Bonne nuit Paris
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“Serviva un cambiamento e per averlo dovevamo mettere sottosopra ogni cosa. Era l’ora di muoversi verso la nostra vita, come due rabdomanti che sapevano già dove fosse la sorgente della felicità.”
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Anteprima del libro
Bonne nuit Paris - Giuseppe Loddo
Per scrivere bisogna saper filtrare emozioni, ma ancor prima occorre... provarne. Non si può vivere senza. Spesso, chi sa darmene finisce tra le mie parole, o in qualche sfumatura dei miei personaggi. Grazie a chi riesce a far vibrare la mia anima, chiunque tu sia, ovunque io ti incontri.
Bonne nuit Paris
Giuseppe Loddo
"Non so se sia una storia vera di cose immaginate o una storia immaginata di cose vere.
So che ogni riferimento a fatti, luoghi e persone è puramente casuale.
So che è una storia che narra di amicizia, di emozioni e di amore, verso tutto ciò che ha un’anima. Mai rinunciare a chi o a cosa riesce a fartela vibrare.
So che è una storia in movimento, come lo sono il cuore, i pensieri, e le parole, che corrono su queste pagine, sfuggono ai fogli bianchi, per prendere forma tridimensionale e diventare cose, luoghi, facce...
Che la morte ci trovi vivi."
...only those who dream of learning to fly.
(Jim Morrison)
She’s the tears that hanged on my soul forever.
(Jeff Buckley)
So I’ll leave the ways that are making me be what I really don’t want to be... leave the ways that are making me love what I really don’t want to love.
(Nick Drake)
Giugno...
1. Le fleur du mal
Lo faccio. Stavolta giuro che lo faccio! Domani, al primo raggio di sole che mi sfiora la faccia, salto dal letto, riempio lo zaino come un rapinatore in una banca con l’allarme già azionato e mi sparo come un proiettile verso l’aeroporto, a prendere il primo cazzo di aereo, verso quel posto, da quel cazzo di stronzo!
Questo fu il mio primo pensiero subito dopo che Valerio mi telefonò, per una volta di troppo, mentre l’ultima amichetta di turno gli rallegrava l’animo intervallando tra un sospiro e l’altro il mio nome.
«Manuel, mmm, vieni qui, mmmm, vieni da me, ti farò impazzire.»
E il tutto in un italiano strano ma irresistibilmente arrapante, insegnatole, probabilmente, appena qualche minuto prima dallo stronzo, che se la rideva alla grande fino alla fine.
Tutti i giorni la stessa storia. E poco importava fosse mattina, pomeriggio, sera, o notte!
Ogni volta quella sinfonia di sottofondo.
«Ma ti diverti così tanto con queste stronzate?» gli dicevo per non dargliela vinta.
Non capivo se provava piacere più nel sentire le sue labbra o nel provocarmi a millequattrocentoquarantasei chilometri di distanza.
«Mon amour. Allora? Hai proprio deciso di lasciarmi fare tutto da solo? Qui è quasi tutto pronto. Hai risolto i problemi che dovevi risolvere, sì? Allora sbrigati e non rompere le palle!»
Questo era il succo delle sue telefonate. Data e orario del mio arrivo a parte, non voleva sentire nient’altro.
Mi conosceva come le sue tasche. Sapeva bene quanto indugiassi troppo di fronte a scelte importanti, e quanto necessitavo di una scossa. Col serbatoio pieno ero una specie di Lindbergh sempre pronto a qualsiasi transvolata oceanica, ma che una volta a secco non si scapicollava di rifornirlo. Per spiccare nuovamente il volo avevo bisogno di chi lo riempisse per me.
Proprio per questo mi provocava, a suo modo e in mille altri ancora, ricorrendo anche al gioco sporco, il suo preferito, pur di farmi fare il passo. Voleva che mi scattasse la molla e sapeva bene cosa fare per farla scattare. Non una qualsiasi, certamente, quella che mi spingesse a decidere di prendere quel cazzo di aereo che mi portasse da lui, una volta per tutte e nel minor tempo possibile.
Erano passati già quasi due mesi da quando Valerio decise di trasferirsi, lontano dai posti in cui eravamo cresciuti. Due mesi da quel nostro viaggio, da quel giorno perfetto. Da quando io, poi, ritornai a casa, lasciandolo lì con la promessa di raggiungerlo al più presto.
«Devo pensare, sistemare al meglio tutto come è giusto che sia.» gli dissi. E lo avevo fatto.
L’arco era teso ormai. Ciò nonostante non riuscivo a decidermi a fare il passo successivo, ripartire. Facevo scorrere i giorni lenti in attesa che mi portassero chissà dove, mentre andavo a passi veloci da nessuna parte.
Intanto il tempo passava, con Valerio che continuava a pressarmi perché non ne perdessi altro. Non potevo più permettermelo.
Avevamo i nostri progetti del resto, pensati e fantasticati da tempo. Già da quando ci incontrammo tra i banchi di quel primo geometri pressappoco quattordicenni. Che cosa ci facessi io in una scuola per geometri ancora non lo so. Comunque è lì che ci conoscemmo, e questo è già gran motivo per non rimpiangere scelte diverse.
Ci piacemmo da subito, fin dal primo istante. Avevamo molte cose in comune, oltre alle nostre origini. Ma fu quando vedemmo che insieme facevamo un’ombra sola che ci rendemmo conto che c’era qualcosa di più, qualcosa di magico.
Non potevamo stare troppo lontani e, soprattutto, non per troppo tempo.
Così trascorse la nostra adolescenza. Tra calci ad un pallone, corse su motorini ad inseguire biondine impertinenti e miliardi di cazzate di un’età che passa troppo in fretta. E tutto ciò sognando quel posto: Parigi.
Non so precisamente spiegarne il motivo, ma avevamo una forte e innata attrazione verso quella città. Probabilmente rispecchiava soltanto il nostro animo un po’ bohémien, un po’ dannato e un po’ maledetto.
Il nostro fleur du mal sbocciava, cresceva, e noi sentivamo dentro il desiderio di coglierlo lì.
2. AZ 0322 (decollo)
Eccomi così all’aeroporto. Camminavo, tenendo in mano il biglietto.
Arrivato al check-in, dopo aver sistemato il bagaglio sul nastro trasportatore rivolsi lo sguardo all’hostess, come per salutarla.
«Buona fortuna. Buona nuova vita.» mi disse finite le procedure d’imbarco.
La guardai annuendo dolcemente, senza dirle niente, con aria sospesa.
Dovrebbe augurarmi buon viaggio non buona fortuna.
pensai.
E lei ancora.
«Si vede dagli occhi, c’è la malinconia di chi lascia qualcosa e la felicità di chi sa che troverà qualcos’altro.»
Ne vedeva passare talmente tanti, tutti i santi giorni, che ormai sapeva comprendere alla perfezione quando non si trattava di una semplice vacanza. Dopo aver scambiato qualche chiacchiera, aggiunse:
«Tra un paio di settimane anch’io sarò a Parigi, con un’amica, per lavoro. Magari ci si vede lì.»
«E perché no. Ci faremo una passeggiata a Montmartre.» le risposi. Senza chiedere o aggiungere altro. Non volevo tirarmela, ma preso da mille pensieri mi era venuto spontaneo fare così.
Ha tutti i miei dati lì sul terminale, che difficoltà troverebbe se volesse davvero rintracciarmi?
pensavo subito dopo essermi allontanato.
Incredibile, ancora dovevo arrivare a Parigi che già avrei avuto da fare.
Stavo seduto su quello scarno sedile di plastica della sala d’aspetto, guardandomi intorno, senza neanche accorgermi di quanto fosse scomodo, tenendo lo zaino tra i piedi, senza sapere troppo bene cosa ci avessi infilato dentro.
Sentivo addosso lo sguardo delle altre persone, come se emanassi qualcosa di unico, di straordinariamente solare, coinvolgente e contagioso. Forse era così, non me ne rendevo conto ma forse era davvero così.
Mentre aspettavo che chiamassero il mio volo non facevo altro che pensare. A tutto e a niente, a chi stavo perdendo e a cosa andavo incontro, a chi avrei trovato e a cosa mi lasciavo in scia. Proprio come mi aveva detto poco prima la mia amica hostess.
Stavolta ero deciso a farlo: partire. Una volta per tutte. E lo stavo facendo.
Era scattata la molla. Quel cazzo di aereo, verso quel posto, con lo stronzo già pronto ad aspettarmi al Charles de Gaulle.
Lo avevo sentito poco prima di fare il check-in. Era già in fibrillazione, come un vulcano che trattiene il respiro da troppo tempo.
«Mon amourrr... non fare lo stronzo eh? E sbrigati, che qui c’ho una bella sorpresina per te.»
Sbrigati mi diceva, come se a pilotare quell’aereo fossi stato davvero io. Temeva ritornassi sui miei passi ma rideva come un pazzo.
Mi sentivo strano, perché a me i cambiamenti fanno un effetto particolare facendomi riflettere sempre un po’ oltre il dovuto. Ma ero contento.
Mi rimbalzavano in testa milioni di immagini, di pensieri. Non era la prima volta che ci andavo. Per diversi motivi più di un filo mi aveva portato verso quella città, fino a legarmi. Anche con Valerio c’ero già stato, sua sorella viveva e lavorava a Parigi da molto tempo ormai, come consulente di marketing per una rinomata società enogastronomica. Varie volte eravamo andati insieme a trovarla, soffermandoci anche per lunghi periodi. Non la prima volta, quindi, ma probabilmente la più importante. Perché quella di un’eventuale una volta per tutte.
Continuavo a pensare quando all’improvviso...
«Dlin Dlon. I passeggeri del volo AZ 0322 diretto a Parigi sono pregati di avvicinarsi all’imbarco.»
Salito a bordo scorrevo lentamente il corridoio del velivolo alla ricerca della mia collocazione.
Fila L... posto 27...
«Eccolo!»
Subito dopo l’ala, accanto al finestrino.
Avevo letto che, per un discorso di forza di gravità, di ossigeno, di virate troppo strette e di cambi di quota troppo veloci, i posti migliori sono quelli nella parte più anteriore dell’aereo. Ecco il perché la prima classe si trovi proprio in quella zona. I più sicuri, invece, sembrano essere quelli adiacenti il corridoio, in concomitanza con le uscite di emergenza. Non avevo mai dato molta importanza a statistiche del genere. Infatti alla fine me ne fregavo, convinto che se qualcosa doveva davvero succedere tutto ciò avrebbe contato ben poco.
Mi sistemavo, contento di stare accanto al finestrino, felice di poter vedere da lassù quella roba dell’alto mondo! La cosa positiva di stare lì, ovviamente, è proprio il poter ammirare il mondo dall’alto, come non riusciresti a vederlo mai, ma se per caso hai necessità di fare pipì o di sgranchire semplicemente le gambe, devi mettere in preventivo la seccatura di occupare quel posto: far alzare il tuo vicino, che non sempre rimane sveglio durante il tragitto e che, ancor peggio, potrebbe pesare più dell’aereo stesso, creando difficoltà perfino al decollo! Fortuna che il volo non sarebbe durato più di due ore e che avrei potuto trattenermela.
Seduto sul mio sedile cominciavo a rendermi conto di quanto non fosse meno scomodo di quello della sala d’aspetto. Allacciata la cintura di sicurezza davo un’occhiata a una di quelle riviste inutili che trovi nelle tasche dietro ai sedili. Giravo le pagine senza vederle, quando l’apparecchio iniziò a rullare.
Dal finestrino fissavo i flap che il pilota continuava a muovere su e giù, come per verificare che ogni cosa facesse il suo dovere.
Funzionano. Speriamo anche tutto il resto!
pensai.
Non avevo mai avuto paura di volare, ma le ultime volte mi era capitato di fare pensieri strani.
Vedevo l’aereo lanciarsi al decollo, col mondo fuori correre all’indietro sempre più forte. Poco dopo aver avvertito le ruote staccarsi da terra iniziarono a volare anche i pensieri. Mi venivano in mente Sophie, Chiara... mi stavo avvicinando a una mentre mi allontanavo dall’altra. Osservavo il cielo, il mare, posando lo sguardo su quella linea laddove si incontrano, e poi sulle scie bianche lasciate dalle imbarcazioni, che dall’alto mi sembravano scarabocchi di un bambino pasticciati su fogli di carta.
Mi sovvenivano le cose più impensabili. Avvertivo sensazioni strane, sentivo l’aria cambiare e, pur sapendo non fosse possibile, mi veniva voglia di aprire quel finestrino, forzarlo, per poter mettere fuori la testa e respirarla.
Poi ecco passare gli stewards, le hostess, con quel ridicolo carrello delle bevande.
«Tè, caffè, succo di frutta... tè, caffè, succo di frutta... tè, caffè, succo di frutta.»
In quei momenti mi sembra sempre di stare in spiaggia quando senti passare quei tizi coi frigo da campeggio pieni di bibite sopra le spalle, che, tra un cocco bello, cocco fresco
e l’altro, col passaggio dei loro sandali ti riempiono l’asciugamano di sabbia.
Che strana razza quella degli assistenti di volo, con quella convinzione di far parte dell’equipaggio dello Shuttle e quella divisina da camerieri volanti a fare un lavoro che a mezzo metro sul livello del mare non farebbero mai.
Bevuto il mio bel tè con tanto limone tirai fuori dallo zaino un classico dei libri di Joyce, Ulisse, un capolavoro per chi decide di non ancorare i pensieri.
Voltandomi incrociai lo sguardo del mio vicino, un signore sulla cinquantina che alla prima occhiata mi sembrò già simpatico, se non per altro almeno per quegli occhiali da sole con la montatura bianca, stile Enrico Ruggeri versione Decibel in Contessa, non sei più la stessa...
.
Fortunatamente non aveva bisogno di taglie calibrate e, ancora più fortunatamente, non era il classico noioso logorroico che spara banalità per tutto il viaggio, senza mai prender sonno. Eh sì, c’è sempre qualcosa per la quale non sai mai cosa è meglio augurarti!
Ci sorridemmo.
«Tu suoni, vero?»
«Sì...»
Sarà per quell’aria morrisoniana o per quel non so bene che cosa, comunque non era quella la prima volta che me lo chiedevano. Proprio per questo non rimasi troppo sorpreso.
«Sei Sagittario, si vede. E suoni la chitarra. Ne sono certo perché su una mano hai le unghie più lunghe che su l’altra.»
Non si era