Il rio racconta: Una storia del '600
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Anteprima del libro
Il rio racconta - Donatella Garitta Saracino
Saracino
Introduzione
La vita sempre più frenetica portò, col passare degli anni a dimenticare che, sotto il viale del mercato, scorreva un rio, chiamato Fellone che, un giorno, sconfisse chi si era illuso di poterlo domare: le piogge abbondanti e la poca cura dell’alveo, gli restituirono la forza e lui, prontamente, ne approfittò. In poche ore s’impossessò del frutto di anni di lavoro delle famiglie che abitavano lungo le sponde, celate dal catrame, e fece nuovamente sentire la propria voce: il viale del mercato in breve fu trasformato in un fiume che andava a sfociare nello spiazzo, largo e irregolare, dal quale poi le acque proseguivano il corso a cielo aperto. Furono necessari molti giorni di lavoro per riportare la vita del villaggio a un’apparente normalità: i primi soccorsi giunsero tempestivi, limitando così i danni. Le case inondate dalla furia del rio furono svuotate con le pompe e, dopo qualche settimana, la vita prese a scorrere quasi come prima.
Tutti erano indaffarati.
— Francesca, passami quei volumi, ho fatto spazio sullo scaffale, ora dovrebbero starci tutti.
— Che idea brillante la tua! Vieni, andiamo a riordinare l’archivio del Comune, ci servirà per dare l’esame di storia… e io cretina, che ti ho pure seguito e adesso eccomi qui, a spostare cartacce di cui non mi frega niente. Che rabbia!
La voce di Francesca aveva assunto, mentre parlava, un tono sempre più caustico, manifestando chiaramente la rabbia che provava. Stefano si avvicinò con cautela dicendo:
— Su, non fare così! Vieni, sediamoci. Sei stanca, è tutta la mattina che lavoriamo.
Riordinare l’archivio comunale del paese dove abitava Stefano era una buona occasione di ricerca per i due studenti di lettere. Nei giorni dell’alluvione i documenti e le carte antiche erano stati accatastati, alla meno peggio, sugli scaffali più alti, cercando di salvarli dai danni dell’acqua. Il desiderio di raccogliere il maggior numero di dati possibili aveva portato Francesca e Stefano a offrirsi volontari e a lavorare ininterrottamente per troppe ore.
Dopo un caffè e una rinfrescata alla toilette del bar vicino, tra i due giovani tornò il buon umore.
Stavano, piano piano, ricostruendo la storia del borgo. Avevano ritrovato l’atto di fondazione del paese risalente al 1263 e diversi documenti relativi a epoche precedenti e successive che testimoniavano i passaggi di proprietà di quello che sarebbe divenuto feudo dei conti Provana e, in seguito, proprietà del Regio Demanio a causa della morte del conte, senza che vi fossero eredi maschi.
Sfogliare gli antichi registri suscitava nei due giovani un fremito d’eccitazione: quei volumi erano antichissimi e ogni pagina conteneva una storia.
— Guarda Francesca, qui risulta che il quattro d’aprile del 1613 è nato uno che si chiama come me: Barbero. Chissà, magari è un mio antenato.
— Sì, figurati!… Forza, andiamo avanti, altrimenti l’esame lo diamo l’anno prossimo.
Primavera 1630
Alzandosi come fumo leggero, la bruma mattutina svelava il fresco verde dei prati e la luna, ormai pallida, lasciava posto alle prime luci del giorno.
Un viaggiatore solitario camminava sicuro e veloce lungo la via, facendo, di tanto in tanto, un passo più lungo per evitare gli accidenti del terreno; a ogni mossa la custodia di cuoio legata alla cintura ondeggiava, dando vita quasi a una danza. Il cuoio del fodero, ormai logoro, proteggeva la lama della roncola che Sebastiano negli ultimi mesi aveva usato sempre con maggiore abilità.
Stava tornando a casa dopo mesi e avrebbe dovuto essere felice, aveva in tasca quel po’ di denaro guadagnato abbattendo alberi in montagna per conto di mounsù ¹ Durando, uno dei signori di quel paese dove abitava con sua madre e lo zio prete. Presto li avrebbe riabbracciati e il disagio che sentiva addosso, lo avrebbe lasciato.
Eppure… era inquieto.
Aveva atteso con ansia quel giorno: ogni albero abbattuto, ogni tronco che, atterrando, sollevava un nugolo di polvere e foglie secche, avvicinava il ritorno a casa. La vita in montagna era dura e il freddo pungente lasciava profonde screpolature nelle giovani mani, presto incallite, maneggiando accette e segacci. La primavera aveva poi addolcito un po’ la temperatura e la neve, sciogliendosi, era andata a ingrossare i fiumi di cui la sua terra era particolarmente ricca, tanto da indurre gli abitanti del paese a costruire un canale per irrigare meglio i campi e governare le piene. Il canale, snodandosi per più di settecento trabucchi ², era il simbolo della tenacia dei paesani che, lottando caparbiamente, erano riusciti a ottener ragione sui paesi vicini, i quali, non vedendo di buon occhio la costruzione del Naviglio, avevano cercato in ogni modo di ostacolarne il passaggio sui loro territori; l’intervento del Duca aveva sciolto le contese e una parte di quella preziosa acqua era stata dirottata per irrigare la tenuta ducale che sorgeva a est del piccolo paese e che pareva uno smeraldo incastonato tra l’ambra rossastra dei campi arati.
Ormai da un’ora Sebastiano stava costeggiando le acque del Naviglio e intravedeva in lontananza le prime case del borgo ma più si avvicinava al villaggio, più cresceva l’apprensione.
Sciocchezze
pensò È la prima volta che manco da casa per tanto tempo. Appena vedrò il mio paese tutto passerà.
Una parte della mente, però, continuava a inseguire pensieri penosi. Avvicinandosi alla meta l’inquietudine aumentava e con essa il disagio. Che strano, è quasi estate eppure c’è tanto fumo, che cosa avranno da bruciare?!…
C’era nell’aria uno strano odore acre, non un volo d’uccello, per la via nessuno, eppure le case erano vicine.
Giunto alla piana dove il Naviglio e il Rio Fellone s’incrociavano, prendendo poi direzioni diverse, il presentimento che aveva provato si trasformò in certezza: vide un gran rogo ardere nell’ampio prato a lato del piccolo camposanto, cumuli di macerie fumanti al posto delle piccole case lungo la strada che portava alla chiesa; le persone vagavano senza meta, istupiditi. Il fumo avvolgeva ogni cosa e gli occhi di Sebastiano iniziarono a lacrimare; per proseguire fu costretto a proteggersi la bocca e il naso con il fazzoletto che portava annodato al collo. Gli sembrava di vivere un incubo: percorse la strada verso casa senza quasi accorgersene tanto era stordito. Si guardava attorno cercando il volto di sua madre ma incontrava solo sguardi vuoti, occhi pieni di lacrime e dolore.
Vide il fuoco divorare la sua casa e sentì la voce di qualcuno dire:
— Coraggio figliolo, coraggio. Abbiamo dovuto bruciare tutto: è l’unico modo per sconfiggere la peste.
Le parole gli giunsero fievoli e sconosciute.
— Dov’è la mia famiglia?
— Devi essere forte Sebastiano! Non si è salvato nessuno… Aspetta!… Dove vai?
Corse finch’ebbe fiato.
Cercò rifugio nel bosco che conosceva bene e che lo aveva accolto tante volte da bambino. Quando non ebbe più forza, esausto, si gettò ai piedi di una quercia e pianse, pianse sino a che si addormentò. Spaventosi incubi riempirono il sonno e si svegliò in un bagno di sudore, nonostante l’aria fredda gli pungesse la pelle e fosse ormai buio.
E adesso?
Che cosa poteva fare?
Aveva diciassette anni, era solo al mondo, aveva paura, rabbia, voglia di piangere, freddo e fame.
Inverno 1638
Avvolto in uno scuro mantello Sebastiano percorreva, con passo spedito, la via verso casa. Il freddo intenso non era fermato dagli abiti di lana pregiata e la nebbia aveva lentamente abbracciato la città rendendola cieca.
Improvvisamente, qualche passo avanti a lui, un lume rischiarò per un attimo le sagome di tre uomini, scortati da due guardie; poi, d’un colpo, la luce, così com’era venuta, scomparve e gli uomini scortati, scapparono. Uno, correndo, urtò Sebastiano che lo agguantò per le spalle e lo immobilizzò per i polsi, contro il muro.
— Chi sei? Perché fuggi?
— Sono… sono il conte Capris.
Sebastiano allentò la presa dicendo: — Seguitemi eccellenza, la mia casa è vicina.
Il conte Capris, con altri nobili della città, aveva tentato di riportare a Torino i duchi di Savoia ma la congiura era fallita perché il cardinale Richelieu aveva disseminato il ducato di spie per controllare e sottomettere madama Maria Cristina, reggente del duca Carlo Emanuele II di appena tre anni. Dopo la morte di Vittorio Amedeo I di Savoia, il popolo era diviso: da una parte i principisti che, con i Savoia al potere, volevano l’indipendenza del ducato e l’appoggio della Spagna; dall’altra i madamisti che, appoggiando madama Maria Cristina, sorella di Luigi XIII, avallavano l’alleanza con la Francia.
Sebastiano non esitò a ospitare il conte Capris nonostante il pericolo: essendo un fedele principista, voleva proteggere colui che aveva tentato di ristabilire l’ordine naturale della discendenza, cercando di riportare a Torino Tommaso di Savoia.
La parentela di Madama Reale col re di Francia, faceva temere per l’indipendenza del piccolo ducato; continuando sulla strada imboccata, presto sarebbero divenuti provinciali francesi e Sebastiano non aveva lottato contro la sorte per doversi sottomettere a un re che non era il suo.
*****
Erano passati otto anni dal giorno in cui era fuggito dal suo villaggio, assediato dalla peste: aveva fatto molta strada e nulla lo aveva fermato. Sovente riaffiorava il ricordo di quella notte disperata.
Svegliatosi alla frescura della sera, sconvolto per la perdita della famiglia e della casa, si ripromise di non arrendersi: il caso lo aveva salvato e lui voleva vivere. La boscaglia lo ospitò per la notte; mangiò bacche e radici e bevve l’acqua fresca del ruscello che lo aveva visto, bambino, giocare felice.
La notte fu interminabile.
I ricordi dell’infanzia si rincorrevano nella mente, chiari come mai prima d’allora. Molti anni prima, verso l’imbrunire, con gli altri bambini, nell’aia di casa, seguiva la nonna mentre, con gesti uguali e stanchi, spargeva le granaglie per i polli, e raccontava le favole del loro paese. Si diceva che nel bosco vicino al cimitero ci fossero le masche
: streghe con lunghi capelli, rossi come il fuoco, a contornare il volto sfigurato dalle rughe e dalle smorfie e gli artigli, al posto delle unghie, per agguantare chi avesse avuto l’arroganza di oltrepassare la siepe di rovi ai bordi del bosco. La nonna raccontava anche di un bambino disobbediente che aveva superato la siepe e nessuno, in paese, lo aveva più rivisto. A quel punto del racconto l’anziana donna si volgeva verso di loro, bambini ingenui con gli occhi sgranati, terrorizzati all’idea che il bambino disobbediente fosse finito nelle grinfie delle masche
: urlando e alzando le braccia, la nonna correva verso di lui e i suoi compagni e allora, finalmente, la paura lasciava il posto al gioco.
Il secco rumore di un ramo spezzato risuonò nel bosco come un colpo d’archibugio facendolo trasalire come succedeva in quei tramonti lontani, sull’aia di casa.
Ora, però, non aveva compagni!
La luna s’insinuava a malapena tra la vegetazione, … tutto era in penombra. Sebastiano non vedeva nessuno ma la sensazione che vicino a lui qualcuno ci fosse, era forte. Dapprima un brusio, poi un vociare concitato gli fece saltare il cuore in gola e, come un animale braccato, cercò rifugio fra i cespugli più folti.
Due uomini stavano discutendo animosamente.
— Sei un bastardo! Vuoi tenere tutto per te… se non mi dai subito quello che mi spetta ti uccido. Ne ho visti tanti morire, uno in più non cambia!
— Stupido! Terrò tutto io!
I due iniziarono a picchiarsi. I colpi sferrati dal più alto raggiunsero al volto l’uomo tracagnotto che aveva minacciato di ucciderlo. Fulmineo, il piccoletto estrasse un coltello dal fodero che portava sotto la camicia: la lama, illuminata dalla luna, trafisse il costato dell’avversario che cadde con un rantolo; l’agonia fu breve, il cuore cessò di battere, il sangue di scorrere.
Sebastiano, terrorizzato e stupito, non si mosse; non riusciva neppure a respirare, quasi soffocato dalla paura. Perché quell’uomo aveva ucciso il suo compare? Lo vide frugare nelle tasche e prendere dei sacchetti; capì, dal tintinnio che contenevano denaro. Allontanandosi l’uomo si guardò intorno, sospettoso, e allora Sebastiano vide, nel chiarore lunare, il ghigno cattivo del volto e gli occhi vividi, allucinati. Paralizzato da ciò che era successo non riusciva a pensare.
Attese.
Per qualche attimo sentì il rumore dei passi dell’uomo che si allontanava continuando a scrutare intorno. Poi tornò il silenzio.
Facendosi il segno della croce Sebastiano mosse qualche passo verso il cadavere ma un conato di vomito lo obbligò a piegarsi in due e a fermarsi. La carità cristiana, insegnatagli dalla madre, lo spingeva a scavare una fossa dove ricomporre il corpo dell’uomo sfortunato, dandogli una minima sepoltura. La vista ripugnante di tutto quel sangue e il timore del contagio lo inducevano invece a lasciarlo lì a decomporsi, facile preda d’animali e insetti.
Prevalsero gli insegnamenti materni.
Con la roncola che aveva legata alla cintura, tagliò un grosso ramo col quale iniziò a smuovere l’umido terreno vicino al cadavere e l’alba giunse mentre poneva una croce di rami di gaggia sul cumulo di terra.
L’odore dolciastro del sangue si era impossessato delle sue narici. Allontanandosi, recitò le preghiere che tante volte aveva detto ai funerali, chierichetto dello zio prete.
Andando verso il ruscello per lavarsi e bere vide il compare tracagnotto riverso nell’acqua, il viso contratto e sfigurato da una smorfia, gli occhi sbarrati nel vuoto: era morto bevendo l’acqua fresca del ruscello. Sebastiano non sapeva ancora che quell’uomo e il suo compare, ucciso poche ore prima, erano monatti: gente senza scrupoli, che non esitava a derubare case e cadaveri, convinta d’essere immune dalla maledizione della peste. Sovente la morte li coglieva proprio mentre, assetati, cercavano sollievo nell’acqua fresca.
Al grido di viva la morte
portavano i malati al lazzaretto, i moribondi e i cadaveri nelle fosse; bastava avere denaro per comprare i loro servigi e quei due erano riusciti a farne molti prima di morire. I sacchetti che Sebastiano vide nella bisaccia erano colmi di monete; trovò anche un pugno di gioielli e la vista di una corona del rosario lo fece trasalire: era quella di sua madre, i grani di legno li aveva intagliati lui, anni prima, guidato dall’esperta mano del padre, il crocifisso era d’argento, unico oggetto di valore della loro famiglia. Il magone gli strinse la gola, gli occhi si riempirono di lacrime; la rabbia s’impossessò di lui come la marea montante s’impossessa della spiaggia: quell’uomo, quel balordo, aveva profanato la sua casa, quelle mani avevano frugato il corpo esanime di sua madre per rubare.
La carità cristiana non prevalse.
Presa la bisaccia si allontanò, guardando diritto davanti a sé.
*****
Giunse vicino a Torino col sole ormai alto. Col tesoro trovato avrebbe iniziato una nuova vita; provava a immaginarsi in quella gran città sconosciuta, con abiti nuovi, buon cibo, amici… Riuscì a intrufolarsi in città confondendosi tra un gruppo di contadini che portava al mercato il frutto dei campi.
La delusione che provò fu immediata.
Disperato era fuggito dal suo paese, alla ricerca di un posto sicuro e giungeva in quella città disperatamente malata.
Per le strade cadaveri, monatti con carichi di morte si alternavano a superstiti che vagavano inebetiti tra mucchi d’immondizie; ladri rubavano e svaligiavano le case dei moribondi: tutti i sogni si erano infranti in un attimo. Ma ormai era lì ed era stanco di fuggire, di essere isolato e solo. Iniziò a vagare senza meta cercando… non sapeva nemmeno lui che cosa quando, all’improvviso, da una viuzza laterale arrivò una fiumana di gente urlante e inferocita che lo portò con sé nella piazza lì vicina.
Non capiva che cosa volessero quelle persone e cercò, smarrito, di rimanere in disparte, lontano dalla folla e, allo stesso tempo, di comprenderne le grida. Trovò rifugio sotto i portici dov’erano gruppetti di persone che parlavano tra loro. Senza avvicinarsi troppo riuscì a sentire qualche cosa:
— Pensa, non hanno trovato nemmeno un boia per impiccarlo.
— Una morte lenta e dolorosa si merita uno che unge la porta del palazzo per spargere la peste e far morire tutti!
— Lui deve morire; che invece di fare il suo lavoro di guardia spande il contagio.
Al centro della piazza v’era una catasta di legna e, tutt’intorno, un cordone d’alabardieri cercava di respingere la folla; all’arrivo del carro, questa si aprì per far passare il condannato coprendolo d’insulti. Dietro il carro, un gruppo di guardie armate d’archibugio. Dalla folla giungeva ormai un grido solo:
— Morte all’untore! Morte all’untore!
Sceso dal carro, Francesco Gigullier, guardia ducale, accusato di essere un untore, muoveva gli ultimi passi. Pregando, un frate lo sorreggeva, cercando di dargli conforto, illustrandogli le