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Anteprima del libro
Racconti - Vincenzo Carlini
Miracoli
Cuccù
Collepardo è un paese arroccato su una collina, nascosta da montagne impraticabili per molti mesi dell'anno e ha paura di farsi vedere.
Le case sono vecchie, calpestate dal tempo, una vicina all'altra, mattone su mattone quasi a proteggersi. Per raggiungerla si deve abbandonare la provinciale e percorrere una serie di curve da capogiro. Quando il tempo è nuvoloso nella cattiva stagione, le strade restano deserte e la pioggia percuote le vie, batte con violenza l'acciottolato. Fiumi d'acqua si riversano sul paese lavandolo, spazzando la polvere, le foglie secche staccatesi dagli alberi. Il vento fischia nei vicoli, dove il sole non batte mai, soffia sui cappelli che saltano in aria e fuggono tra i gradini di pietra con buffe capriole. Finito il temporale, si aprono gli usci, si spalancano le finestre. La gente si affaccia a vedere le nuvole allontanarsi minacciose, come la retroguardia di un esercito stanco e ubriaco.
I cani si tolgono l'acqua di dosso con movimenti rapidi, come avessero preso una scossa elettrica e annusano i bidoni della spazzatura.
Padre Adamo si è svegliato prima dell’alba quando gli alberi, fuori dalla sua finestra, sembrano neri come la pece. Toglie la borsa dell’acqua calda dal letto e lo poggia sulla seggiola di paglia. Si lava con una bacinella d’acqua che d’inverno riscalda un poco sul fuoco, per non far arrossire la pelle più del dovuto. E’ anziano, la sua pelle pare essersi prosciugata.
Nella cucina dalle mattonelle bianche e nere come una scacchiera, dalle pentole e tegami di rame attaccate alle pareti, beve il caffè scaldando le mani intorno al recipiente di metallo. Finisce di vestirsi in silenzio, i pantaloni sopra il pigiama di lana perché il freddo è duro e pesante come la pietra, s’infila il soprabito nero ed esce dalla casa, coprendo con una mano la gola.
Salta su sfoglie di strade asciutte, come se fosse tornato bambino e tornasse a fare il gioco della campana, evitando le pozzanghere che rimandano la sua immagine contorta e si reca in chiesa per la funzione. Anche le vecchie si affacciano dietro le tendine tirate, gli scuri di legno tenuti con una vite attaccata al vetro, si cercano con sguardi alterati dall’età, dalla luce che colpisce gli occhi deboli e stanchi. Si avviano in chiesa a piccoli passi guardando in terra, senza un cenno di saluto, con le vesti a svolazzare sopra le calze, le mani sugli scialli a chiudere la bocca. Gli uomini invece si preparano per andare al lavoro, chi per i campi, chi in attesa che passi la corriera per portarli nelle città, dove la gente possiede la macchina e nelle vie la luce elettrica illumina le strade.
Iniziano a fumare uno accanto all’altro per sentire meno il freddo, oppure accendono un mozzicone di sigaro che sparge il suo profumo acre e fa tossire.
Il campanile, di pietra bianca, manda i primi regolari rintocchi e servono per far alzare i ritardatari, quelli che si girano nel letto facendo finta che la giornata non sia iniziata. Gli uccelli sullo sfondo sembrano fermi, si lasciano crogiolare al timido sole. Padre Adamo arriva ai piedi del tabernacolo percorrendo tutta la navata laterale e ogni suo passo risuona nell’aria. A metà strada volge lo sguardo verso la statua di San Salvatore, il Santo del paese. Quando si gira verso i banchi di legno scuro, dopo il segno della croce, vede nella penombra le donne entrare. Raramente arrivano sotto l'altare ma preferiscono acquattarsi, silenziose, ai lati della navata. Alcune si mettono vicine e si guardano come se si vedessero per la prima volta, altre stanno da sole come se si vergognassero o non volessero spartire Nostro Signore con nessuno. Il prete, lungo e magro come un pioppo ha l'impressione di parlare al vuoto. Anche se fatica a vederli sa chi è nella sua casa e chi non è venuto. Ogni posto ha la sua storia, ogni inginocchiatoio il suo viso.
Vede i fedeli fermi, come disposti per un’imminente foto e se ne rammarica, alza le spalle sospirando, chiedendo aiuto con un sospiro ai santi che conosce meglio. Quante storie Padre Adamo ha conosciuto, quante lacrime, disperate imprecazioni e sorrisi il suo petto ha assorbito. Mariti che sono andati via nelle Americhe per fare fortuna e non sono più tornati abbandonando le famiglie.
Lasciano i figli in un posto e si affannano a concepirne ancora a chilometri di distanza, in una lingua che non sarà mai la loro.
Figli morti giovani, che un tempo bastava un niente per strapparli alle loro madri, febbri improvvise che nessuna medicina riesce a guarire, mentre loro continuano a piangerli per anni. Le donne del paese, una volta indossata la veste nera, non la abbandonano più. Il prete si volta un momento e, dietro il giovane chierichetto che lo guarda smarrito tirando su il naso gocciolante, un posto vacante gli ricorda la vita di Rosalina Bonfanti. Padre nostro che sei nei cieli, ed era una giovane donna che viveva in una casa dove i passi si perdevano nelle stanze e ci si cercava correndo sopra il mattonato, rosso come la brace.
In paese scherzando dicevano di non invidiare quella casa perché era troppo grande, ci voleva una vita per tenerla pulita. Era a due piani, con enormi stanze da letto e fuori, nel giardino, c’era una fontana che negli anni migliori non smetteva mai di far scorrere l’acqua, attraverso la bocca di un pesce.
Il padre di Rosalina era morto in un giorno di festa, dopo una malattia infinita.
La processione attraversava il paese nelle vie strette con i drappi legati fuori delle finestre. Tovaglie ricamate rosse e blue, le migliori, quelle che si usavano nelle giornate di festa, ricamate a mano, si tramandavano da generazioni.
Vecchie e consunte, erano esposte alla finestra come fossero reliquie, conservate in comò di legno vecchio con i manici di ferro fatti ad anello.
La banda suonava con trombe, fisarmoniche, grancassa e, nonostante le imposte chiuse, il rumore copriva il pianto sommesso dei parenti.
Prima passavano i bambini, chiassosi, disordinati, tenuti a stento a bada da fratelli e sorelle più grandi che li rincorrevano per farli stare in file ordinate, poi le donne anziane con ceri accesi, fazzoletti bianchi a coprire i capelli, lente litanie di preghiere che solo loro conoscevano e infine gli uomini che portavano a turno la statua della Madonna.
Il padre di Rosalina non era scomparso del tutto, lo testimoniava la freschezza della ragazza, i capelli lisci e neri come i suoi, il medesimo taglio degli occhi.
Era diventata famosa nella zona, bella come una principessa d'altri tempi.
Goffredo viveva a Collepardo, la conosceva da quando erano piccoli.
Strano destino abitare quasi porta a porta ma non frequentarsi per anni, quando era una bambina con le trecce che non sapeva giocare alla guerra.
Se le gridavi di nascosto, dal buio di un vicolo, scoppiava a piangere e correva dai genitori. Una ragazzina insignificante che non sapeva salire sugli alberi e ignorava l'arte di tirare di fionda ai passeri.
Ora i capelli le arrivavano alla schiena ed erano incantevoli.
Con Rosalina erano entrati in casa i giovani e avevano sostituito le amicizie dei genitori, persone anziane che non ridevano mai e parlavano a voce bassa dei loro acciacchi. I più assidui erano due ragazzi assai diversi tra loro ma uniti dallo