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Tresa. La decima figlia
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E-book383 pagine5 ore

Tresa. La decima figlia

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Info su questo ebook

Tu ascoltavi attentamente e se mi fermavo
un po’ mi dicevi:

“dai nonna, continua perchè
mi piace tanto”

Io continuavo a raccontare e tu nel dondolio
dell’amaca, nel dolce monotono mormorio
delle onde del mare, mentre il  vento tiepido 
ti accarezzava il viso, a volte ti addormentavi
felicemente e sognavi pascoli verdi, alberi tutti
colorati carichi di frutta e vaste distese di campi
ondeggianti di grano tutto indorato, lambiti
incessantemente da una brezza leggera del 
vento di tramontana.
Tutto questo era la “Gurfa”.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2022
ISBN9788830667525
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    Anteprima del libro

    Tresa. La decima figlia - Teresa Vallone

    Introduzione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: «Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere».

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi:

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi, ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei Santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i quattro volumi di Guerra e pace, e mi disse: «Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov».

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre, è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi, potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    A mia nipote Azzurra

    Poesia

    "Alia mi sembra un quadro pitturato,

    come un presepe nato per Poeti,

    un Paradiso tutto circondato

    di artistici vigneti,

    di verdeggianti uliveti,

    di smerlettati mandorleti,

    di vaste distese, di gialle Ginestre,

    dai fiori immensamente profumati."

    Il paese di Alia detto Laila - Alcuni cenni storici

    «Dai nonna Teresa raccontami di quando eri piccola e del paese di Alia dove sei nata tu».

    «Va bene Azzurra mi hai proprio convinta. Dopo tante tue insistenze, ora che sei un po’ più grande, ti racconto di me e di tutta la mia numerosa famiglia. Hai letto la bella poesia sul paese di Alia? La cantava, accompagnato dal suo organetto tutto colorato, un cantastorie che, tutti gli anni, veniva ad Alia per raccontarci episodi tragici di cronaca e di eventi storici che erano successi ad Alia o nei paesi vicini».

    «Che avvenimenti erano nonna?».

    «Erano tutte storie tragiche, Azzurra, ma che attiravano l’interesse e la curiosità di tutti noi bambini. Ti voglio raccontare una di queste storie».

    Chianci Palermo e Chianci Siracusa. A Carini c’è lu luttu ‘nta ogni casa.

    La baronessa Laura Lanza, a soli 14 anni, era stata costretta a sposare il barone di Carini, ma il suo matrimonio si rivelò molto infelice. Il marito era spesso assente e nei momenti di solitudine la baronessa cercò di consolarsi con la compagnia di un suo amico d’infanzia. Non è chiaro se fra i due nacque l’amore, certamente si sa che i due si frequentarono assiduamente. Tutti li consideravano amanti e per questo partì verso la coppia una spedizione punitiva: il padre uccise sia la figlia che l’amante con un colpo di spada. Ma dopo l’assassinio, il povero padre venne assalito da rimorso. Si rifugiò a Mussumeli per dimenticare quell’atroce delitto. Lo spirito della figlia cominciò a perseguitarlo. Si dice che, ancora adesso, in una determinata ora del giorno, la bella baronessa, appaia nel Castello di Carini alla ricerca del padre.

    «Triste questa storia vero Azzurra?».

    «Sì nonna la prossima volta me ne racconterai una a lieto fine. Promesso??».

    «Sì! Promesso!!».

    * * *

    È bene, Azzurra, che tu sappia che il territorio di Laila apparve registrato nei documenti fin dal lontano 1296. Si sa che, durante un lungo periodo, l’intero feudo passò da un casato all’altro fino a quando ne prese possesso nel 1366 un certo Rainaldo Crispo, un nobile oriundo, molto probabilmente dalla città di Pisa, i cui possedimenti si estendevano dai monti al mare, dalle terre di Laila alla tonnara e al Castello di San Nicolò. Tu Azzurra sei nata a Pisa e non ti sembra questa una strana coincidenza? Io tua nonna, nata nel paese di Laila e tu, mia nipote, nata a Pisa, città da dove proveniva il mio antichissimo antenato.

    Invece abbiamo notizie più precise dell’esistenza vera e propria del feudo di Laila fin dai primi anni del 1600, quando la Baronessa Francesca Cifuentes Imbarbara, proprietaria dell’intero feudo e vedova del famoso Barone e Marchese di Santa Croce, Pietro Celestri, fondò il Borgo che, in quel tempo, era denominato Lalia.

    Donna Francesca, ottenuta l’investitura della baronia di Laila pensò, dopo la concessione della Licentia Popolandi, di popolare il suo immenso feudo. Così, avendo tutte le carte in regola, promulgò il bando con cui offriva, a quanti maschi e femmine, provenienti dalle contrade vicine e lontane, di trasferirsi nelle terre del feudo di Laila. Offrì ai nuovi arrivati la casa, uno spezzone di terra da coltivare in proprio e altri terreni in enfiteusi o in gabella. Diede, inoltre, ampie zone per il pascolo e per procurarsi la legna, prestiti favorevoli per acquistare il bestiame e gli attrezzi da lavoro e mille altre agevolazioni. I primi bandi furono come voci nel deserto. Arrivò solo qualche straccione a cui fu ugualmente dato il benvenuto: non si presentò altra gente per essere iscritta nel primo registro del paese di Laila. Ci vollero anni prima che il luogo diventasse un paese vero e proprio e si popolasse. Per questo fine, nei primi tempi, vennero accolte anche persone poco raccomandabili.

    Il merito va all’energia di questa donna se il progetto di colonizzazione è stato portato avanti con tenacia mista ad orgoglio che, in alcune occasioni, solo le donne ed in particolare le vedove, forse in devoto rispetto alla memoria dei mariti, riuscivano ad imporre a sé e agli altri.

    Il primo agglomerato di case che donna Francesca fece costruire, attorno alle mura del suo Castello, venne denominato Rabatello, un termine di origine araba molto in uso nel ‘600, proprio per indicare le abitazioni costruite fuori della cinta muraria della residenza baronale, ossia il quartiere alto del paese di Laila. Questo è il quartiere dove io, tua nonna, sono nata e vissuta nei primi anni della mia vita.

    La nobildonna fece edificare una chiesa denominata Santa Maria delle Grazie e tante altre strutture necessarie alla comunità. Nei pressi del Castello e della Chiesa fece collocare una Croce di Pietra, in memoria del marito prematuramente scomparso. Io ricordo benissimo quella Croce perché, spesso, era il posto preferito per il gioco di noi bambini. Purtroppo il monumento, per discutibili motivi di instabilità, fu maldestramente demolito nel 1965 e sostituito con una Croce di altra pietra, magari più solida e più vistosa, ma di certo non più quella che ricordava una certa data e un certo periodo storico.

    Croce di pietra antica

    Quello della Baronessa era un immenso feudo, inizialmente gestito e controllato da questa donna forte che ha preteso tra l’altro che il marito, lei stessa e tutti gli eredi fossero sepolti, in perpetuo, proprio nella Cattedrale di Santa Maria delle Grazie, a cui lei era molto devota.

    Risale a quel periodo l’inizio della costruzione della Chiesa di Sant’Anna e quella di San Giuseppe, costruzioni che si protrassero per tantissimi anni perché l’Amministrazione era sempre a corto di fondi necessari per la loro definitiva ultimazione.

    A queste Chiese si aggiunse una piccola rustica cappella dedicata a Santa Rosalia, sembra edificata da tutti i contadini che popolavano il feudo di Laila, dopo la terribile peste del 1624, come segno di ringraziamento alla santa siciliana per aver fatto cessare l’epidemia. Questa cappelletta è stata, in seguito, gravemente danneggiata da una brutta frana. Per questo, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, per iniziativa dell’aliese, Dr Gioacchino Guccione, e con il generoso contributo dei primi numerosi emigrati in America, fu fatta costruire, nello stesso luogo, una Chiesa, a forma ottagonale, che finalmente riuscì a soddisfare le esigenze di culto dei molti devoti di Santa Rosalia detta la Santuzza.

    Chiesa di Santa Rosalia

    Venne fondato così uno dei tanti paesi rurali nati come centri di colonizzazione baronale in un vasto territorio spopolato e incolto. Per tua opportuna conoscenza, Azzurra, devi sapere che gli arabi che governarono in Sicilia per un lungo periodo, al contrario dei Baroni, mai avrebbero scelto un luogo così improduttivo e così impraticabile per costruire un loro centro abitativo. Infatti essi andavano sempre alla ricerca di zone ricche di acqua, fertili e possibilmente riparate dal vento e dal freddo: la Gurfa era un classico esempio delle loro preferenze.

    Ma ecco come venivano scandite le giornate dei sudditi del grande feudo di donna Francesca: era il suono delle campane che, con tocchi diversi o variamente intervallati, segnava le ore di maggiore interesse ai fini del lavoro e di impegni civici.

    Un’ora prima dell’alba la campana del castello suonava il mattutino. La Baronessa dava facoltà di uscire di casa, senza incorrere a sanzioni varie. All’alba altri rintocchi si diffondevano nelle case e nelle strade. Erano le campane della Chiesa Santa Maria delle Grazie che annunciavano il paternoster: era la chiamata alla prima messa. Al sorgere del Sole quando la giornata entrava nel pieno ritmo suonava il Salve Regina. Tutti riprendevano, tranne ammalati e bambini, i lavori interrotti il giorno precedente. Ma chi andava a lavorare nei campi, si trovava sul posto da più di due ore, da poco prima dell’alba, per rimanervi solitamente sino a dopo il tramonto. A tale proposito si era soliti dire tra i jurnatara (tutti quelli che lavoravano alla giornata) che essi lavoravano da stidda a stidda, cioè dall’ultima stella della notte che scompariva all’alba, alla prima stella della sera che compariva subito dopo il tramonto. Ti accorgerai, Azzurra, che alcune di queste abitudini sono rimaste radicate e praticate fino ai tempi più recenti.

    In molte contrade delle campagne nacquero le Masserie, dove lavoravano i mezzadri e i braccianti. Erano costruzioni massicce, isolate, in quanto comprendevano un feudo vastissimo. Le Masserie erano dirette dal Massaro che doveva preoccuparsi dell’amministrazione e del buon funzionamento dell’intero feudo. Vicino alle Masserie spesso sorgevano le ville dei nobili proprietari dei feudi. Con il passare degli anni, il feudo verrà sempre più suddiviso fra tutti gli eredi che si erano susseguiti nel tempo. Alcuni di loro, non avendo alcun interesse, decisero di dare in enfiteusi le loro quote ai notabili del luogo che continuarono a far coltivare i terreni a braccianti o, in alternativa, li davano in affitto a piccoli coltivatori diretti. Tutti i contadini lavoravano, per lunghissimi periodi, con passione e amore, quei terreni come fossero di loro proprietà e infatti spesso se li tramandavano da padre in figlio. Purtroppo i braccianti non venivano ricompensati con soldi bensì con un po’ di grano, con uova, qualche pollo durante le feste comandate, con un tozzo di pane, quindi vivevano sempre in miseria.

    Il Borgo Laila, nei tempi successivi, quando diventò un paese vero e proprio, venne denominato in una forma più semplice, cioè Alia. Per anni Alia è stato un paese dedito prettamente all’agricoltura. Solo in un secondo tempo si svilupparono gli allevamenti di bestiame e specialmente cominciarono a riempirsi le stalle di bovini, muli e cavalli che servivano per il trasporto, per la lavorazione del terreno e per la macellazione. In seguito si svilupparono gli allevamenti di ovini, suini, caprini e di polli. Ogni agricoltore produceva discrete quantità di latte, di formaggi di lane che servivano non solo per confezionare caldi abbigliamenti ma anche per fare i materassi dove dormire comodamente e al caldo d’inverno, anche se la maggior parte di questi beni doveva essere consegnata ai nobili o ai proprietari borghesi di turno e solo una piccola parte restava nelle misere dimore dei poveri residenti.

    In molti appezzamenti di terreno i contadini, non avendo la possibilità di fabbricarsi una casa, costruivano un rifugio, fatto di terra e di paglia, il cosiddetto pagliaio dove, specialmente durante l’inverno, vivevano insieme ai loro animali. Il paese era situato a 750 metri sul livello del mare, quindi gli inverni erano a volte molto rigidi.

    Col passare degli anni non esisteva più un pezzetto di terreno che non fosse coltivato. I luoghi si immergevano in uno scenario fatto da mille colori, incantevole e naturale. Si potevano ammirare, nelle diverse contrade delle campagne ancora rimaste a conduzione feudale, delle belle residenze estive per i proprietari, immense ville per Nobili: Marchesi, Conti, Duchi, Principi e Cavalieri, rampolli e discendenti della Baronessa Francesca Cifuentes Imbarbara che però ormai vivevano tutti nelle città e soggiornavano nelle loro ville del territorio aliese solo per brevi periodi. Io stessa, mia cara Azzurra, ricordo quando d’estate questi Nobili arrivavano ad Alia, attraversavano le strade a cavallo in tenuta da cavallerizzi: erano sia i giovani che gli adulti, bellissimi, con gli occhi azzurri e i capelli biondissimi. A noi bambini vederli passare, tutti in fila uno dietro l’altro, sui loro nutriti e ben strigliati cavalli che, con i loro zoccoli ferrati, provocavano una divertente musica, sembrava di vedere uno spettacolo e di assistere al set di un film.

    Erano quasi tutti contadini gli aliesi di allora, operosi e instancabili. In paese, ogni giorno, alle tre del mattino era tutto un calpestio di zoccoli di muli e di cavalli che trasportavano gli agricoltori verso le terre da coltivare che a volte distavano dal paese anche da tre-quattro ore di cavalcata. Chi poi non possedeva né muli, né asini, né cavalli, era costretto ad andare a piedi. Ma credimi Azzurra, tutti questi rumori e tutti questi movimenti erano musica per chi aveva la fortuna di restare a casa a sonnecchiare. Tanto per dovere di cronaca, nel 1847, quindi dopo diversi secoli, di quello che era rimasto della proprietà dei Marchesi di Santa Croce, che avevano avuto come ultima erede Donna Marina Celestri Gravina, tutto era passato, per diritto di successione, a Romualdo Trigona dei Principi di Sant’Elia. Ma questi nuovi proprietari assegnarono tutti i loro beni in enfiteusi alla famiglia Guccione, considerando più opportuno starsene in città e limitarsi a incassare i canoni relativi alle loro proprietà.

    La famiglia Guccione, antica stirpe proveniente dalla tua Toscana, senza privare dei dovuti riguardi i Principi di Sant’Elia, cominciò a svolgere il ruolo di nuovi signorotti del paese consapevoli che più della metà dell’economia agricola e del lavoro locale era condizionata da loro. La famiglia Guccione ebbe un fortissimo predominio nel paese di Alia fino e oltre la metà del XX secolo.

    * * *

    Palazzo Guccione

    Ma ritorniamo alla storia antica. Soltanto intorno al 1860, accanto ai contadini cominciarono a comparire i primi artigiani: muratori, fabbri, calzolai, falegnami, barbieri, sarti, bottai, bottegai. La sorte di costoro era fortemente legata a quella dei borghesi e dei contadini che a loro volta dipendevano dalla fecondità o meno dell’annata.

    La popolazione aumentava, anno dopo anno, ogni famiglia era composta da 12-15 persone tra nonni, padri, madri, figli, e nipoti tutti nella stessa casa, dove spesso coabitavano con gli animali che possedevano, tutti elementi da sfamare. Spesso c’era anche il maltempo che complicava la vita. L’intero raccolto distrutto e la miseria, per l’intera famiglia, assicurata. Per questo quando, alla fine del XIX secolo e l’inizio del XX, gli Italiani cominciarono ad emigrare verso l’America, molti aliesi, pur non essendosi mai allontanati dalla propria terra, anche loro con le loro famiglie si imbarcarono su navi sgangherate diretti verso la terra promessa in cerca di fortuna. Pensa Azzurra che per arrivare in America impiegavano anche mesi ed erano fortunati se, alla fine, giungevano sani e salvi a destinazione. Furono più di 130.000 i siciliani che, in quel periodo, partirono diretti verso l’America e il resto di Europa.

    Il paese ha visto un’altra grossa ondata di emigrazione durante gli anni tra il 1950 e il 1960. Moltissimi giovani, senza alcuna prospettiva di lavoro, partirono numerosissimi diretti verso le città del Nord Italia o verso la Svizzera, la Germania e altre nazioni. Le terre vennero abbandonate, rimasero in paese solo le persone anziane decise a morire tra le loro tradizioni, là dove erano nate. Fra questi ultimi emigrati c’ero io e parte dei miei numerosi fratelli che, un po’ per volta, partimmo verso la grande metropoli, la mitica città di Milano. Così, mia cara Azzurra, successe che i vastissimi feudi aristocratici che alimentarono, per secoli, le rendite dei nobili e poi dei borghesi a loro succeduti, rimasero completamente abbandonati, la stessa cosa accadde sia alle piccole che alle grandi fattorie, insomma tutto è stato lasciato al suo destino inesorabilmente abbandonato.

    Il paese di Alia, che ha raggiunto una popolazione anche di 8.000 abitanti, verso gli anni ’50 si spopolò talmente e ridursi a 3.000 residenti. In quell’ultimo periodo più di 570.000 siciliani spopolarono l’isola per emigrare in cerca di fortuna e di un lavoro qualsiasi. Ti sei fatta un’idea Azzurra?

    Oggi in diverse bellissime masserie, in buono stato di conservazione e restaurate, si pratica l’agriturismo che coniuga la possibilità di soggiornare in campagna con l’organizzazione di eventi e in special modo con la degustazione di prodotti locali, ma soprattutto per respirare l’aria salubre e incontaminata delle campagne che risana persino gli ammalati.

    Infatti tutto il territorio aliese è uno dei più sani dal punto di vista dell’ambiente e offre interessanti spunti a chi desidera approfondire il contatto con la natura. Solo nel periodo estivo Alia torna ad animarsi quando i suoi figli emigranti tornano nel luogo natio per trascorrere le meritate vacanze in compagnia dei loro vecchi rimasti in paese. Ora il paese di Alia è denominato Paese Albergo perché le famiglie hanno aperto le loro case ai turisti proprio per quell’innata ospitalità sita nei cuori di tutti gli aliesi e dei siciliani in genere. Inoltre è stato denominato anche Città Giardino per il fiorire nei giardini, nelle strade, sulle finestre e sui balconi di mille fiori diversi tutti colorati, in un trionfo di gusto scenografico particolare e raro che rende il paese molto accogliente e alquanto gradevole. Ti sembrerà strano ma ancora oggi è facile imbattersi in alcune contrade delle campagne del paese di Alia, in veri e propri quadri di vita quotidiana che riportano alla mente scene di vita di una Sicilia che ormai non esiste più ma che alcuni contadini, legati alla tradizione, continuano a preservare per tramandare gli antichi usi e le vecchie abitudini alle future generazioni.

    Verso l’America, 1902

    Verso il Nord Italia, 1950

    LA DECIMA FIGLIA

    Sì, Azzurra, la decima figlia della mia numerosissima famiglia ero proprio io. L’ultima dopo la nascita di nove figli. Avevo tantissimi nomignoli che mi avevano appioppato i miei fratelli; mi chiamavano la picciridda (la piccolina) e portai questo nomignolo fino ad età avanzata, mi chiamavano la mitatedda (piccola unità di misura che serviva per misurare i cereali o la farina) e poi ancora cacaniri (caganidi). Mio padre mi chiamava Tresa e non so se lo faceva per vezzeggiarmi o per tenerezza o per abbreviare il mio nome. Io so solo una cosa, che mi arrabbiavo moltissimo, quel nome Tresa non mi piaceva proprio. Ora invece ti dico che mi sembra un nome originale e simpatico.

    Devo confessarti che io ero la cocca di mamma, lei, mamà Rosina era sempre pronta a difendermi dai miei fratelli e dalle mie sorelle più grandi anche se spesso ero proprio io, la birbantella, che combinava le marachelle. Quando sono nata io, mamà Rosina aveva più di 45 anni mentre papà Salvatore aveva più di 55 anni e se chiedevano loro come mai avessero tutti quei figli, rispondevano così candidamente: «Il Signore ce li ha mandati e noi ce li teniamo». Qui sicuramente c’era lo zampino dei preti di allora che predicavano, come del resto fanno i preti di adesso (ma ora con esiti molto scarsi) che il matrimonio oltre ad essere indissolubile era fondato sul principio solo ed esclusivamente del fine della procreazione. A nulla serviva ai preti sentire, attraverso la confessione, la disperazione di tanti genitori che non erano in grado di mantenere la numerosa prole. Eppure anche allora c’era un sistema facile, molto facile che permetteva di evitare alle donne di restare incinte. Esistevano molti sistemi anticoncezionali e altri metodi dei quali facevano largo uso i nobili, i ricchi e le persone molto istruite. Vale la pena ricordare, a questo proposito, la famosa enciclica Humanae Vitae, emanata da papa Paolo VI nel 1968, che dettava e detta nei tempi attuali, la dottrina relativa all’atto sessuale nel matrimonio legandolo strettamente alla riproduzione e negando così qualsiasi tipo di contraccezione persino nei casi limiti. Come sai, Azzurra, negli anni tutti questi dettami sono stati molto elusi dai cattolici che, per quando riguarda il numero dei figli, si sono adeguati ai tempi del nuovo sistema di vita moderna. Soprattutto, col tempo, le coppie di sposi hanno preso man mano coscienza per cui decidevano di avere figli solo se poi riuscivano a mantenerli e a dare loro una vita sana e dignitosa. In Italia, contrariamente a quello che la Chiesa asseriva e asserisce ancora adesso, furono emanate dal Governo italiano leggi importanti sull’aborto ed in seguito anche sul divorzio appunto per evitare situazioni tragiche e per interrompere matrimoni impossibili.

    Dopo la Prima Guerra Mondiale e con l’avvento dell’era fascista, oltre ai preti, c’era anche l’istigazione a proliferare da parte del Duce Benito Mussolini: La Patria ha bisogno di voi e soprattutto dei vostri numerosi figli incitava il Duce dal balcone di Piazza Venezia a Roma e spesso anche attraverso la Radio. Io sono nata nel 1939, anno in cui fu eletto Papa il Cardinale Eugenio Pacelli, col nome di Pio XII del quale sentirai parlare, durante il corso dei tuoi studi, per i suoi atteggiamenti, sembra molto controversi e per altre importanti motivazioni. Nello stesso anno della mia nascita iniziava una bruttissima e lunghissima guerra: la Seconda Guerra Mondiale. Quindi ti puoi immaginare quanti migliaia di figli sono serviti in quell’immane tragedia che è stata la Guerra tra l’Italia alleata con la Germania contro il mondo intero.

    In Italia tutte le famiglie crescevano a dismisura anche perché allettate da piccoli incentivi, offerti dal Duce per ogni nuovo nato. Fra queste famiglie c’era anche la mia. Da un lato arrivava l’incentivo per ogni figlio che nasceva, dall’altro lato, a fine estate, arrivavano a casa mia degli esattori che prelevavano tutto il grano da destinare all’ammasso e lasciavano nei granai quello che sarebbe servito per la semina dell’anno successivo e la minima quantità perché l’intera famiglia sopravvivesse. Tutte le volte mamà Rosina piangeva: «Togliete il pane dalla bocca a tutti i miei figli, ma non vedete quanti siamo?». A nulla serviva nascondere il grano nei posti più impensati, loro perquisivano tutta la casa e alla fine trovavano anche il grano nascosto. Vuoi sapere Azzurra cosa era l’ammasso? Durante la Seconda Guerra Mondiale, il Duce Benito Mussolini emanò la legge per cui era obbligatorio trasferire, con prezzi irrisori, parte della produzione di cereali e di altri prodotti allo Stato che provvedeva ad effettuare una equa distribuzione alla popolazione che era sprovvista di tutto. Chiunque si sottraeva a questo obbligo era punito severamente.

    * * *

    Dopo questa lunga pagina di storia voglio presentarti la mia grande famiglia: i miei fratelli e le mie sorelle. Mentre io emettevo i primi vagiti, mia sorella Maria, detta Maricchia, che era la primogenita, era incinta di una bambina. Dopo di lei c’era mia sorella Tanina che, prima che io nascessi, già aveva due figlie: Pina e Rosetta. Seguiva a breve distanza Rosolino, il principino della famiglia: primogenito maschio, vanitoso, elegante, sempre imbrillantato e con pochissima voglia di andare in campagna ad occuparsi della terra e del bestiame. Era uno che girava in paese in camicia giacca e cravatta, indossava il cappello alla Borsalino, era di bell’aspetto e tutte le ragazze lo filavano. Poi a seguito c’era Peppino, che a causa di una malattia, in quel tempo non curabile, era morto all’età di tre anni. Mamà Rosina lo ricordava sempre a tutti noi con molto rammarico. A distanza di un paio di anni seguiva la bella Concettina, formosa, sorridente, manesca e sempre in continuo conflitto con la sua successiva Assunta dagli occhi e dai capelli chiari, mani da brava ricamatrice ma sempre un po’ svanitella, insomma con la testa fra le nuvole. Dopo pochi anni la famiglia veniva allietata

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