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Il respiro di Annibale
Il respiro di Annibale
Il respiro di Annibale
E-book185 pagine2 ore

Il respiro di Annibale

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Info su questo ebook

"Ho scritto questo romanzo spinta dal desiderio di esprimere la mia fantasia e dall'amore verso i luoghi, ancora intatti, dell'appennino umbro-marchigiano. In queste realtà, i nonni tramandano ai nipoti leggende legate al passaggio di Annibale dopo la Battaglia del Trasimeno, suffragandole con riferimenti tanto specifici da renderle reali.




Sulle tracce del condottiero cartaginese Annibale, l'avvocatessa Giulia, affascinata dalla storia e dal passato dei suoi luoghi natii, incontra Raul, professore universitario e archeologo. Durante la loro appassionata ricerca scopriranno, non soltanto una certa affinità caratteriale, ma anche un mistero sepolto da decenni: oltre ad Annibale, da quei tornanti è passato un altro grande capo della Chiesa. Tutto intorno, i colori del paese: il suo dialetto, i soprannomi, le dicerie, i pettegolezzi che rendono i piccoli agglomerati del centro Italia ancora "vivi". Tra le pagine di questo breve romanzo, è altresì inserita una personale rivisitazione della Battaglia del Trasimeno."
LinguaItaliano
Data di uscita25 feb 2014
ISBN9788868850050
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    Anteprima del libro

    Il respiro di Annibale - Martina Cecchinato

    Hollande.

    CAPITOLO I

    A maggio l’altopiano di Collefiorito è uno splendido mosaico di appezzamenti dalle sfumature verdeoro, che ondeggiano bizzarre lungo il profilo morbido dell’infinito. Nel mese di agosto poi il sole matura i colori e scalda i toni dei riflessi platino e madreperla.

    Giulia è cresciuta ai margini di queste terre, dove la strada compie una doppia esse e continua sinuosa tra i palazzetti in pietra viva fin su al Castello. Al numero settantadue di Corso Leopardi, sua madre l’aveva data alla luce in un rigido mattino di aprile, assistita da due amiche ostetriche pronte a farla partorire alla vecchia maniera – un privilegio concesso ormai a poche elette – anziché nel nuovo attrezzato ospedale. Alcuni civici più a monte, all’epoca del parto, Fabio, ribattezzato l’Orsetto, aveva appena festeggiato i suoi primi quattro anni. Poiché è vizio di paese affibbiare a ogni cristiano semovente un debito soprannome, quel tenero vezzeggiativo Fabio se l’era aggiudicato grazie alle gote prominenti da criceto in stile Botero. Così, quell’anno, la compagnia di scellerati adolescenti contava, tra gli altri: uno Scannagrilli, un Lupetto, una Cinciallegra e uno Sgattò, per l’incedere felino. Tutti nomignoli legati nel bene e nel male alle salienti peculiarità di chi le possedeva.

    Quasi trent’anni dopo Giulia e Fabio costituivano ancora una delle tante coppie radicate nel territorio, vuoi per casualità vuoi per determinazione, e mettendo in rete muscoli e cervello collaboravano all’organizzazione delle imminenti feste medievali che avrebbero richiamato paesani e forestieri per l’estate alle porte. I pannelli esposti dalla Pro Loco erano tempestati di volantini informativi sui vari appuntamenti: incalzavano il Celtic Festival di Roccalago; la provvidenziale sagra degli Stringozzi e quella del tartufo bianco di Acquapendente, per gli avventori di nicchia; il palio dei terzieri; il gettonatissimo raduno delle Cinquecento storiche, e ancora molti altri. Una ragazza riccioluta, appostata dietro il bancone, rispondeva al cellulare e con la mano libera distribuiva bigliettini di agriturismi e ristoranti; un’abilità, la sua, messa a dura prova da un terno di teutoniche madame tedesche che, scese lestamente da un pullman gran turismo per conquistare con urgenza la toilette, reclamarono attenzione mulinando in aria le braccia sudaticce a discapito degli astanti. Altrove intanto, le paesane preparavano con cura pizzi e ricami da esporre ai mercatini come opere d’ingegno, trascorrendo laboriosi pomeriggi in casa dell’una o dell’altra chine sui telai. Se il tepore lo concedeva, adagiavano gli augustei lombi su panche di castagno, davanti l’uscio, discutendo, tra un punto a giorno e uno a gigliuccio, degli eventi mondani apparsi nei tg; esaurito il palinsesto, spostavano la loro attenzione sulle famiglie del paese, civico dopo civico, frazioni incluse, fino all’essiccazione delle ghiandole salivari. Le signore facevano ovviamente ben attenzione a non sciorinare i fatti del proprio casato, che erano già oggetto di sproloquio nel salotto di fronte. Pareva sgranassero un rosario, tanto era fitta la preghiera, ma la litania non era certo il Padre Nostro. A fine dibattito ciascuna faceva ritorno al focolare, con un pizzo fresco di ricamo tra le dita e la testa ancora piena di cicaleccio. Del resto, se la neve dei lunghi inverni sull’Appennino tempra queste genti nel corpo e nell’anima, si pregia pure di preservarne intatta la vena ironica, che scalda il desco anche quando il termometro precipita sotto lo zero.

    Giulia non amava assecondare la madre in simili leziosità. Aveva speso l’adolescenza impegnando con profitto ogni giornata e dopo la laurea in Legge era stata assunta nello studio associato più prestigioso di Castelforte, una cittadina universitaria a dieci chilometri dal paese, ove da tempo si occupava di ordinarie beghe legali. Tuttavia, seppur inconsciamente, il vero interesse di Giulia restava la storia della sua terra, delle sue origini, qualcosa di ancestrale che la distoglieva spesso dai testi di Diritto e la induceva a trascorrere interi pomeriggi nel piccolo museo paleontologico del paese, diretto dalla vecchia compagna di giochi, castana e segaligna, Anna. Una specie di Olivia dal cuore grande, segnata a dito per la peccaminosa abitudine di cambiare a ogni piè sospinto il suo Braccio di Ferro. Le leggende che Giulia aveva sentito dagli anziani del paese venivano raccontate con una tale convinzione e dovizia di dettagli che più di qualche sera si era gettata supina sul letto pensando e ripensando a quei racconti irresistibili. Nonno Adelmo, ad esempio, il padre di sua madre, era visceralmente convinto che Annibale fosse passato di lì, perché così gli aveva detto suo nonno, e prima di lui il nonno di suo nonno, in una catena a ritroso lunga venti secoli.

    La cantoniera dove Giulia abitava con il fratello Rudy – Rodolfo all’anagrafe – e tutta la sua famiglia era una bella casa rossa e rettangolare, come ce ne sono tante lungo la Statale 77. Da alcune generazioni l’occupazione degli alloggi si tramandava con fierezza di padre in figlio, tutti rigorosamente cantonieri. La tradizione era stata perpetuata dallo zio Venanzo, il fratello della madre di Giulia. Un tempo, quando non tutto era così automatizzato, quella postazione d’emergenza aveva ricoperto un ruolo fondamentale per la montagna e per i suoi abitanti, poiché da lì, puntuale ed efficiente, partiva il soccorso dell’Anas. Adelmo, il nonno di Giulia, da quelle larghe finestre aveva vegliato la montagna in estate e in inverno e troppo spesso lo erano venuti a cercare per ripescare qualche sventurato dalla scarpata o per riaprire la via a una piccola frazione tagliata fuori da una nevicata più abbondante delle altre.

    Un mattino, mentre ancora sonnecchiante raccoglieva i capelli in una coda di cavallo, Giulia ebbe la netta sensazione di udire un rumore di ferraglia provenire dal basso: avrebbe giurato si trattasse di carri trainati da bestie e passi pesanti di gente in marcia. Si affacciò al balcone che dava sul corso principale, ma non vide nulla; passò sull’altro, ma anche lì tutto taceva. Era un giovedì uguale a tanti altri e lei, come ogni giovedì del mese, doveva arrivare puntuale in studio alle otto e trenta. Scese le scale, si chiuse il portoncino di legno alle spalle e si diresse verso il retro della casa per infilarsi nella sua grintosa mini Cooper. Giulia dimenticò quei rumori confusi, come di soldati in cammino, ignara del tiro mancino che presto il destino le avrebbe giocato. Innestò la marcia e oltrepassò il cancello di casa.

    La strada era sempre la stessa da anni, ormai le bastava impostare mentalmente il pilota automatico. Mentre si affrettava a raggiungere Castelforte, Giulia rifletteva amareggiata su quanto si fosse svuotato quel borgo in pochi anni da nugoli di ragazzi festaioli. Le risate argentine che inondavano tutto il santo giorno le piccole discese del paese avevano lasciato un vuoto che pesava. Oramai tutti lavoravano e studiavano altrove, più o meno distanti, e rientravano fugacemente solo per il week-end o le vacanze. Davvero un peccato mortale. La via principale però, alla faccia di quella diaspora, manteneva il fascino genuino di quando Giulia era piccina. Belle case color senape e ocra con grandi archi in pietra dell’Appennino volgevano le loro finestre su Corso Leopardi e da una di queste, quella della sala, Giulia aveva salutato i cortei in processione, tifato durante la Festa dei Ceri, pregato composta al passaggio della statua della Madonna, assistito alla celebrazione di comunioni e cresime, e persino pianto per qualche funerale. Il tutto sporgendosi dal davanzale con la testa a penzoloni e dritta sulla punta dei piedi in un equilibrio rocambolesco. La chiesa di Don Bairo – il prete del paese, così amabilmente soprannominato dai fedeli più irriverenti per essere più volte uscito di strada nel dopocena con la sua ormai obsoleta Simca – era proprio a pochi passi da quella provvida finestra. E sempre da lì Giulia aveva sniffato per anni quell’irrinunciabile profumo di pasta e di pane che saliva dal negozio del fornaio ad augurarle il buon mattino. Alcune vecchie case della cordata, lungo la via, avevano subìto di recente un restyling, insieme al palazzo del Comune, anch’esso tra gli edifici progettati da un architetto contemporaneo; tuttavia la vecchia guardia del paese non gradiva e passando al cospetto chinava lo sguardo come si trattasse di un’oscenità esibita.

    Giulia viveva ancora in famiglia, nonostante i trent’anni suonati, perché il momento del grande passo stentava ad arrivare. Pareva sempre una ragazzina; di quella casa era il valore aggiunto. Anche se voleva davvero bene a Fabio praticamente da sempre, e anche se per far piacere alla nonna aveva buttato giù una mezza data per il matrimonio, la sua indole ribelle remava controcorrente senza sosta né pace. Una sera, mentre discuteva con la giornalaia Jolanda a proposito di alcuni lavori che martoriavano la vallata da mesi per costruire il passante di collegamento col mare, Giulia constatò che il versante del monte opposto era stato ingabbiato in quella protezione arancione che è sinonimo del di qui non si passa. Le salì una rabbia furiosa: quella era la sua montagna, la lingua di cemento in costruzione ne avrebbe, per usare un eufemismo, devastato il manto boschivo. A breve sarebbero spuntate delle grandi capriate per sorreggere una strada a scorrimento veloce perfettamente inutile, sentenziava Giulia, e tutto per farci sfrecciare microscopici veicoli con a bordo minuscole figurine ignare di essere il lubrificante di quell’infernale macchina distruttiva. Che passassero da un’altra parte! Da lassù, se avessero costruito, non si sarebbe potuta più cogliere la meraviglia di quegli angoli spersi di Appennino, destinati a diventare appannaggio solo di pochi eletti. Forse però – aveva pensato Giulia – non tutto il mal vien per nuocere, e così da quei posti non si era mai voluta allontanare. La laurea conseguita a pieni voti poteva essere un lasciapassare per la Capitale. Uno studio di avvocati dell’Eur l’aveva convocata per ben due volte, tanto che Anna amava canzonarla dicendole: «Mia cara Juliette, la tua fama ti precede! Quale onore per me, essere ancora tua fedele compagna di merende…» Ma Giulia non aveva avuto dubbi: lasciando ad altre praticanti quella chance di brillante carriera, ne avrebbe guadagnato dal punto di vista umano.

    Jolanda chiuse la saracinesca, spingendo col piede sull’ultima lamiera per fare forza; disse che sarebbe andata a metter su l’acquacotta per cena. «Mia madre era toscana e la faceva con le cotenne, io non ce le metto, devo sta’ attenta a lu colesterolo!» E così dicendo si ritirò.

    «Ciao Jole – la congedò Giulia – a domani!»

    CAPITOLO II

    Due giorni dopo arrivò in paese un forestiero informale ed elegante, di alta statura, con occhiali da intellettuale e folti capelli neri sotto il cappello panama. Troppa grazia a Sant’Antonio! Le zitelle del villaggio erano già tutte in fibrillazione. L’affascinante straniero si aggirava con fare disinvolto per il corso principale, mentre studiava, dietro le lenti correttive, la posizione del paesello rispetto alle montagne. Come si diceva, il suo arrivo non passò inosservato. Marisa, la magliaia, scese di botto le scale e si infilò nel negozio di Vittorio, l’alimentarista, nella finzione in cerca di noce moscata per il polpettone della domenica, nella realtà per le notizie last-minute sul nuovo arrivato. Immersa in una miscela di profumi, dai salumi appena affettati alla pizza calda, sino alle fresche fragranze dei detersivi, la cassiera Carla riassettava il negozio.

    «Ciao! Gente nuova in città, eh?» Marisa irruppe nella botteguccia con la grazia di un elefante imbizzarrito. Carla era distratta, così continuò a sistemare i prodotti sullo scaffale. L’avventrice riformulò allora la domanda, questa volta con un’estensione da mezzosoprano.

    «Ma che tte gridi! – Rimbrottò Carla, come ridestandosi da un torpore – Me fai dispetto alle coronarie, cuscì

    «Sci, sci… L’ho sentito pur’io che c’è un bel tale qui in vacanza… Un professore giovane! Non c’avrà più de quarant’anni. Dicono che viene dai Sette Colli, che è capitato in paese pe’ riposasse, rinfrescarsi… A Roma fa già un gran caldo, cara mia!»

    «Ah! Ma allora è in cerca de lu frescu! – disse Marisa – O sarà un altro che crede alla leggenda della gallina dall’ova d’oro: scava scava, ma sta gallina non l’ha trovata ancora gnisciuno! Se la sarà beccata la faina co’ tutte le ova! Ahah!» E così, con un sorriso in viso, se ne uscì dal negozio, lasciando Carla con il barattolo di noce moscata a mezz’aria.

    «E quando lo trovi te, un pezzo de marito! Alla larga dalla Marisona curiosona…» Farfugliò Carla a denti stretti.

    Lo stesso giorno Giulia aveva due ore libere da dedicare a se stessa e, vista la bella giornata, inforcò la bici e si diresse allo stagno, come lo chiamavano tutti. Si trattava di una piccola palude designata a oasi protetta, con giunchi, anatre, ninfee, dove i bimbi si divertivano a tirar sassetti nell’acqua morta e i grandi vegliavano nell’area pic-nic in maniera più o meno decorosa, a seconda del senso civico di cui erano dotati. Quand’era piccina, Giulia aveva trascorso proprio lì di fronte con suo padre i lunghi pomeriggi della domenica, a raccogliere pietre intorno alla basilica di Pistia, mentre il prete, puntuale alle diciotto, iniziava a dir messa al cospetto di un Cristo marmoreo e di un’epigrafe dedicata a Costantino. La mamma di Giulia presenziava alla funzione a nome di tutta la famiglia e intanto la piccolina accumulava pietre e pietruzze nel traversino annodato dietro la schiena. Mesozoico, neolitico: per lei erano tutti cocci romani. E in definitiva aveva ragione: il suo intuito non sbagliava.

    Si vociferava che molti secoli prima gli apostoli Pietro e Paolo avessero calcato quelle terre, tanto da ripararsi durante un fortunale a pochi passi dal punto in cui la piccola Giulia raccoglieva i cocci. Di questo, e altri episodi verosimili, si narrava nella storia dell’antica strada chiamata Via della Spina – così nota o per l’omonimo torrente contiguo o, come racconta qualcuno, per la credenza che i due apostoli nel loro passaggio avessero con sé una delle spine della corona di Cristo.

    A Giulia era sempre piaciuto leggere in disparte, si concentrava meglio e si rilassava. Non amava, come tante coetanee, indossare abiti firmati e zompettare in discoteca. Erano passatempi che non l’ammaliavano più da un pezzo. Del resto, si sentiva molto fortunata per il trattamento che Madre Natura le aveva riservato: aveva un bel viso, occhi nocciola, zigomi ben disegnati, una fulgida cascata di capelli

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