Sex Pistols: Dio salvi la regina (e il punk rock)
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Anteprima del libro
Sex Pistols - Antonio Bacciocchi
antonio Bacciocchi
SEX PISTOLS
Dio salvi la Regina (e il punk rock)
Prefazione
di Ulderico Wilko
Zanni (The Rats)
Quando Antonio "Tony Face" Bacciocchi mi ha prospettato l’idea di scrivere la prefazione a questo libro su quello che – più che un soggetto – io ho sempre definito un evento, penso che il tempo di risposta non abbia superato i cinque secondi. Non credo lo abbia fatto per avere un incipit da un punto di vista critico o tecnico. Sono più propenso a pensare che si sia rivolto a me per un contributo di tipo emozionale. Dopo tutto, cosa può esserci di più emozionale del racconto di chi ha vissuto i Pistols come un’illuminazione, come la schiusa di un guscio dentro al quale premeva, con tutta la sua forza, l’urgenza adolescenziale di un dodicenne?
Nel 1977 ascoltavo già musica per parecchie ore al giorno da almeno cinque anni. La musica che stimolava il mio essere – a quell’epoca – già molto inquieto e dinamico. Le chitarre di Pete Townshend e Wilko Johnson (al quale i miei compagni di scuola rubarono il soprannome che mi diedero e che non ho mai abbandonato) erano una specie di ossessione. Dischi come Live At Leeds e Down By The Jetty giravano per pomeriggi interi come vortici ipnotici sul mio piatto. Erano quello che stavo cercando: ruvidità, esuberanza e una sorta di maleducazione lirica e attitudinale. Avevo bisogno di qualcosa che facesse decisamente da coltraltare alla pomposità e al manierismo di quel suono che per anni era stato trasportato alle mie orecchie dall’aria di casa e da zii e fratelli più grandi. Sì, ero decisamente annoiato dalle complesse strutture delle lunghissime lagne
di Pink Floyd, Yes, Genesis e compagnia bella.
Mentre questo succedeva, in me stava anche prendendo piede una certa propensione a non accettare quello che per molti, invece, era accettabile: una società stratificata che prevedeva che ci fosse chi assegnava posizioni e chi le manteneva. Specialmente riguardo ai giovani. Avevo assistito al fallimento del tentativo di cambiamento messo in atto dalla generazione precedente – quella del flower power – e pensavo che ci fosse bisogno di un tipo di linguaggio molto più netto. In fondo, anche nella musica dei giovani, era una questione di posizioni. Inarrivabili superstar su palchi mastodontici, pubblici oceanici ad ascoltarle e manager panciuti che contavano il fiume di denaro che tutto questo alimentava. Non lo trovavo per niente stimolante. Mi vedevo lontanissimo sia da quelli che stavano su quei palchi, sia da quelli che ci stavano sotto. Eppure, avevo già deciso di fare della musica una parte attiva della mia vita e, nella musica, non c’è niente di più attivo che suonarla. Serviva solo la scintilla. E la scintilla arrivò un giorno di fine agosto, dopo avere viaggiato nella valigia di un amico più grande di me di dieci anni di ritorno da Londra. Due 45 giri (così si chiamavano allora i singoli): Anarchy In The Uk/I Wanna Be Me e God Save The Queen/Did You No Wrong, con quella copertina monocromatica blu che ritraeva Elisabetta II d’Inghilterra, i cui occhi erano coperti dal titolo e la bocca dal nome della band (quasi a censurarne l’identità e a bannarne la figura), scritti con un lettering che era già foriero di disordine e scandalo.
L’ascolto di quel piccolo arsenale rimarrà per sempre impresso nella mia memoria, ed è per questo che i Sex Pistols non sono per me un soggetto bensì un evento. Anzi, un avvento. Nel 1977 non potevi aprire un browser, andare su Google o so YouTube e guardarti le foto o un video di chiunque volessi, però tra le cose arrivate in quella valigia c’erano anche una copia di «Nme» e una di «Melody Maker». Boom! Eccoli lì, davanti a me, davanti a un ragazzino che non aveva né bussola né destinazione ma solo un viaggio da fare. E furono proprio quel suono così potente e compatto – come non avevo mai sentito prima – e quell’immagine impunita e strafottente a fungere da carburante per quel viaggio. A quell’età, si sa, è tutto un gioco, ed è proprio così che partii per quel viaggio. Per gioco. I miei amici giocavano a calcio in oratorio o facevano la collezione di figurine dei calciatori. I miei giochi erano una chitarra elettrica regalatami dai miei genitori e una manciata di vinili sui quali suonarla. Un viaggio è anche e soprattutto una crescita, e io viaggiavo veloce, crescendo altrettanto velocemente. E crescere mi rendeva più attento anche alle parole. Così, quelle frasi fulminanti e illuminanti come «non so quello che voglio ma so come ottenerlo» aprirono completamente la valvola che tratteneva la mia urgenza di comunicare. La nuova consapevolezza di quanto la rabbia potesse essere trasformata in qualcosa di positivo, di quanto la furia iconoclasta potesse assumere un aspetto importantissimo nella creazione.
Perché quello di cui avevano bisogno i giovani inglesi in quell’ultimo lustro degli anni Settanta era proprio creare qualcosa per loro stessi. Qualcosa che non li facesse pensare all’assenza di futuro dovuta alla disoccupazione e a un’inflazione che sfiorava il 27 per cento. "No future e
Destroy" diventarono quindi gli slogan dei ragazzi in una Londra sommersa dai rifiuti a causa dello sciopero dei netturbini. Credo che nulla, più del punk e di quelli che furono la sua iniziazione planetaria, rappresenti meglio il processo di creazione dalla distruzione. Le T-shirt di Vivienne Westwood, su cui campeggiavano simboli di ogni tipo – dissacrati con feroce ironia – e che i quattro indossavano da inconsapevoli testimonial di quello che sarebbe diventato un impero economico, sono ancora lì a dimostrarlo. Ai giorni nostri, fa tenerezza sentire definire trasgressivo Achille Lauro per come si presenta al pubblico di Sanremo. Almeno, per chi era già al mondo quando Steve Jones saltava sul palco con indosso una maglietta sulla quale Biancaneve e i sette nani erano ritratti durante una gangbang. Ma Steve Jones non ha fatto solo questo, ha anche creato un suono che avrebbe influenzato miriadi di altri chitarristi futuri, fondendo l’allora neonato heavy metal con le atmosfere sixties di Kinks, Small Faces eccetera. Possiamo davvero credere che senza di lui – per citare un solo esempio – Noel Gallagher avrebbe potuto tirare fuori riff come quelli di Rock’n’Roll Star o Bring It On Down? E gli Oasis non sono di certo i soli ad avere citato più volte i Pistols come fonte di ispirazione.
Ecco cosa scatenarono in me questi quattro hooligans del rock’n’roll: l’idea che anche io avrei potuto dire la mia su quello che minava la mia adolescenza e, di conseguenza, il mio futuro di adulto. Quella era la via, visto che le buone maniere della generazione che aveva preceduto la mia avevano disatteso ogni proposito. Fare chiasso, provocare e oltraggiare tutto quello tendeva a relegare in un angolo le voci di dissenso di chi si ribellava a quella stratificazione della società di cui scrivevo all’inizio.
Allora successe che un seppur piccolo paese di 10 mila abitanti in provincia di Modena mi riservò la sorpresa di farmi incontrare altri tre ragazzini che la pensavano esattamente come me su come passare i pomeriggi in alternativa al doposcuola. Ritrovarsi in un magazzino a fare un baccano infernale imbracciando strumenti musicali, guardando a Rotten, Jones, Matlock (poi Vicious) e Cook. Certo, a quel tempo si trattava sicuramente di emulazione e anche noi, ingenuamente, sognavamo di diventare motivo di dibattito in Parlamento e di censura da parte del giornalista perbenista di turno, ancor prima di diventare una buona band. Ma se così non fosse stato, io non avrei poi avuto la fortuna di fare di questo ingenuo sogno addirittura una professione per un buon decennio. Ecco cosa devo ai Pistols: essere stati la propulsione che mi ha spinto a partire in una direzione che, comunque, da qualche parte mi ha portato. Per alcuni può essere considerato poca cosa, per me è stato tutto. È così. Non avrei mai potuto spingermi fino al Kazakistan o alla Sarajevo di fine guerra per suonare una chitarra elettrica se mi fossi fissato sull’imparare Tarkus degli Elp. È stato possibile solo per il fatto che Bodies, Problems, Pretty Vacant e No Feelings erano sì più facili ma – per me – anche mille volte più significative. Non è un segreto per chiunque mi conosca, di persona e non.
Perché è innegabile quanto un album come Never Mind The Bollocks. Here’s The Sex Pistols! abbia lasciato come eredità su tutti i fronti. Ha letteralmente cambiato la vita di milioni di persone della strada e di altre che hanno trovato in esso la spinta per imboccare la via della creazione.
Insomma, quale altra band in ventisei mesi di attività (novembre 1975 – gennaio 1978) e un solo album ufficiale all’attivo è stata capace di influenzare maggiormente musica, cultura, società e moda? La sfida a trovarla è ancora aperta.
Prefazione
di Maurizio Iorio (Distorsonic)
La mia fortuna è stata quella di avere sedici anni nel 1977, l’anno in cui i Sex Pistols diedero fuoco alle polveri e fecero esplodere il movimento punk, portando lo scompiglio su tutta la scena internazionale.
Alcuni anni prima ero stato introdotto all’eccitante circo del rock dai Rolling Stones, ma i Sex Pistols fecero un danno di proporzione maggiore, cambiarono la mia vita, stravolgendola completamente. Un momento indimenticabile. Birra versata sul chiodo di pelle nera durante il pogo dentro l’unico club disposto ad accoglierci, il Titan, mentre le casse sparavano al massimo del volume l’ultimo singolo appena pubblicato. E molto altro.
Il loro ingresso sulla scena musicale ebbe quindi un grande impatto, soprattutto su noi adolescenti alla ricerca di una qualche identità e di una ragione di vita. I Sex Pistols erano differenti da tutto quello che in quel momento era inteso come musica popolare. La loro apparizione causò numerose ripercussioni e diede una forte scossa all’ambiente culturale di quegli anni. E di quella scossa imprevedibile beneficiarono tutti, persino musicisti della vecchia scuola, come Pete Townshend e David Bowie, che riconobbero la loro importanza e dedicarono loro dischi e citazioni. Il merito principale era di aver riportato la musica a uno stato di eccitazione che era assente da tempo. C’erano nuove regole da infrangere e, con un tempismo perfetto, riuscirono a sabotare anche la festa per i venticinque anni di regno della Regina Elisabetta. Puro divertimento sul come sconfiggere la noia quotidiana. "No Future" fu il regalo che consegnarono al Regno Unito per il Silver Jubilee. Nel 1977, infatti, nessun dio riuscì a salvare la Regina dall’anarchia nel Regno Unito.
In diversi momenti scombinarono non solo la Gran Bretagna ma persino il loro management, ribaltando i programmi di Malcolm McLaren, dapprima durante la scelta del regista del loro film, inizialmente affidato a Russ Meyer, poi con lo scioglimento del gruppo durante il tour americano.
La loro immagine ebbe un ruolo determinante, tanto quanto la loro musica. La fotografia di Johnny Rotten con indosso i pantaloni di pelle nera, la cintura borchiata e la camicia di forza di garza con la scritta "Destroy, i capelli con la vaselina e la lattina di birra in mano fu eloquente tanto quanto la loro musica. John
Rotten" Lydon divenne il leader carismatico, figura centrale non solo dei Sex Pistols ma di tutto il movimento punk.
Quando metto il loro disco sullo stereo di casa, si ripresenta la stessa atmosfera elettrica che animava quei giorni, quella sensazione di appartenenza a qualcosa di unico che avrebbe presto raggiunto tutti. Provo lo stesso identico stato di eccitazione.
Mentre i suoi compari contribuiscono ad aumentare la tensione con un suono pieno, radicato nel classico rock’n’roll, la voce roca e animalesca di Rotten sbraita nel microfono. Suona ancora sconvolgente. La rabbia accompagnata da un ghigno cinico. La vitalità che caratterizza il loro suono ancora oggi risuona della stessa potenza distruttiva di allora, nonostante abbia attraversato diverse epoche.
La rabbia è energia.
Introduzione
A conti fatti, forse il rock’n’roll è stata veramente una grande truffa. Chi lo ha sempre sostenuto a spada tratta sono stati i Sex Pistols, iconoclasti a tal punto da dichiararlo orgogliosamente ai quattro venti. Band dalla vita brevissima, ma che è bastata a sconvolgere e riscrivere l’intera storia del rock, passata e futura. L’immagine e la narrazione hanno sempre prevalso sui contenuti musicali. Non per pochezza artistica: la loro musica è infatti sempre stata onesta, diretta, urgente, suonata, paradossalmente al dichiarato intento di mostrarsi mediocri e improvvisati, con competenza e gusto per la ricerca. John Lydon, il frontman della band, ha saputo perfino fare di meglio con la successiva incarnazione nei Public Image Ltd. Amati o odiati, rimangono un pilastro essenziale nella storia del rock.
I protagonisti
John Rotten
Lydon
Nato a Londra da genitori irlandesi cattolici nel 1956, l’infanzia di John Lydon è stata interrotta da una diagnosi di meningite spinale, che lo ha costretto in ospedale per un anno e che ha causato una grave perdita di memoria.
Mi ha quasi ucciso. Niente di cui ridere. Ma stranamente è qualcosa che ha contribuito alla costruzione della mia personalità. Senza quello, probabilmente non sarei dove sono oggi, quindi grazie a Dio sono solo
quasi morto. Il dolore che ho dovuto sopportare per aver perso la memoria e aver dimenticato chi ero è sempre dentro di me. Non ho mai spiegato che agonia sia stata per me.
Infanzia turbolenta, teppismo spicciolo, una stretta amicizia con John Simon Ritchie, futuro bassista dei Sex Pistols con il nome di Sid Vicious. Dirà Lydon padre, John Christopher: «Quando era molto giovane, John era veramente timido. È stato per anni incredibilmente timido. Se arrivava qualcuno a casa, scappava al piano superiore».
Una foto del matrimonio dei miei genitori [di John Lydon, nda] mi ha sempre affascinato perché nell’angolo in fondo a destra zia Agnes tiene in braccio un bambino. La spiegazione più probabile è che quel bambino sia io, e che io sia un figlio illegittimo: ma non ho nessun certificato di nascita e non ho mai avuto risposte oneste dai miei genitori. Sono cresciuto nella mostruosità vittoriana di un edificio a Holloway, a nord di Londra, con i miei genitori e tre fratelli minori. Papà faceva il giurista e trascorreva lunghi periodi a lavorare lontano da casa. Spesso toccava alla mamma prendersi cura di noi, ma era sempre malata – gli aborti infiniti non l’aiutavano – quindi toccava a me gestire la casa. Mi è piaciuta la responsabilità. A sette anni ho contratto la meningite a causa