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Taci, e suona la chitarra. Milano rock ottanta
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E-book223 pagine3 ore

Taci, e suona la chitarra. Milano rock ottanta

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Info su questo ebook

Tre vicende esistenziali, tre solitudini che confluiscono in una rock band a Milano. Un trio, basato sulla combinazione chitarra-basso-batteria, che ha avuto quali punti di riferimento, nella storia del rock, esempi celebri quali i Cream, i Rush e i Police. Milano, Darfo Boario e Ventimiglia: queste le località di origine dei tre musicisti che uniscono le proprie energie per creare una nuova esperienza musicale tra le cantine e le sale prova di una città conservatrice e poco disponibile ad accettare, nei primi anni Ottanta, un altro modo di fare musica. Steve Ray, Axel e Luciano si trovano così a combattere soli contro tutti. Contro le major discografiche italiane, il sistema televisivo e dell'informazione, nemici di un rock grintoso, emergente, carico di tanta rabbia. E riescono, a colpi di demo, concerti, fallimenti di piccole etichette, recensioni sulle fanzine, studi di registrazione, rock festival, ad avvicinarsi al miraggio del successo. Ma un imprevisto, una scheggia impazzita, una sorpresa inaspettata sconvolgerà la vita della band, per giungere così all'inevitabile epilogo.
LinguaItaliano
Data di uscita26 giu 2014
ISBN9788875639853
Taci, e suona la chitarra. Milano rock ottanta

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    Anteprima del libro

    Taci, e suona la chitarra. Milano rock ottanta - Achille Maccapani

    I

    Steve Ray entrò nella sua camera da letto. Diede una rapida occhiata alla finestra, vedendo di lontano la fabbrica di Sesto San Giovanni, il suo luogo di lavoro. Aveva appena finito di pranzare e voleva ascoltare un po’ di buona musica, quella che piaceva a lui, che lo caricava, lo rendeva più reattivo. Faceva ancora uno strano effetto l’ascolto dell’hard rock, anche per chi, come lui, lo suonava da anni. Eppure qualche giorno prima, dopo aver trovato da Rasputin, a pochi passi dal tribunale, Wiped out, l’ultimo ellepì dei Raven, non era riuscito a trattenersi dal desiderio di acquistarlo. Iniziò a cercarlo tra i dischi accumulati alla rinfusa sul suo scaffale abituale, che comprendeva tantissimi vinili da trenta centimetri.

    C’era spazio per il classico hard rock degli anni Sessanta e Settanta, da Jimi Hendrix ai Cream, dai Led Zeppelin ai Deep Purple, dai Black Sabbath ai Rainbow, per passare alle evoluzioni degli ultimi anni, caratterizzate dagli Iron Maiden di Killers e da Unleashed in the east dei Judas Priest; quest’ultimo album poi lo faceva impazzire di gioia. Ma che fatica a trovarlo! Era stato originariamente pubblicato per il solo mercato giapponese, dato che si trattava di un disco dal vivo registrato a Tokyo, ma si trasformò in un battibaleno in un classico, un prodotto irrinunciabile che nessun rocker poteva perdersi, grazie anche allo scambio continuo di informazioni tra un negozio di dischi e l’altro, sia che si trattasse di Rasputin, come pure di Buscemi, sia che fosse una novità d’importazione disponibile da Disco Club Cordusio. Un live entusiasmante, pieno di grinta, energia, qualità esecutiva, idee ed arrangiamenti scoppiettanti.

    Ma aveva nella testa i Raven e cercava il loro disco. Aveva voglia di riascoltare quell’ellepì, a costo di passare con le mani ad uno ad uno i vinili accatastati in fila senza ordine alfabetico. Voleva a tutti i costi quel disco.

    Era nervoso, sperava di trovare l’album che voleva entro una manciata di secondi. Si fermò un attimo e si voltò verso la finestra della camera. Il cielo non prometteva niente di buono: cupo, nuvoloso e assai grigiastro. L’aria non doveva essere delle migliori, com’era tipico della metropoli, a causa dello smog continuo delle auto e dei pullman di linea che viaggiavano senza interruzioni lungo i due lati di viale Monza. Quasi non lo disturbava più il rumore dei numerosi treni che transitavano lungo la linea diretta verso la stazione Centrale, tanta era l’abitudine che lo aveva quasi assorbito, anzi assopito, nel corso degli anni. D’un tratto lo trovò. Lo prese subito tra le mani.

    Diede ancora una volta un’occhiata alla copertina, a quei due lampi stilizzati che si incrociavano violentemente. Tirò fuori con delicatezza dal bustone quel padellone in vinile, tondo nero da trenta centimetri, e lo pose sul giradischi. Azionò con calma il braccio, appoggiando con estrema cura la puntina sulla superficie grossa posta nella parte finale del disco. Ecco, si sentiva il rumore sottile dei primissimi solchi.

    Dal silenzio crebbe pian piano il rumore d’ambiente generato da un sintetizzatore, dando quasi la sensazione di trovarsi dentro una caverna. In quel momento irruppe una voce distorta, dal tono rabbioso. Seguì poi una scarica violenta che precedeva un articolato riff di chitarra elettrica. Scattarono il basso e la batteria, si unirono insieme alla chitarra nel tema, e dalla breve introduzione si passò alla prima strofa con tanto di sviluppo, che confluì nel ritornello di Faster than the speed of light. Una scossa di adrenalina, una carica di energia, un brano estremamente semplice e melodico in Re minore, e soprattutto una fortissima compattezza di una rock band, basata sul principio triangolare basso-chitarra-batteria, che non ti lascia respiro, dove lo spazio per le parti solistiche è direttamente collegato alla potenzialità della composizione.

    Si sentì colpito dall’impatto sonoro di Faster, come raramente gli capitava al primo ascolto di un nuovo ellepì. Si domandò da dove venisse quella rock band. Sconvolto dal primo brano, lo volle risentire. Una, due, tre volte. E non riusciva a credere che quel sound poderoso, forte e compatto provenisse da una band di tre soli elementi, i fratelli John (basso e voce) e Mark Gallagher (chitarra e voce), nonché Rob Hunter (batteria e voce). Era da tempo che desiderava mettere in piedi anche lui una rock band, e l’ascolto del secondo album dei Raven gli fornì lo spunto per ripensarci e decidersi una volta per tutte.

    L’adrenalina trasmessa da Faster fu per lui uno stimolo efficace per mettersi all’opera. Si recò verso l’amplificatore Marshall e lo accese, regolando il volume. Si mise a tracolla la sua chitarra Fender Stratocaster e preparò la pedaliera con l’overdrive. Cominciò a suonare col plettro incastrato tra il pollice e l’indice della mano destra. Quella sinistra invece viaggiava lungo la tastiera, da una parte all’altra. Era abituato a viaggiare sullo strumento quasi ad occhi chiusi. Il plettro seguiva con una naturalezza incredibile le evoluzioni e le scale armoniche impostate dalla mano sinistra. Una leggera trapanatura oltrepassava le sei corde ad una velocità incredibile, a mano a mano che si evolveva il percorso del brano.

    Si sentiva letteralmente trasportato dallo sviluppo della composizione che conosceva a menadito, che sentiva di dominare in modo pieno e si divertiva ad imitare perfino le sonorità della lead guitar che ascoltava in contemporanea alla propria esecuzione domestica. Una sensazione strana, curiosa e comunque eccitante, quella di trovarsi ad eseguire lo stesso brano simultaneamente al disco. Certo non si trattava dello stesso effetto tipico della creazione ex novo del medesimo brano con una band, ma sentiva di essere forse in grado di tenere il tempo, di competere con una rock band vera e propria, di livello internazionale. Non eseguiva solo accordi, stacchi e riff: faceva di più, le linee solistiche, i controcanti con il basso, gli armonici, i passaggi intermedi che oltretutto, con quella velocità incredibile, sono notevolmente difficili per un chitarrista di prima mano. Riusciva invece a rendere assai simile l’effetto dell’esecuzione domestica a quello contenuto nel disco che stava ascoltando.

    Sapeva di essere un chitarrista dotato e preparato, conosceva tutti i trucchi del mestiere, li aveva imparati dopo anni di esercizio fatto sull’ascolto dei dischi dei Led Zeppelin prima e dei Van Halen nei tempi più recenti. Pensò di cercare altri elementi il cui livello fosse pari al suo. La formula ideale per lui era quella di un trio, con un bassista e cantante dalla voce potente, oltre a un batterista veramente esplosivo.

    Terminato l’ascolto, indossò il chiodo e uscì di casa. Era un sabato pomeriggio uguale forse a tanti altri, con il solito ed immancabile flusso di automobili, motorini, pedoni, pullman. Fece poche decine di passi per scendere nei sotterranei della linea rossa della metropolitana. Era la linea uno che transitava dalla stazione ferroviaria di Sesto San Giovanni e correva lungo la città in diagonale per arrivare fino alle estreme periferie, le stazioni di Inganni e San Leonardo.

    Non voleva recarsi chissà dove, tantomeno cercare un pullman per andare a Quarto Oggiaro, dove abitava la sua ex-ragazza, che lo aveva lasciato pochi mesi prima. Avrebbe piuttosto voluto fuggire da quei luoghi, rimuoverli dalla propria mente, cancellarli per sempre, convinto com’era che una storia d’amore fosse ciò che poteva dare un senso alla sua vita. S’era buttato dopo una cocente delusione nella musica, in quella specie di coperta di Linus che era diventata per lui la musica rock. Oltrepassò la barriera di ingresso della stazione, esibì all’addetto dell’atm il proprio abbonamento settimanale e affrontò l’ennesima rampa di scale.

    Ovunque notò la presenza di manifesti pubblicitari. Dentifrici, automobili, caramelle. E il buio che emergeva dal fondo del tunnel, dal quale sarebbe sbucato fuori il treno. Non gli piaceva affatto vivere a Milano, dove non c’era spazio per il rock, per i gruppi che nascevano nelle sale prove, crescevano nelle cantine, sperando in un successo che chissà quando sarebbe arrivato. Mal sopportava quella città conformista, conservatrice, dominata dalle major, da un regime pseudoculturale, quello di un consenso massificato e spersonalizzato, tipico del periodo, dove non c’era spazio sufficiente per le alternative musicali, a parte quei pochi locali pubblici e il sostegno di un manipolo di taluni tour manager privi di scrupoli.

    Si sedette per aspettare l’arrivo del metrò, ed estrasse da una tasca un lettore portatile di musicassette con cuffia. Dentro c’era una C90, un nastro da novanta minuti sul quale aveva registrato, uno per facciata, i primi due ellepì degli Iron Maiden. Schiacciò lo start: il nastro era posizionato a metà di Gengis Khan. Ascoltò le evoluzioni della sezione ritmica, dove Steve Harris al basso e Clive Burr alla batteria volavano senza respiro, e senza mai fermarsi, avvalendosi di ritmi ternari, quaternari, stacchi sonori a metà tra le Mothers of Inventions di Frank Zappa e le evoluzioni dei primi Genesis.

    Benché immerso nelle sonorità della cuffia, si accorse tuttavia del crescendo incessante del rumore del treno proveniente dall’ultima curva buia del tunnel, segno evidente del suo arrivo sulla banchina. Si alzò di scatto, quasi meccanicamente, come faceva tutte le mattine per recarsi al proprio posto di lavoro, inscatolato come una sardina in mezzo ad una marea di lavoratori, studenti universitari, gente di tutti i tipi. Ma in quel momento fortunatamente c’era poca gente.

    Tutti avevano forse ben altro per la testa, erano impegnati a far la spesa in questo o quel supermercato. Lui invece non aveva bisogno di riempire il frigorifero della cucina di casa sua. Viveva da solo, gli bastava fare acquisti nel supermarket posizionato a pochi passi sotto casa, le solite scatolette di tonno, qualche cespo di lattuga, affettati di salumi, sacchetti di pop corn, l’immancabile cassa di birra, bottiglie d’acqua e così via. E ora voleva fare due passi, andare in centro, non pensare ad altro.

    Entrò dentro un vagone, non appena giunse il treno davanti a lui. Dopo pochi secondi, le porte si richiusero e il metrò partì verso la fermata di Loreto. Si sedette, mentre la musica proseguiva senza sosta. Percepì l’ondeggiare del mezzo, ma non provò nausea, come gli capitava il mattino. Poco dopo, l’arrivo a Loreto: un gran numero di persone entrò dentro il vagone, buona parte delle quali proveniva dal cambio di Gorgonzola.

    Si divertì allora ad osservare la gente che transitava. Qualche ragazza carina, non sola, alcune famiglie giovani, qualche anziano. Vedeva intanto passare il flusso delle stazioni. Lima, Porta Venezia e San Babila. Ormai era vicino a Duomo. Lo capì anche a causa della solita frenata che il macchinista effettuava sulla parte curvilinea del percorso a rotaie. Si alzò in piedi e schiacciò lo stop al miniregistratore. Tenne tuttavia la cuffia a tracolla. Vide dai finestrini le luci della fermata di Duomo, percepì il progressivo freno che precedeva la fermata. Era giunto a destinazione.

    Scese dal treno in mezzo ad un nugolo di passeggeri, salì le scale. In pochi secondi si ritrovò all’aria aperta. Percorse, a pochi passi dal sagrato, piazza Duomo, dirigendosi speditamente verso via Dogana. Lì c’era una delle sue tappe predilette, Transex, uno dei negozi di dischi più specializzati che faceva parte della cerchia irrinunciabile dei luoghi presso i quali si poteva comprare musica rock di qualità, trovare le novità di importazione e anche risparmiare quelle due-tremila lire per disco, il che non gli dispiaceva.

    Non sarebbe mai entrato alle Messaggerie, oppure, peggio ancora, da Ricordi. Per lui, lettore accanito di Rockerilla o di Kerrang, nonché delle varie fanzine di hard’n’heavy, sarebbe stata una vergogna, perché si sarebbe trovato ad essere intaccato dalla cosiddetta musica di regime, dai dischi che, appena pubblicati, stranamente entravano subito nelle classifiche nazionali di vendita, erano pubblicizzati dal Seymandi o dal Gentili di turno e non avevano nulla a che spartire con i suoi gusti musicali. Si fermò davanti alla vetrina e diede un’occhiata rapida. Entrò nel negozio.

    Cominciò a dare uno sguardo alle novità della settimana, poi all’angolo dei bootleg. Cercava qualche chicca da collezionisti, un qualche titolo di qualità, magari d’importazione, appena arrivato dall’Inghilterra o dagli States, di quelli imperdibili, e che poi avrebbe potuto gustare in anteprima di uno-due mesi, rispetto ai tempi consueti della successiva recensione sulle riviste da lui abitualmente lette.

    D’improvviso diede un’occhiata ad una locandina posta sul lato sinistro del locale, vicino alla cassa centrale. Conteneva una marea di bigliettini, inserzioni varie, e quasi tutte relative alla creazione di nuove rock band, alla sostituzione di un chitarrista, un bassista oppure un lead vocalist. Proprio lì pensò che avrebbe potuto preparare un’inserzione e affiggerla presso quel negozio ed in altri luoghi chiave, come le sale prove più frequentate. Ma fu solo l’intuizione di un attimo.

    Uscì dal negozio dopo mezz’ora. Camminò a lungo, percorrendo la galleria Vittorio Emanuele, dirigendosi pian piano verso piazza San Babila. Continuò a pensare, a riflettere, a ponderare. Non era stato certamente il momento emozionale dell’ascolto di un brano dei Raven ad essere decisivo in tal senso.

    L’idea di creare una band era un progetto concreto, maturato a lungo dentro di lui, e ora sentiva che era giunto il momento di realizzarlo, forse anche in fretta, se ci credeva fino in fondo. Tanto non aveva altri impegni al di fuori del lavoro, tanto meno quelli di natura sentimentale. Per questi ultimi, poi, non voleva più trovare un posto nella sua vita. Oltretutto, da quando aveva perso i genitori, non aveva più avuto punti di riferimento stabili per la propria esistenza.

    Si diresse quindi verso la propria abitazione.

    Dopo aver terminato di cenare, cominciò a rimettere in ordine la tavola. Lavò i piatti e i bicchieri, pulì per terra. Poi accese il televisore, sdraiandosi sul divano. Il panorama sullo schermo era quantomai deprimente: qualche film già visto nelle tivù locali, un varietà con Gigi & Andrea e con la partecipazione di Carmen Russo, niente di più. E per fortuna non avrebbe dovuto sopportare quell’obbrobrio di "Superclassificashow", con quel conduttore, Seymandi, che proprio non gli andava giù. Tivù spazzatura, senza alcuno spazio per la musica che gli piaceva. Di colpo spense il televisore.

    Tornò in camera da letto. Niente chitarre, ampli, pedaliere. Troppo tardi, avrebbe disturbato i vicini di casa. Scelse Back in black degli AC/DC, e lo ascoltò interamente in cuffia. La decisione di creare una nuova band si materializzò ancora in lui. Ma era stanco. Dopo mezz’ora spense l’impianto stereo. Si svestì ed indossò il pigiama. Si buttò sul letto per addormentarsi senza troppi pensieri e, dopo pochi minuti, credeva di essere vicino a quella fase che precede la perdita dei sensi e il conseguente prevalere del sonno. Invece ebbe un sobbalzo: il ricordo della sua ex, Luisa. Si illudeva sempre di non essere più tormentato da quella vicenda che invece tornava ancora ad affiorare dentro di lui, proprio in quei minuti di totale calma e di silenzio della musica. Era come se ripiombasse in una dimensione che continuava a cercare di fuggire, dimenticare, insomma, di togliere definitivamente dalla propria vita.

    Si trovò attraversato da una sorta di malinconia, di angoscia, che è tipica di chi sente la mancanza di una presenza fissa, di un conforto costante, di un punto di riferimento per la sua esistenza. La passione per il rock, heavy o meno che fosse, non poteva risolvere tutti i suoi problemi. Scoppiò a piangere di colpo, scese dal letto, accese la luce del corridoio e si recò in cucina. Aprì il frigo e tirò fuori una lattina di Stella Artois. Se la portò in soggiorno, dove accese il televisore. Non ricordava che cosa stessero trasmettendo a quell’ora. Ma l’effetto della birra e della tivù di notte gli permise di addormentarsi sul divano e di cancellare, anche se solo per il momento, quei pensieri.

    Domenica mattina, solito rumore urbano fuori dalla finestra. Steve Ray si svegliò e spense, solo in quel momento, il televisore rimasto acceso tutta la notte. Si lavò, si vestì e uscì di casa. Consumò la prima colazione in un bar situato a pochi isolati dalla propria abitazione. In quell’istante, di fronte alla solita tazza di caffè americano e a una brioche alla marmellata, iniziò nuovamente a balenare nella sua mente l’idea di creare una rock band nuova di zecca.

    Sentì di nuovo il bisogno di una forte motivazione che lo facesse sentire vivo. Forse la band avrebbe potuto davvero significare la chiusura di una vicenda personale che lo aveva profondamente

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