nessuno è mai riuscito a strumentalizzare politicamente la musica di Jimi Hendrix, è indubbio che nessuno è mai più riuscito a descrivere in musica l’orrore di ogni guerra attraverso il delirio distorto di una chitarra, come è riuscito a fare lui nel brano Machine Gun (da Band of Gypsyes) e nell’esecuzione pazzesca dell’inno nazionale americano al festival di Woodstock. Quei suoni disperati, lancinanti resteranno sempre a dimostrare come il rock, a certi livelli, sia molto più efficace di tanti discorsi e di tanti manifesti e dibattiti. A Londra, il 18 settembre 1970, Jimi Hendrix muore dopo aver ingerito una dose eccessiva di barbiturici. La sua morte precede di poco quella di altre due figure iconiche della storia del rock, Janis Joplin e Jim Morrison, alimentando la leggenda degli artisti creativi e genialoidi che dopo aver bruciato la loro breve vita tra eccessi legati a sesso, droga e creatività finiscono con il morire giovani, entrando così direttamente nell’immaginario di tutte le generazioni successive come fonte inesauribile di ispirazione e di venerazione.

    Dicevamo di Jim Morrison e Janis Joplin. Nessuno di loro ha eseguito esattamente rock duro, ma è indubbio che il suono psichedelico, a tratti spigoloso dei Doors, con le tastiere di Ray Manzarek e la chitarra di Robby Krieger che si intrecciavano alla pastosa e sensuale voce di Morrison, abbia esercitato un’influenza più o meno diretta su una certa scena musicale dell’epoca, da cui sono venuti fuori gruppi come Iron Butterfly e Vanilla Fudge. Di suo, la voce graffiante, sofferta ed estremamente espressiva di Janis Joplin ha esercitato un’influenza diretta su un modo di interpretare il blues elettrico che gruppi come i Led Zeppelin avrebbero portato avanti.

    Allo stesso periodo risalgono le sperimentazioni sonore di Jeff Beck, magico chitarrista che aveva per primo iniziato a suonare la chitarra in modo nuovo e particolare con gli Yardbirds, influenzando lo stesso Hendrix. Il primo Jeff Beck Group si forma nel 1967 e comprende il cantante Rod Stewart, con cui Beck crea l’archetipo dell’antagonismo voce-chitarra che di lì a poco, con Zeppelin e Purple, avrebbe trovato la sua espressione definitiva. Il primo album, Truth, è un vero gioiellino. La nuova versione di Shapes of Things è un esempio magistrale di come la materia sonora fosse, per certi musicisti, in continua evoluzione. Questo album e il successivo Beck-Ola del 1969 costituiscono un tassello importante nell’evoluzione del nascente hard-rock di derivazione blues, anche se nei lavori successivi – Rough and Ready (1971) e Jeff Beck Group (1972) – Jeff Beck si sarebbe spostato su sonorità più morbide. Nel 1973 viene formato il super trio Beck/Bogert/Appice, con la sezione ritmica dei Vanilla Fudge che ritornava su sonorità più hard, anche se in modo meno avventuroso. Questa formazione realizza un album in studio ( B.B.A.) e un doppio dal vivo ( B.B.A. Live), lavori di buon livello ma non all’altezza delle aspettative create da un tale connubio di talenti. Dal 1975, Jeff Beck continua una carriera all’insegna della fusion e di momentanei ritorni al rock, restando un punto di riferimento specialmente per chi suona la chitarra. Va detto, Jeff Beck è un pioniere assoluto a livello di suoni e di spunti innovativi, ma non ha mai avuto la continuità e la capacità compositiva necessarie a mantenere una carriera di eccellenza in ambito rock.

    Abbiamo visto come il nascente hard rock fosse essenzialmente di matrice blues. Esisteva però una già citata via più psichedelica, più tastieristica, più classicheggiante che andava in parallelo. Se nell’hard di matrice blues è evidente la linea che partendo da Cream, Jimi Hendrix e Jeff Beck arriva idealmente ai Led Zeppelin come soluzione naturale, non faremo fatica a individuare un’altra via parallela che – parzialmente influenzata da esperienze tipo Doors e Pink Floyd – parte da Vanilla Fudge, Iron Butterfly, Nice e Crazy World of Arthur Brown per trovare nei Deep Purple la sua completa estrinsecazione. È opinione diffusa che l’individuazione di categorie diverse all’interno del rock duro parta solo dagli anni ’80, ma fin dal suo nascere questo genere – che non nasce come genere ma come attitudine – presentava al suo interno sfaccettature e stili alquanto diversi tra loro, cui però non venivano dati nomi o etichette specifiche. E allora vediamo un po’ cosa facevano queste band, che al suono tagliente delle chitarre affiancavano la sonorità corposa e sempre più distorta di uno strumento come l’organo Hammond.

    Un grande gruppo sono stati i Vanilla Fudge, formatisi a New York nel 1967 con i già citati Tim Bogert al basso e Carmine Appice alla batteria, che costituivano una delle migliori sezioni ritmiche dell’intera storia del rock. A loro si affiancavano il chitarrista Vince Martell e il tastierista Mark Stein. La musica del primo album, che portava il nome della band, era appunto un rock hard-psichedelico-progressivo, che creava nuove dimensioni con chitarra e organo su un piano paritario. Le loro personalissime versioni di brani di diversa estrazione come Eleanor Rigby dei Beatles (che suscitò l’entusiasmo di George Harrison) o You Keep Me Hangin’On delle Supremes fecero breccia nella scena musicale. Dopo lo sperimentale e pretenzioso album The Beat Goes On, la band realizza con gli album Reinassance (1968) e Near the Beginning (1969) un esempio magistrale di come un certo tipo di suono potesse svilupparsi, aprendo nuove magiche strade. Brani come The Sky Cried, Some Velvet Morning o la lunga sequenza solistica di Break Song sono dei capolavori assoluti, da ascoltare per comprendere quanto articolata potesse essere una certa proposta musicale. Ai Vanilla Fudge hanno fatto da spalla sia i Led Zeppelin sia i Deep Purple all’inizio delle loro carriere, e pare che Carmine Appice abbia suggerito a John Bonham e a Ian Paice alcuni particolari trucchi batteristici. Dopo l’album Rock’n Roll (1970) i Vanilla Fudge si sciolgono, ma il tandem ritmico Bogert e Appice continua dando vita prima ai Cactus e poi al già citato trio Beck/Bogert/Appice. I Cactus hanno suonato un rock molto più grezzo rispetto ai Vanilla Fudge e hanno realizzato album di buon livello come Cactus (1970), One Way or Another e Restrictions (entrambi del 1971) e ‘Ot ‘n Sweaty del 1972. Negli anni ci sono state svariate reunion dei Vanilla Fudge e dei Cactus, ma l’apporto alla storia della nostra musica va ricercato senza dubbio negli anni d’oro.

    Altrettanto si può dire dei californiani Iron Butterfly di Doug Ingle, cantante-tastierista dotato di un particolarissimo timbro vocale e di un approccio all’organo che risentiva della musica sacra. Il primo album, Heavy, già nel titolo suggeriva l’idea di proporre un suono massiccio, pesante, ma il nome della band – farfalla di ferro – conteneva l’idea di pesantezza e leggerezza insieme. Lo strumentale Iron Butterfly Theme era esemplificativo in tal senso, essendo al tempo stesso devastante e lisergico. Ancora meglio si dimostra il secondo album In a Gadda-da-Vida, con il brano omonimo che con i suoi diciassette minuti infrange le barriere temporali che all’epoca si concepivano per i brani in studio (dal vivo, ci si abbandonava più liberamente all’estro del momento). I suoni dell’organo di Ingle si fondono con gli squarci psichedelici del chitarrista Erik Brann, mentre il batterista Ron Bushy esegue un bell’assolo ricco di elementi etnico-tribali. L’album Ball del 1969 si attesta su livelli altrettanto buoni (da ricordare la drammatica e solenne In the Times of Our Lives), ma qualche cambiamento di formazione porta a lievi modifiche nel sound, evidenti nel successivo Metamorphosis (1970). A quel punto la band si scioglie, per riprendere a volare (trattandosi di una farfalla) nel 1975 con una formazione molto rimaneggiata. Vengono realizzati due lavori discreti, ma inferiori alla produzione storica: Scorching Beauty e Sun and Steel. Da allora si sono avute svariate reunion e la band ha continuato a suonare dal vivo, un po’ defilata rispetto alla scena musicale, fino alla morte del bassista Lee Doorman, nel 2012. Si è spesso detto che la fama di questa band è legata unicamente al brano In a Gadda-da-Vida, che indubbiamente è stato il loro più grande successo (si è anche ascoltata in un episodio dei Simpson, ad esempio), ma bisognerebbe senza dubbio rivalutarne l’intera produzione.

    E passiamo a raccontare dei Nice di Keith Emerson, un grande delle tastiere. Musicista di formazione classica, univa alla voglia di fondere rock e atmosfere da musica sinfonica un innato senso della performance, oltre alla capacità di improvvisare e di estrapolare sonorità inaudite dal proprio strumento. Emerson è un po’ il Jimi Hendrix dell’organo Hammond, perché dal vivo suonava lo strumento in posizioni improbabili, rovesciandolo, addirittura accoltellandolo tra i tasti per ottenere sonorità prolungate e lancinanti. Dopo un primo album del 1967 ( Thoughts of Emerlist Davjack, che contiene la cavalcata elettrica di Rondò) il quartetto dei Nice si riduce a trio, con le tastiere come unico strumento solista. Con il secondo album, Ars Longa Vita Brevis del 1968, Emerson si serve di un’intera orchestra (una strada parallela a quella di Jon Lord, di cui presto ci occuperemo) per riarrangiare i concerti brandemburghesi di Bach; il rifacimento in chiave elettrica di America di Leonard Bernstein è un brano dirompente, che prosegue sulla strada del già citato Rondò. Dopo altri ottimi lavori come The Nice (parzialmente dal vivo), Five Bridges del 1969 (un lavoro composto da Emerson per orchestra e gruppo rock) ed Elegy (1970), i Nice si sciolgono. Keith Emerson fonda il super trio Emerson Lake and Palmer con Greg Lake dei King Crimson e Carl Palmer, già con Arthur Brown e Atomic Rooster. La musica di Emerson non è mai stata hard rock in senso stretto, anche se il suo approccio estremo e viscerale ha senza dubbio prodotto sonorità molto interessanti nella nostra storia. La storia di gruppi come gli Emerson Lake and Palmer, insieme a quella di King Crimson, Yes, Genesis, Van der Graaf Generator e Jethro Tull è stata definita progressive rock, un genere che ha allargato ulteriormente i confini della musica rock. Spaziando fra tradizione classica, folk e tanti altri generi, questo rock è da considerarsi cugino dell’hard rock, poiché spesso le proposte dei gruppi progressive sono state cariche di sonorità forti e trascinanti, con le chitarre elettriche lanciate in assoli vertiginosi. Per capirlo, è più che mai consigliabile l’ascolto di lavori come Nursery Crime dei Genesis, Fragile degli Yes, In the Court of the Crimson King dei King Crimson, Aqualung dei Jethro Tull, Aerosol Grey Machine dei Van der Graaf Generator e naturalmente del primo album degli Emerson Lake and Palmer.

    Abbiamo accennato al Crazy World of Arthur Brown, una formazione molto originale che proponeva un sound spigoloso, avventuroso ed energico dominato dalla voce acuta e versatile dello stesso Brown e dalle tastiere straripanti di Vincent Crane, un altro grande dell’Hammond. L’album omonimo del 1968 è un disco che propone un embrionale hard psichedelico molto tastieristico, che ha certamente avuto molto impatto sulla scena di quel periodo. Oltre che per la musica trascinante, il brano Fire esercitava anche un fascino sinistro per via delle parole « I’m the god of hell fire, and I bring you… fire!» che certamente hanno colpito molto la fantasia dei successivi appassionati di hard e di heavy rock. Di questa formazione ha fatto parte il batterista Carl Palmer, che poi ha seguito Vincent Crane negli Atomic Rooster.

    Dicevamo di una scena californiana molto ricca nella seconda metà degli anni Sessanta, su cui vale la pena soffermarsi un po’. Dicevamo di gruppi come i Jefferson Airplane, che proponevano un rock molto impetuoso, con l’ottima voce di Grace Slick – una delle più grandi voci femminili del rock insieme

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