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Road Trip with the Billionaire: Edizione italiana
Road Trip with the Billionaire: Edizione italiana
Road Trip with the Billionaire: Edizione italiana
E-book351 pagine4 ore

Road Trip with the Billionaire: Edizione italiana

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Info su questo ebook

Un miliardario sotto mentite spoglie, una scrittrice sfortunata e un viaggio che li costringerà a stare fianco a fianco…

Da vera fangirl del true crime e aspirante autrice di romanzi polizieschi, so che è meglio non accettare un passaggio da uno sconosciuto. Soprattutto uno sconosciuto bello e sicuro di sé con un sorriso affascinante. È proprio questo che caratterizza i sociopatici.
Ma non ho scelta.

Bloccata in un bar della stazione degli autobus dopo aver lasciato quel traditore del mio ex, sono infreddolita, stanca e appesantita, portando con me tutto ciò che possiedo in un enorme zaino. Quindi colgo al volo l’offerta di Mark Sullivan di darmi un passaggio fino allo stato di New York.

Starete forse pensando che questa sia la parte in cui mi innamoro del ragazzo, scrivo un bestseller e stravolgo tutta la mia vita? Siete completamente fuori strada.

Cose che andranno male durante il mio viaggio:
✓ Rovescio il caffè su Mark Sullivan.
✓ Faccio pipì davanti a Mark Sullivan. (È stato un incidente!)
✓ Una tempesta di neve mi costringe a condividere una stanza di motel con Mark Sullivan.

E come se tutto ciò non bastasse, quando torno nella mia piccola città natale con la coda tra le gambe e mi presento per il mio primo turno alla tavola calda, scopro che Mark Sullivan è in realtà Matthew Sullivan. Famoso scapolo miliardario. Avvoltoio capitalista. Bugiardo. E il sostituto del mio capo per qualche mese.

Forse avrei dovuto aspettare quell’autobus, dopotutto.

Road Trip with the Billionaire è una commedia romantica, emotivamente dolce, a volte piccante, che ti farà sicuramente ridere a lungo, anche dopo aver finito l’ultima pagina. Spero che ti piaccia leggerla tanto quanto mi sono divertita a scriverla!
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2023
ISBN9791220706483
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    Anteprima del libro

    Road Trip with the Billionaire - Harmony Knight

    1

    ROBBIE

    «Roberta, io…»

    «Non permetterti di usare il mio nome di battesimo come se stessi cercando di darti un tono,» urlo al mio ragazzo, Archie. O meglio, il mio ex ragazzo da quando, trenta minuti fa, ho visto il suo culo peloso ballare la macarena tra le gambe della mia migliore amica. «Non farlo. È finita.»

    Apro il mio grande zaino, tiro fuori un cassetto e comincio a infilare i miei vestiti nella borsa. Alcuni jeans, un pugno di mutandine, l’unico paio di calzini puliti.

    Non sono nemmeno arrabbiata. Sento che dovrei esserlo, ma non lo sono. Semmai, sono sollevata. I primi due mesi con Archie sono stati fantastici, come può esserlo il passare due mesi con un aspirante musicista ninfomane che fa il gradasso alle feste, ma che in realtà non arriva a suonare in nessun concerto. Quei mesi sono stati un susseguirsi di alcolici, piste da ballo e nottate spericolate. E, finché eravamo agli inizi, l’appartamento disordinato, pieno di vestiti sporchi e contenitori vuoti di fast food, costituiva la prova tangibile che lì viveva una futura rockstar trasgressiva.

    Lo so, lo so. Ma io ero una ragazza ingenua di una piccola città nello Stato di New York, che cercava di guadagnarsi da vivere scrivendo, e Archie era di Chicago, intelligente, con i capelli flosci, un sorriso storto e più autostima di quanto potesse giustificare un video musicale di YouTube con poche migliaia di like. E quando avevo iniziato a notare la mancanza di vestiti puliti, dopo i miei turni alla tavola calda, perché stava lavorando su quel pezzo davvero fantastico, piccola! Sarà un grande successo e poi potrai smettere di fare la cameriera e scrivere a tempo pieno!… beh, a quel punto ero già stata plagiata. O ne ero assuefatta. E comunque non volevo assolutamente tornare a casa con la coda tra le gambe, ammettendo di non essere riuscita a scrivere il nuovo bestseller americano.

    La fastidiosa hit su YouTube di Archie inizia a suonare a tutto volume dal suo telefono e, quando lo prende in mano, vedo il nome di Amber sullo schermo. Mi lancia uno sguardo colpevole, poi si precipita fuori dalla stanza, chiudendosi la porta alle spalle. Alzo gli occhi al cielo e infilo nella borsa una spazzola per capelli, seguita da una manciata di articoli da toeletta e dal mio portatile.

    «Robbiiie,» piagnucola Archie attraverso la porta, picchiettandola leggermente. Non dice niente per qualche secondo, mentre io lo ignoro e continuo a infilare le mie cose nella borsa. Sto iniziando a esaurire gli oggetti da portare con me, e mi sembra una situazione molto triste per una donna di ventitré anni. Ormai non sarebbe ora di possedere più roba di quella che può contenere un grande zaino?

    «Robbie,» ripete Archie, aprendo la porta e rientrando nella stanza. «Amber vuole sapere se lo dirai a…»

    «Non lo farò, assolutamente,» sbotto, e mi fermo a guardarlo storto. «Ma sei matto?»

    Non so dire se la mia espressione sia più scioccata o infuriata per la domanda azzardata. Lo fisso per un momento, con sguardo tagliente, finché non riesco più a sopportare quella patetica espressione colpevole sul suo viso, come se fosse stato colto con la mano nel barattolo dei biscotti piuttosto che con il suo cazzo dentro la mia amica. Torno a concentrarmi sullo zaino con una risata amara, scuoto la testa e comincio ad avvolgere il filo dell’asciugacapelli intorno al manico.

    «Robbie, dai. Non reagire in modo eccessivo,» dice mentre riattacca con Amber.

    «Archie!» quasi sputo. «Hai scopato la mia migliore amica!»

    «Ma se non ti piace nemmeno!» ribatte lui.

    Ha ragione. Amber è diventata mia amica più per abitudine che per altro. Mi sono ritrovata più volte alle sue feste, da quando mi sono trasferita a Chicago, e abbiamo stretto amicizia per osmosi, ma lei è sempre stata un po’ troppo… esagerata. Avevi avuto una brutta giornata? La sua era stata molto peggio. Una volta eri stata attaccata da un orso a Yellowstone? Lei era stata aggredita da dodici persone e un puma. Insomma, quel genere di persona.

    «Non è questo il punto!» farfuglio, all’improvviso infuriata. Non sono arrabbiata perché ci stiamo separando o perché ha scopato la mia amica. Non ce l’ho nemmeno con lui, in realtà. Sono arrabbiata con me stessa, per essermi lasciata ingabbiare in una comoda routine, e per aver sprecato due anni della mia vita in questo appartamento di merda con una persona di merda, sopportando amici di merda e facendo un lavoro di merda. Se avessi sentito di un’altra donna in questa situazione, che sudava sette camicie in una tavola calda unta per pagare tutte le bollette mentre il suo aspirante fidanzato musicista restava a casa a spendere i suoi soldi su Uber Eats e a guardare Netflix, cosa avrei pensato? Sì, non mentirò, l’avrei giudicata davvero male. E non so quale lezione dovrei aver imparato: se essere più assennata o meno stupida… ma, per ora, non ha molta importanza. Mi raddrizzo e alzo lo sguardo su Archie, che distoglie subito gli occhi da me.

    «Ho fatto il bucato in questo appartamento per due anni, Archie. Ho pagato tutte le spese. Ho cucinato…»

    «No, non è vero.» Mi interrompe, come se il suo ego non ne potesse più.

    «Che cosa?» chiedo, in quel momento sono abbastanza sicura di avere la stessa espressione di mia madre il giorno in cui le dissi che volevo dipingere la mia camera da letto di nero e ricoprirla di stelle fosforescenti. Riesco persino a sentire la mia mano sul fianco. Oh, Dio. Per favore, non farmi diventare come mia madre.

    «Pago le bollette dei nostri cellulari,» ribatte, quasi con aria di sfida.

    Lo squadro dall’alto in basso, incredula, e riesco quasi a vedere il suo ego fluttuare sopra di lui, come un grande pallone gonfio di aria calda e storie esagerate di successi che non sono mai arrivati.

    Socchiudo gli occhi e sento la mia rabbia trasformarsi sulla punta della lingua in uno spillo ardente che scaglio come una freccetta verso quel pallone troppo gonfio. «Tua madre paga i telefoni, Archie. Non è proprio la stessa cosa.»

    Si sgonfia insieme al suo ego e indietreggia fuori dalla stanza in un cupo silenzio. Sento la porta dell’appartamento aprirsi e chiudersi mentre tiro la cerniera dello zaino e lo trascino in salotto.

    Rimango lì, arrabbiata e calma, sollevata e ansiosa, a guardarmi intorno nell’appartamento e sento come se lo stessi davvero vedendo per la prima volta. La vernice scrostata nell’angolo del muro, che una volta sembrava la distaccata indifferenza di una futura rock star, adesso pare solo la negligenza di uno stronzo irresponsabile. Il mio cervello aveva considerato i miseri arredi come lo stretto necessario di cui ha bisogno un artista tormentato, ma ora li vede come le poche cose che un adolescente pigro e al verde è riuscito a mettere insieme prima che il suo momento di successo virale passasse e le royalties di YouTube si esaurissero.

    Sospiro, prendo il telefono dal tavolo e inizio a cercare i voli. Gli unici posti rimasti per oggi sono in business class e non posso permettermeli. Ma, allo stesso tempo, è impossibile che io resti qui.

    Come se fosse stato voluto dal destino, invece che da algoritmi invadenti, social media immorali e inserzionisti sociopatici, vedo l’annuncio di una compagnia di autobus a lunga percorrenza lampeggiare nell’angolo dello schermo del telefono. Lo apro per pura disperazione e inserisco i dati per vedere quanto mi costerebbe da qui a casa. Sono piacevolmente sorpresa del prezzo. Dice anche che è compreso un bagaglio gratuito da lasciare nel vano sotto l’autobus, che fortuna! E poi vedo che ci vorrebbero ventotto ore, con non meno di cinque fermate e due trasbordi, ciascuno da una a tre ore.

    Sento Archie nel corridoio fuori dalla porta. La sua voce si fa più forte, poi si affievolisce, si alza di nuovo e si affievolisce. Probabilmente sta camminando avanti e indietro.

    «Amber, dai,» esclama, nel tentativo di mantenere la voce bassa. Deve ignorare il modo in cui l’acustica fa rimbombare la sua voce nella stanza. Non c’è da stupirsi che sia un cantante così schifoso. «Solo… dobbiamo mettere un freno a questa cosa. Solo per ora. Fammi parlare con Robbie per convincerla a restare e poi…»

    Ah, penso tra me e me. Questa è la goccia che fa traboccare il vaso. Senza pensarci un attimo, il mio pollice cade sul pulsante con la scritta prenota sullo schermo. Viaggio in autobus attraverso il Paese, sto arrivando! Alla fine, potrebbe anche rivelarsi divertente. Meglio per me. Avrò tempo per pensare e riflettere, capire cosa farò in seguito e prepararmi all’espressione di mia madre quando mi presenterò a casa senza un anello o senza un Pulitzer. Non fraintendetemi, non è un genitore assillante o altro: sarà delusa per me, non da me. Ma, in realtà, non sono sicura che questo mi farà sentire meglio.

    «Ti richiamo,» sibila Archie mentre esco nel corridoio, china sotto il peso dello zaino.

    «Robbie, dai,» ripete, e io comincio davvero a stancarmi di quella frase. «Non andartene. Non così. Dai, possiamo risolvere tutto.»

    «Non c’è niente da risolvere,» esclamo, e lo spingo da parte mentre mi dirigo verso l’ascensore. «Da un anno a questa parte, siamo stati poco più che coinquilini, Archie,» dico, incapace di mostrare rabbia. «E cosa fanno i coinquilini? Pagano la loro quota delle bollette.»

    Immagino di averlo colpito nel vivo perché, mentre mi giro e premo il pulsante di chiamata dell’ascensore, esclama: «Ehi,» con voce tagliente.

    Vado verso di lui per affrontarlo di nuovo con un sopracciglio alzato e un’espressione interrogativa sul viso.

    «Il tuo cellulare,» dice, «mi serve.»

    Guardo lo schermo e poi una lenta consapevolezza si insinua dentro di me. La sento raccogliersi nel mio petto e mi esce dalla bocca come una risata. Archie la rockstar ha bisogno che gli restituisca il telefono perché è fatturato sulla bolletta della mamma. L’ascensore si apre dietro di me e gli lancio il cellulare senza pensarci due volte. Beh, provo a lanciarglielo, ma il mio zaino è davvero pesante e non riesco a stendere abbastanza il braccio, quindi l’apparecchio atterra con un leggero tonfo sul pavimento, a metà strada tra di noi. Un lancio incerto e deludente, proprio come la relazione da cui mi sto allontanando. Sento Archie che si affretta a prenderlo mentre mi giro ed entro nell’ascensore.

    È solo quando sono dentro che mi rendo conto che non c’è abbastanza spazio per voltarmi con lo zaino in spalla, e non riesco a raggiungere i pulsanti. La mia dignità, già martoriata dagli eventi del pomeriggio e dai passati due anni in cui è stata schiacciata da Archie, avvizzisce e muore. Esco, mi giro nel corridoio e poi rientro di nuovo, il tutto mentre Archie resta lì, scalzo e patetico, stringendo il cellulare di sua madre al petto.

    «Addio, Archie,» lo saluto, mentre le porte si chiudono fin troppo lentamente davanti a me. Faccio un lungo sospiro e premo il pulsante per scendere nell’atrio, confortata dal pensiero che almeno questa giornata non può peggiorare.

    L’autobus era in overbooking. Mai fidarsi degli inserzionisti. Sono i servitori del diavolo e che nessuno si permetta di smentirmi.

    Anche senza il biglietto elettronico sul mio cellulare, sono riuscita a convincere la biglietteria che ero davvero chi dicevo di essere e, nei quarantacinque minuti prima dell’arrivo di un altro autobus, sono quasi morta di freddo. Le cose non sono migliorate quando a bordo, dopo aver riposto il mio zaino nel vano sotto l’autobus (gratis!), contrariamente a quanto mi sarei aspettata, l’autista ha imboccato l’autostrada senza accendere il riscaldamento. Non mi ero resa conto di quanto dipendessi da un supercomputer connesso a Internet in tasca fino a quando, alla stazione degli autobus, non ho provato per almeno sette volte a tirare fuori il cellulare, per poi realizzare di non averne più uno. Tutto ciò solo dopo aver riposto (gratis!) lo zaino che conteneva il mio laptop nel vano dell’autobus, completamente inaccessibile per tutta la durata della prima tappa del viaggio. Quindi sarebbe stato un viaggio in autobus come ai vecchi tempi. Nessuna tecnologia. In pratica, come un Amish.

    Non che il mio portatile sarebbe stato molto utile, a giudicare dalla donna che continuava a passare lungo il corridoio per lamentarsi del WiFi che non funzionava con l’autista indifferente. Dal tono, e in qualche modo anche dalla sua pettinatura, sembrava il tipo di persona che passa molto tempo a chiedere di parlare con un responsabile. Non sapevo nemmeno che quel tipo di persona prendesse gli autobus. Ero convinta che chi usasse i mezzi pubblici fosse come l’uomo con il caschetto sale e pepe accanto a me, disinteressato alla mancanza di WiFi, forse perché aveva una stazione radio in testa che ripeteva sempre la stessa canzone, a giudicare da come iniziava a cantarne il ritornello dal nulla, ogni tre minuti. Non fraintendetemi, mi piacciono i Bon Jovi tanto quanto a lui, i cui genitori devono essere nati all’inizio degli anni Settanta, ma le stesse parole cantate a squarciagola in uno spazio ristretto iniziano a dare fastidio molto in fretta. E niente di tutto ciò sarebbe stato così grave, se il mio posto non fosse stato proprio accanto al gabinetto così che, ogni volta che qualcuno apriva la porta, le mie narici venivano assalite da una zaffata di urina stantia.

    Sono stata contenta di scendere alla prima sosta. Ma, dopo due ore passate in una stazione in cui avrebbero dovuto esserci molti servizi ma che, in realtà, conteneva solo un distributore automatico e un bagno che puzzava peggio di quello dell’autobus, stavo cominciando a pentirmi della decisione di lasciare Chicago così di fretta. Una volta risalita e sistemata accanto all’uomo con il caschetto, ho sentito il corpo irrigidirsi al primo woooah e ho realizzato che avevamo percorso meno della metà del tragitto. Ero già pronta a ipotecare più che volentieri la mia anima per salire su un aereo.

    Avevo ormai perso ogni speranza, quando siamo arrivati alla terza sosta del viaggio che sarebbe durata quattro ore e mezza. Ero a disagio, infastidita, annoiata, infreddolita e affamata. E, dopo sette ore di viaggio, mi trovavo a poco più di due ore da dove ero partita, se avessi viaggiato in macchina. Tre pacchetti di patatine e una barretta di cereali innaffiati con Mountain Dew non costituiscono un menu sostanzioso quindi, dopo essermi caricata il mio zaino gigante sulle spalle stanche, ho individuato un bar dall’altra parte della strada e mi ci sono precipitata, correndo nonostante i muscoli doloranti e le palpebre pesanti, senza nemmeno voltarmi a guardare i miei compagni di viaggio. A volte, è meglio non stabilire un contatto visivo con le persone che hanno condiviso il tuo stesso trauma.

    Entro nel locale e a quanto pare, la piccola caffetteria alla periferia di Dio solo sa che posto, è un diamante in mezzo al letame: me ne accorgo non appena faccio suonare il campanello, aprendo la porta. L’interno è caldo e invitante. Profuma di caffè tostato, forte e intenso, un netto miglioramento rispetto alla pipì e all’odore corporeo di persone che sono state su un autobus per dieci ore, ed è gestito da un’adorabile donna di nome Sandra. A vederla, sembrerebbe più che capace di trascinare fuori qualcuno per un orecchio, se decidesse di comportarsi male, ma pare che si stia impegnando a essere gentile con me.

    «Eccomi, cara,» dice Sandra, e mi mette davanti un piatto pieno di frittelle e salsiccia, insieme a una tazza di caffè fumante. «Ti ho fatto pagare solo un caffè normale, ma vieni pure da me, quando hai bisogno di riempire la tazza,» mi spiega e mi fa l’occhiolino.

    «Grazie mille.» Inizio a salivare in presenza di un vero pasto. «Sembra buonissimo.»

    «Non troverai pancake migliori in tutto lo Stato,» esclama Sandra. Un sorriso orgoglioso le illumina il viso paffuto e le fa brillare gli occhi blu.

    Il bar è vuoto a parte me, il mio zaino, e un veterano che è entrato poco dopo il mio arrivo e ha ordinato il solito. Con nient’altro da fare, Sandra decide di sedersi di fronte a me. Appoggia i gomiti sul tavolo, unisce le dita e mi fa un cenno di incoraggiamento per iniziare a mangiare, cosa che faccio, con gusto. Ha ragione. Questi devono essere i migliori pancake di qualunque sia la zona dove ci troviamo, e la mia fame non fa che renderli ancora più gustosi.

    «Oh, wow,» esclamo a bocca piena. «Sono fantastici.»

    «L’ultima infornata della giornata. Dopo le cinque serviamo solo caffè.»

    Uno sguardo all’orologio sul muro mi dice che le cinque sono già passate da dieci minuti, e apprezzo ancora di più Sandra per aver infranto le regole per me. La coincidenza non arriverà prima delle nove, quindi spero che mi permetta di aspettare fino ad allora.

    «Ti sei lasciata con qualcuno?» chiede lei.

    Smetto di masticare e la fisso con le sopracciglia inarcate e lei risponde con una risatina e fa cenno all’enorme zaino sulla sedia accanto a me.

    «Non puoi lavorare in un bar della stazione degli autobus senza imparare a riconoscere i segnali, sai? Una ragazza carina con un vecchio zaino grande.» Mi fa l’occhiolino, e dal ridere quasi mi soffoco con la salsiccia.

    «Non era l’amore della mia vita o altro,» racconto e sorseggio il caffè per aiutarmi a mandare giù la salsiccia. «Non è stata una grande perdita.»

    «Ah, bene, meglio così, allora. Dove sei diretta?»

    Mi fa domande personali con quella disinvoltura paesana tipica del posto da cui provengo, e che mi è mancata così tanto durante gli anni in città. Mi fa abbassare la guardia quasi immediatamente.

    «Nello Stato di New York,» spiego, «torno nella mia città natale per un po’… Per vedere la mia famiglia e capire cosa fare in futuro, immagino.»

    «Quello che hai detto è molto sensato.» I suoi occhi luccicano. «Quando avevo più o meno la tua età mi sono lasciata con un ragazzo e mi sono unita al circo.»

    La guardo a bocca aperta. «Non ci credo!»

    «Te lo giuro su Dio,» esclama, e continua a raccontarmi di come sia scappata per unirsi a un circo, e abbia viaggiato per tutto il Paese, prendendosi cura degli animali e godendosi lo strano e meraviglioso mix di persone che sono passate sotto il tendone.

    Mentre mangio, mi racconta di come poi si sia sistemata, con tre figli e sei nipoti, di come lei e il marito abbiano risparmiato per acquistare questo locale in franchising di fronte alla stazione degli autobus. Non indaga né fa ulteriori domande su come sia arrivata a sedermi nella sua caffetteria; invece, si perde nel raccontarmi della sua vita e, quando alla fine si alza, mugugnando al suono del campanello sopra la porta, getta alcune riviste sul tavolo.

    «Sono rivistacce, lo so,» mi sorride, «ma ti distoglieranno la mente dai guai.»

    Avevo pianificato di sfruttare la sosta di quattro ore per provare a scrivere qualcosa, ma prendo le riviste come un segnale e ne sfoglio una. E comunque, sono troppo esausta per scrivere. Quindi, inizio a leggere notizie su celebrità ribelli e storie di fantasmi nella vita reale, rapimenti alieni e teorie complottiste, finché non sento i miei occhi diventare sempre più pesanti. Mancano ancora più di quattro ore alla partenza dell’autobus, mi dico. Non ci vedo niente di male a farmi un pisolino.

    2

    MATT

    Volete che vi racconti un segreto? Essere un amministratore delegato miliardario può diventare noioso. Oh, so che dovrei essere grato di non dovermi preoccupare di lasciare le luci accese o di non trovare il cibo in tavola, e lo so perché non è sempre stato così, ma a volte la stessa routine, giorno dopo giorno, fare cose in cui sono esperto da tempo, può diventare noioso. Prevedibile. Amavo il brivido di inseguire un affare o trovare una nuova acquisizione con un bel potenziale, soprattutto se il proprietario era ostinato a non voler vendere, ma di recente è difficile essere così entusiasti di questa vita.

    Forse sto attraversando una crisi di mezza età. Può succedere a un ventinovenne? Magari è per questo che mi ritrovo in strada, da solo, alla guida di un’auto vecchia di otto anni con il cambio manuale. Sto scappando, il più lontano possibile dalla mia vita a Chicago, verso la casa di mio fratello nella piccola città di Meadow Hill, nello Stato di New York, dove si è trasferito appena finito il college e ha aperto un bar tutto suo. Certo, la città ospita anche una società che stiamo pensando di acquisire; una piccola compagnia di call center chiamata LON Customer Services che sembra essere la concorrente di una delle attività che abbiamo acquistato l’anno scorso. Quindi, eccomi qui, ad approfittare di una piccola, felice coincidenza per prendermi una pausa dalla città e visitare la mia famiglia.

    Chi mi licenzierà, se ci metto un po’ più del necessario per valutare questa azienda? Nessuno.

    Il mio socio potrebbe incazzarsi ma, alla fine, non può farci niente. E, se decidessi di vendere la mia metà dell’azienda, che è una possibilità concreta nel caso non riesca a mettere la testa a posto e a imparare ad amare di nuovo questo lavoro, allora forse la prenderà meglio se manco già da un paio di mesi.

    C’è qualcosa di bello nel viaggiare così, da persona qualunque, solo, senza autisti, guardie del corpo o assistenti che mi infastidiscono, è davvero liberatorio. E adoro guidare con il cambio manuale. C’è qualcosa nello spostare la leva da una marcia e inserirla in un’altra che mi fa sentire più connesso alla macchina. Non fraintendetemi, amo anche la mia Lamborghini, ma non è abbastanza anonima per una fuga in provincia dettata da una crisi di mezza età.

    Crazy di Gnarls Barkley suona alla radio e sento il mio umore farsi cupo. Non ho niente contro la canzone stessa, semplicemente… mi ricorda cose che preferirei dimenticare. Si dà il caso che fosse la canzone che suonava nel mio lettore MP3 al liceo quando Chad Martin – consiglio ai genitori: non chiamate vostro figlio Chad, non ho mai incontrato un Chad che non fosse un coglione – decise di spingermi la testa nel gabinetto e tirare lo sciacquone. Avere della musica che ti risuona nei timpani mentre fai fatica a respirare circondato da schizzi d’acqua di cesso può davvero arrivare a farti odiare quella canzone, sapete?

    Non preoccupatevi. Mi sono vendicato di quello stronzo durante il terzo anno, infilando delle sigarette nel suo zaino e dicendo al preside che l’avevo visto fumare. Il ragazzo è stato sospeso per due settimane.

    Sì, sì. Forse starete pensando che non sia proprio stata la dolce vendetta che vi aspettavate. O forse mi starete accusando di essere stato subdolo e che avrei dovuto prenderlo a calci in culo. Potreste avere ragione su quest’ultimo punto, soprattutto visto che avevo superato tutti gli altri ragazzi in altezza, una volta esploso lo sviluppo. Ma, a proposito di vendetta, vi ho già detto che era la settimana del ballo di fine anno? Beh, era proprio quella. E chi pensate che abbia consegnato un mazzo di fiori alla ragazza di quello stronzo di Chad la sera del ballo di fine anno, visto che era stato sospeso? Sì, avete indovinato.

    Quindi, ora sapete perché odio questa fottuta canzone.

    Premo il pulsante per passare alla stazione radio successiva. Un tizio di nome Alex sta parlando di un fronte di aria fredda in arrivo, quindi premo di nuovo il pulsante. Sento le prime battute di una vecchia canzone dei Metallica e mi riaccomodo sul sedile con un sorriso.

    Sono in viaggio da cinque ore senza caffè e comincio a sentirne la mancanza. Noto che il livello di benzina si sta abbassando quindi, appena vedo più avanti le luci di una piccola città, decido di uscire dall’autostrada per trovare un posto dove fare rifornimento. Vedo una stazione degli autobus a lunga percorrenza, un distributore, una caffetteria e nient’altro di interessante. Per fortuna, nonostante siano passate le nove di sera, la caffetteria è ancora aperta.

    Rallento per far uscire un autobus dalla stazione, poi fermo la macchina nel piccolo parcheggio lì vicino. Il posto è deserto, per fortuna perché, dimenticando la marcia inserita, faccio sussultare il motore e accompagno il tutto con una serie di imprecazioni che mi farebbero rinnegare anche da mia madre. Dopo aver raccolto il mio cellulare e la tazza di plastica riutilizzabile che mia cognata mi ha mandato per il compleanno, esco e… oh, sollievo paradisiaco.

    Non mi ero reso conto di quanto stessi stretto e rigido su quel sedile. La leva del cambio, premendo sulla mia gamba destra, l’ha compressa come la spirale di una molla. Rimango lì a stiracchiarmi e lamentarmi per un po’, poi mi appoggio alla macchina per sgranchire le ginocchia un paio di volte. L’aria è fresca, fin troppo per essere l’inizio di ottobre, e il mio respiro forma davanti a me una gigantesca nuvola ondeggiante che appanna l’angolo del finestrino dell’auto.

    Sento l’odore dei fumi di scarico della macchina e.… di caffè. La caffetteria ha uno di quei campanelli vecchio stile

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