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Il coraggio di avere paura
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E-book309 pagine4 ore

Il coraggio di avere paura

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Info su questo ebook

Il brivido delle gare automobilistiche è tutto ciò che sembra dare un senso alla vita di Martin Campbell. Corre solo per sfuggire al suo passato e ai fantasmi che lo perseguitano. Questa volta però il ritorno al college inglese che l’ha ospitato per anni ha un significato diverso. I suoi tutori, l’amico di sempre, e poi all’improvviso lei, Faith… 
Martin aveva giurato che non avrebbe mai permesso a se stesso di affezionarsi a qualcuno, così da non venire più abbandonato o tradito, come avevano fatto con lui prima la madre e poi il padre. Ma il rapporto con quella ragazza, inizialmente distante e burrascoso, mette in luce via via una realtà nuova, l’incontro tra due personalità ribelli e uniche che finiscono per intendersi. 
Appena si assapora un briciolo di felicità, ecco che spesso il destino irrompe a rimescolare le carte. Per Martin sarà tempo di scelte difficili, perché quel passato così oscuro e ingombrante è ritornato e questa volta andrà affrontato, come tutto il resto.

Annalisa Nosari è nata ed è cresciuta a Bergamo e ha ventun anni. Ha scoperto di amare i libri e la lettura quando è stata costretta ad interrompere la scuola per motivi di salute. Questo passatempo si è ben presto trasformato in una passione, che l’ha portata ad interessarsi alla piattaforma online Wattpad, dove ha pubblicato alcuni racconti. Il coraggio di avere paura è la sua prima pubblicazione cartacea.
LinguaItaliano
Data di uscita12 mag 2018
ISBN9788856789980
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    Il coraggio di avere paura - Annalisa Nosari

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8998-0

    I edizione elettronica marzo 2018

    Capitolo 1 - Pericolo

    Non ci sono parole per descrivere ciò che si prova in momenti come questo: quando l’adrenalina ti scorre nelle vene al posto del sangue, fa vibrare i tuoi nervi, diventa la tua unica linfa vitale e ti prefigge un solo obiettivo: vincere. Non importa a che prezzo. Se corri davvero, lo fai per vincere. E io vinco sempre. Vinco perché non ho nulla da perdere. Il pericolo è il mio migliore compagno e rappresenta tutto ciò che conosco, solo così mi sento a mio agio. Il mio è un vero e proprio bisogno: sento la necessità di appagare il desiderio di spingermi al limite, di correre ad una velocità folle sul confine sottile tra la vita e la morte. È lì che tutto sembra avere senso; la lucidità apre uno squarcio nella follia che domina l’esistenza e, come un fulmine che illumina per un istante l’oscurità della notte tempestosa, ti permette di capire ciò che conta davvero: ben poco, nel mio caso. È per questo che non ho paura e, se non si teme il disastro immanente e imprevisto che potrebbe nascondersi dietro la prossima curva, allora si può avvertire fino in fondo il brivido impavido e intrepido che incita a vivere ogni istante come se fosse l’ultimo.

    Passo il traguardo e sento il mio team principal congratularsi con me via radio, ma non gli rispondo, non lo faccio mai, così come non presto mai attenzione alla sua voce costantemente presente nelle mie orecchie mentre corro, la quale mi avvisa dei tempi che faccio e mi fornisce suggerimenti per migliorarli.

    Il momento in cui passi la linea d’arrivo è l’attimo in cui tutto si compie, in cui cogli lo scopo di ogni cosa, ma al tempo stesso è ciò che pone fine all’avventura che è stata in grado di darti tutte quelle emozioni forti. Vorrei durasse di più, ma so anche che così perderebbe il suo significato. L’unica soluzione è quella di correre il più possibile, passando le qualifiche di ogni gara, ma ricordando sempre che non lo faccio per arrivare sul podio, bensì per godermi la folle corsa.

    Rallento fino ad arrestare la mia monoposto in prossimità dei box del circuito automobilistico più famoso d’Inghilterra e non solo. Tento di calmare il respiro affannoso, nonostante i battiti del mio cuore siano sempre rimasti regolari. Aspetto qualche secondo prima di riuscire a lasciar andare la presa delle mani dal volante. I guanti stringono saldamente le estremità della power unit e solo dopo un po’ allento la presa e apro e chiudo più volte le dita, tentando di controllare il tremore che invade le mani e il resto del mio corpo dopo aver corso a più di 200km/h.

    Dopo essermi sfilato i guanti, mi tolgo anche il casco e il sottocasco in cotone bianco, slaccio le cinture, sgancio le protezioni e finalmente esco dalla macchina, mentre i meccanici e gli ingegneri del team mi vengono incontro. Bobby mi stringe la mano e mi dà una pacca sulla spalla:

    «Sei stato fantastico, se continui così la GP3 sarà tua senza alcuno sforzo. La macchina c’è, è in ottime condizioni e tu hai saputo spingerla al massimo, ma attento a non consumare troppo gli pneumatici e i freni, ricordati che queste sono solo le selezioni per cronometrare i giri e i tempi».

    Il mio team principal si congratula con me e lo stesso fanno gli altri membri della squadra battendo le mani, ma io ascolto di sfuggita e mi limito ad annuire.

    Sono tornato in quell’atmosfera annebbiata e ovattata in cui vivo perennemente, immune ad ogni emozione, e da cui mi libero soltanto correndo in macchina. Mi slaccio la tuta e la lego in vita, lasciando il torace coperto dalla canotta bianca inzuppata di sudore. Mi passo una mano tra i capelli fradici e mi asciugo il volto con la salvietta che un assistente mi porge insieme alla borraccia. Ci incamminiamo a bordo pista, mentre i meccanici riportano la macchina al box.

    «Ah dimenticavo», aggiunge Bobby, «c’è una persona che è qui e ha chiesto di te, vuole vederti», mi comunica, ma, quando gli domando di chi si tratta, non mi sa rispondere. Spero solo non ci siano scocciature in arrivo.

    Capitolo 2 - Ritorni

    L’autodromo oggi è deserto e io sono l’unico ad avere le prove programmate, il che per me è meglio: così posso correre in tranquillità e concentrarmi sulla prestazione. Quando alzo lo sguardo, avvicinandomi alla recinzione che separa la pista dalla zona dei pit-stop, mi blocco e lascio cadere la mano con la salvietta per asciugarmi il sudore accanto al fianco, sbalordito. Non ci credo, non puoi essere lui…

    Jason mi viene incontro con un’espressione fiera e le braccia spalancate in segno di saluto, mentre io rimango immobile, paralizzato.

    «Martin! Sono mesi che ti cerco, finalmente ti ho trovato!», esclama e mi abbraccia con forza. Dopo qualche istante di esitazione non posso fare a meno di ricambiare la stretta del mio migliore amico che non rivedevo da anni, lasciando andare tutta la tensione che trattenevo in corpo.

    Nonostante tutto quello che è successo tra di noi, sono felice di rivederlo. È cambiato: non si direbbe che ha la mia età, sembra molto più grande e il suo aspetto è curatissimo: i capelli scuri sono fissati dal gel, indossa un giubbino di pelle nera, jeans aderenti e una maglietta che mette in evidenza i muscoli del torace. È più fisicato rispetto all’ultima volta in cui ci siamo visti e potrebbe tranquillamente assomigliare a uno di quei calciatori famosi e strapagati.

    Non riesco ancora a dire una parola, credevo non l’avrei mai più rivisto.

    «Quando ho saputo che eri tornato in Inghilterra ho iniziato subito a cercarti e quando mi hanno informato che potevo trovarti a Silverstone giuro che non ci credevo, ma poi mi sono detto: solo un pazzo come Martin Campbell può essere un pilota promessa delle corse automobilistiche! Perché non mi hai cercato prima? Ci sono rimasto di merda nel sapere che eri tornato da così tanto tempo senza nemmeno farti vivo!».

    Jason mi mette una mano sulla spalla e mi strattona leggermente, ma io non ho più le forze per reagire, non dopo aver corso per un’ora a quella velocità, non di fronte a una sorpresa così inaspettata. Sento le gambe cedermi per la fatica e riesco solo a rispondere:

    «Io, beh… ho avuto un po’ di problemi da risolvere. Ma tu perché sei qui?», gli chiedo con più sospetto che stupore, portandomi una mano davanti agli occhi per proteggermi dalla luce accecante e fredda del sole ormai invernale al tramonto.

    Non riesco a cogliere la risposta di Jason perché alle sue spalle, seduta sul muretto che delimita il bordo pista, noto una ragazza dai lunghi capelli biondi e con lo sguardo perso nel vuoto. Ai piedi porta un paio di pesanti anfibi neri e fa dondolare le gambe, mentre tiene le spalle curve e le mani sotto le cosce.

    «…sono a conoscenza della tua situazione Martin e lo ammetto: sono qui per riportarti a casa, a Londra. Non puoi più scappare. Torna con noi stasera».

    Afferro solo la conclusione del discorso che Jason pronuncia con voce grave, a cui ribatto immediatamente:

    «Noi?», chiedo spiazzato. «Vieni, ti presento Faith, la mia ragazza», chiarisce Jason, mentre si incammina verso la bionda, la quale ci nota e salta giù dal muretto, venendoci incontro con le mani nelle tasche della sua bomber jacket nera e i capelli che le ricadono sul viso minuto. Come può un perfettino come Jason essere finito con una tipa così… cupa e misteriosa, direi.

    «Lui è Martin, ti ho parlato tanto di lui», mi presenta il mio amico, ma la ragazza si limita a farmi un cenno con il capo, fissando i suoi occhi penetranti nei miei e senza accennare nemmeno un sorriso.

    Ha l’aria un po’ trasandata, che tuttavia non nasconde una bellezza semplice; il volto è pallido e struccato e ha un grazioso nasino alla francese. Sostengo il suo sguardo. La sua espressione è imperscrutabile: mi mette a disagio, perché non riesco nemmeno a ipotizzare cosa pensi o provi in questo momento, ma mi rendo conto che lei deve provare la stessa impressione osservando me.

    Dopo qualche secondo riprendo la conversazione con Jason, il quale non sembra minimamente a disagio, come se si aspettasse un comportamento simile sia da parte mia sia da parte della sua ragazza.

    «E perché dovrei darti ascolto, quando non ho nemmeno una casa?».

    Adesso è Jason a rimanere in silenzio e a costringermi a spostare lo sguardo su di lui, che ha abbandonato il sorriso entusiasta di poco fa sostituendolo con un’espressione severa:

    «Perché non hai scelta e tu lo sai».

    Mi fa notare l’ovvio e così con un sospiro di resa lo sorpasso, passando accanto alla ragazza, senza nemmeno guardarla e senza che lei si volti a guardare me; poi vado nello spogliatoio a farmi una doccia e a preparare il mio borsone, ormai rassegnato all’idea di tornare a Londra. Anche se non ho la minima intenzione di rimanerci a lungo.

    Capitolo 3 - Casa dolce casa

    La London Excelsior Accademy è una delle più prestigiose università inglesi, situata poco fuori Londra e immersa nel verde della campagna inglese. È avvolta in una perenne atmosfera umida e uggiosa che si dissipa solamente durante le poche settimane estive in cui il sole è abbastanza caldo e le piogge concedono una tregua. Non mi dispiace questo clima malinconico perché riflette il mio umore abituale. Ciò che mi dispiace è essere costretto a vivere presso il campus quando io il college l’ho già terminato da un pezzo. Cazzo che sfiga! Ho sempre fatto di tutto per starmene il più lontano possibile da ogni università nella quale mio padre mi aveva iscritto ed ero diventato un mago nel farmi espellere e sospendere per ogni genere di infrazione, ma ora eccomi di nuovo al punto di partenza. Il destino è amaro e evidentemente deve avere un senso dell’umorismo parecchio stronzo. Ma del resto non ho scelta e Jason aveva ragione nel convincermi a tornare, anche se solo per poco, per assicurare a chi si prende cura di me che mi trovo ancora in Inghilterra. Non potevo passare tutte le mie giornate al circuito, anche perché i meccanici necessitano di apportare alcune modifiche alla mia macchina, la quale non deve essere sottoposta a prestazioni eccessive, quindi non avrei comunque potuto correre né effettuare le prove.

    Abbiamo viaggiato tutta la notte a bordo della Jeep guidata da Jason e, dopo avermi lasciato davanti all’entrata del campus all’alba, lui e Faith sono andati a casa sua a farsi una doccia e riposarsi. Non ho capito se vivano insieme, ma lei mi sembra più giovane e in ogni caso ancora non ci credo che due persone apparentemente così diverse possano frequentarsi.

    Attraverso il chiostro circondato dal porticato in pietra sotto il quale si affacciano gli alloggi dei professori che insegnano presso l’università. Devo avere un aspetto orribile: sono diverse notti che non dormo e i jeans stracciati e la maglietta stropicciata che indosso di sicuro non fanno una bella impressione.

    Casa dolce casa, penso con disprezzo dopo essere entrato nell’appartamento; mi dirigo subito in camera mia e getto il borsone sul letto, ma poi esco immediatamente dalla stanza. In cucina, seduto al tavolo e intento a fare colazione, incontro Nate, che mi saluta con un cenno del capo e esclama:

    «Ma guarda chi si rivede dopo settimane di esilio: il mio fratello adottivo preferito!». Solo lui può avere il coraggio di fare del sarcasmo di prima mattina. Per tutta risposta gli alzo il dito medio, a cui lui non fa caso, essendoci ormai abituato, e apro il frigo per bere un po’ di succo di frutta dal cartone.

    «Tua madre è nel suo studio?», gli chiedo e Nate annuisce con la bocca piena di cereali.

    «Preparati al solito interrogatorio di cui solo i migliori psicoterapeuti sono capaci!», allude, ma io gli rispondo allo stesso modo di prima e attraverso il corridoio diretto verso lo studio della mia tutrice.

    Apro la porta senza bussare e trovo Monica intenta a scrivere al computer, con gli occhiali dalla montatura sottile appoggiati sulla punta del naso e il caschetto di capelli neri lucidi perfettamente in piega. Mi sembra sempre la stessa, esattamente come nei miei ricordi di quando ero bambino, ma ormai è una donna adulta, nonostante porti decisamente bene gli anni che ha.

    «Chi non muore si rivede», mi accoglie con la sua solita ironia pungente, ma io ormai l’ho capito: è la sua tattica per suscitare in me una qualche reazione da poter analizzare. «Da quel che vedo sei ancora tutto intero, quindi non sei finito per schiantarti a bordo di una di quelle assurde macchine che ti ostini a guidare», mi incalza nuovamente.

    Mi siedo alla scrivania di fronte a lei, nel suo lussuoso ufficio dall’arredamento interamente bianco e organizzato secondo un ordine maniacale. È tipica degli strizzacervelli la voglia di tenere tutto sotto controllo.

    «Dimmi una cosa», mi rivolgo a lei tralasciando i convenevoli, «hai chiamato tu Jason, vero? Scommetto che lo hai obbligato a venire a cercarmi per riportarmi indietro».

    Serro la mascella, sentendomi tradito da una persona di cui in fondo mi fido e che senza dubbio è stata l’unica ad aver almeno provato a prendersi cura di me. Il fatto che poi io sia un caso disperato è un altro discorso.

    Sfilo una sigaretta dal pacchetto e me la porto alle labbra, ma Monica la afferra e la getta nel cestino; fa un respiro profondo e si toglie gli occhiali, fissando il suo sguardo nel mio:

    «È stato Robert».

    Sapevo che c’era di mezzo anche lui!

    «Beh, dì a tuo marito di stare fuori dalla mia vita», la avviso, ma lei ribatte pronta:

    «Non finché tu starai dentro la nostra casa».

    «L’alloggio del campus destinato alla psicologa dell’università tu lo chiami casa? Ma per favore! Non hai neanche la minima idea delle tenute che mio padre possiede qui in Inghilterra», sputo con disprezzo. Mi comporto da bastardo lo so, ma del resto è questo ciò che sono, non so fare altro.

    «Prego: se non è di tuo gradimento puoi sempre andartene. Tornatene a correre e a gareggiare, rischiando la vita ogni giorno. È ciò che hai fatto durante tutto questo tempo, giusto?», mi provoca Monica con voce stizzita.

    A questo punto scatto in piedi, già scocciato dalla nostra conversazione durata a mala pena tre minuti, e mi porto le mani tra i capelli, incazzato:

    «Non ci provare: non provare a manipolarmi come fai con tutti i tuoi pazienti! Dimentichi che sono maggiorenne da un bel pezzo ormai e non ho più bisogno di alcun tutore, quindi posso fare quello che voglio e andarmene dove mi pare».

    «E dove vorresti andartene, sentiamo?». Adesso è Monica a scattare in piedi e ad alzare la voce, mantenendo però sempre un tono controllato: «Vuoi tornare da tuo padre, finire di nuovo in quella situazione? Martin, tu devi restare qui: non hai scelta».

    «Ma perché me lo ripetono tutti?», chiedo sconfortato, accasciandomi sul divano in pelle bianca del suo studio, appoggiando i gomiti sulle ginocchia e prendendomi la testa tra le mani.

    Monica esita qualche istante, poi si siede accanto a me e mi mette una mano sulla spalla. «Martin, sei tu a dovertele creare le scelte e qui hai l’occasione di farlo, perché io, Robert e Nate siamo pronti a sostenerti. Pensa al tuo futuro, a qualcosa che ti garantisca una stabilità duratura. È per questo che Robert ha contattato Jason: eravate amici, lui potrebbe aiutarti a rimetterti sulla giusta strada», prova a convincermi con tono comprensivo e pacato.

    Dopo qualche secondo alzo il capo con un sorriso amareggiato sulle labbra. «Ma perché mi aiutate? Sai che non me lo merito e che non riuscirò mai a darvi nulla in cambio», le chiedo sommessamente.

    «Tutti meritano aiuto e non tutto richiede di essere ripagato, c’è spazio anche per il dono e l’affetto», mi risponde con un’espressione serena e uno sguardo benevolo che mi mettono a disagio.

    Così mi alzo prontamente dal divano e faccio per uscire dallo studio, ma prima di varcare la porta mi volto a guardarla: «Non ti prometto nulla, ma ci proverò e solo perché non ho alternative. Comunque di una cosa puoi stare certa: io le corse non le lascerò mai», affermo categorico e poi mi chiudo la porta alle spalle.

    Capitolo 4 - Fratello

    «Ma che cazzo?!». Mi sveglio ricevendo un cuscino dritto sulla testa, che tento di nascondere tra le coperte.

    Un’incazzatura non è il modo migliore per iniziare la giornata, specialmente per me che ho già le palle girate di mio e Nate dovrebbe saperlo, invece non fa altro che starsene in piedi nel bel mezzo della mia stanza con un sorriso sfacciato dipinto sulle labbra.

    «Hai passato due giorni chiuso in questa camera a non fare altro che dormire, credo che a questo punto tu ti sia riposato a sufficienza», mi rimprovera. «Ho ricevuto l’ordine ufficiale di buttarti giù dalla branda, affinché tu ti dia una mossa, ti faccia come minimo una doccia e magari mi accompagni a lezione», mi avverte.

    «Vaffanculo Nate, non sei la mia balia e ricordati che non sei nemmeno mio fratello, quindi lasciami in pace e fatti gli affari tuoi», gli rispondo, mettendomi a pancia in giù e nascondendo il capo sotto il cuscino, nella speranza di riaddormentarmi il prima possibile.

    È vero, da quando sono tornato mi sono unicamente dedicato a recuperare il sonno perso; non che per me ci sia molto altro da fare qui, ma del resto sono come preda di una sorta di trance che mi impedisce di svegliarmi, di essere davvero lucido e questo vale per la maggior parte del mio tempo, che io mi trovi a letto o meno.

    Nate non demorde e avverto la sua presenza insistente che continua a infastidirmi, finché con uno sbuffo scocciato mi alzo di scatto gettando via le coperte; oltrepasso il mio cosiddetto fratello assestandogli una spallata e mi decido a farmi una doccia, di cui in effetti ho decisamente bisogno.

    Quando esco dal bagno, passandomi un asciugamano sui capelli bagnati e indossando solo un paio di pantaloncini, ritrovo Nate con le braccia conserte appoggiato alla porta di ingresso.

    «Che ci fai ancora qui?», domando, spalancando le braccia con frustrazione.

    «Te l’ho detto Martin, non mi arrendo», replica pungente, poi fa un respiro e aggiunge: «Ascolta, non sto provando a diventare tuo amico, non mi interessa, sul serio. Ma in fondo non mi sembri poi così male come ritieni di essere e, finché starai con la mia famiglia, ci converrà fare uno sforzo anche minimo per poter convivere». Mi fissa con lo sguardo ragionevole tipico di sua madre, che su di lui non può fare a meno di risultare inquietante. A questo punto capisco di non avere scelta, evidentemente non ne ho mai una.

    «Dammi due minuti», ribatto arreso.

    Dopo che mi sono infilato un paio di pantaloni di tuta e buttato addosso una t-shirt, attraverso insieme a Nate il viale principale del campus. Non so dove sia diretto e che lezione abbia e non ho nemmeno la minima idea di dove andrò io dopo che sarà cominciata la prima ora, ma non mi importa granché.

    «Ma perché ti ostini? Sai che è vietato e che ti beccheranno», mi riprende Nate, quando vede che mi accendo una sigaretta.

    «E cosa potrebbero farmi? E comunque perché ti preoccupi tanto?», lo provoco.

    In fondo anche Nate non è poi così male: è il classico figliolo giudizioso, ma non ha la stessa aria noiosa di tutti gli altri ed è maturo pur essendo ancora giovane; tuttavia è comunque una perenne spina nel fianco, specialmente vivendoci insieme.

    Nate evita la mia domanda. «Ma scusami non dovresti essere in perfetta forma e salute fisica per correre nel campionato? Non ti dispiacerebbe venir buttato fuori dal mondo delle gare? Credevo fosse l’unica cosa che ti interessasse», indaga.

    «Correre è tutto ciò che mi interessa, non importa se nel campionato ufficiale o meno, se in gare legali o clandestine, l’importante per me è correre», gli spiego senza guardarlo in faccia; poi, non so perché, aggiungo: «E a te interessa davvero studiare Legge? Tra tutti gli indirizzi di studio hai scelto proprio il più palloso in questo college di merda», constato.

    «Forse questa università sarà di merda per uno che è stato espulso e ha cambiato college ogni anno grazie ai soldi del paparino, ma per me è già tanto poter studiare qui grazie al lavoro che fa mia madre per questa Facoltà», mi provoca, ma io non gli lascio concludere la frase e lo afferro per un braccio.

    «Non osare nemmeno nominare mio padre!», lo avverto a denti stretti. Nate mi fissa con gli occhi sbarrati e deglutisce, poi si divincola e prosegue con tono pacato:

    «Comunque per me non è palloso poter diventare difensore d’ufficio e aiutare chi è in difficoltà; per esempio, che ne so, magari un ragazzino che viene arrestato per spaccio d’erba, risse, corse illegali e scommesse clandestine», allude furbo, guardandomi con la coda dell’occhio.

    Scuoto la testa e mi lascio sfuggire un ghigno divertito.

    Siamo arrivati ai piedi della scalinata dell’edificio antico in cui si trova l’aula di Nate. Lui si schiarisce la voce e mi pare in difficoltà quando pronuncia quello che vuole dire:

    «Comunque forse una volta potresti portarmi con te al circuito, per vedere le prove o magari addirittura una gara. Sì insomma, sarebbe una figata per me e…», balbetta, ma io lo interrompo prendendogli il cappuccio della felpa e tirandoglielo davanti al viso:

    «Sì come no, contaci!», lo prendo in giro. «Cerca di stare fuori dai guai almeno tu, altrimenti tua mamma mi caccia davvero di casa», gli rispondo e mi volto andandomene, continuando a chiedermi perché ci tenga così tanto a conoscere me e il mio mondo.

    Capitolo 5 - Straniera

    Indeciso sul da farsi, essendo ancora mattina presto, decido di andare al bar del campus a prendere un caffè, magari corretto, per poter guadagnare le energie necessarie ad affrontare la giornata.

    Il giardino, i viali, i chiostri e i porticati del campus sono deserti, dal momento che tutti gli studenti hanno ormai raggiunto le loro aule. Per questo motivo scorgo subito la figura minuta accovacciata sul muretto che delinea il perimetro del portico, con la schiena appoggiata a una colonna e le gambe strette tra le braccia contro il petto. Quando presto più attenzione noto che si tratta di Faith, con i capelli lunghi e biondi sempre di fronte agli occhi e una sigaretta tra le labbra. Allora non sono l’unico a non avere paura di venire beccato!

    «Tu? Che ci fai qui straniera?», le chiedo

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