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Il Teatro degli Arcani: L'Imperatore
Il Teatro degli Arcani: L'Imperatore
Il Teatro degli Arcani: L'Imperatore
E-book121 pagine1 ora

Il Teatro degli Arcani: L'Imperatore

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Info su questo ebook

Gli uomini non sono capaci di governarsi da soli. Se lasciati a se stessi, conducono il mondo alla rovina”

È questo il mantra di Ettore, un ambizioso universitario senese, educato per diventare il degno erede della potente famiglia Visconti e il custode privilegiato di un segreto secolare: la Maschera dell'Imperatore, un artefatto magico in grado di soggiogare la mente altrui.
L’iniziale atmosfera di calma è stralciata dal contatto con l’Altrove, un macabro mondo parallelo, e con le sue creature terrificanti, che metteranno in pericolo la vita di Ettore... e la sua moralità.
Scritto a quattro mani da Chiara Magliacane e Alessio Banini, "Il Teatro degli Arcani - L'Imperatore" è un romanzo cupo e adrenalinico, che dimostra come non ci sia migliore ispirazione per un Urban Fantasy di ambientazione italiana... dei miti e leggende della nostra cultura, come i Tarocchi e le Maschere!
 
 
LinguaItaliano
Data di uscita6 giu 2018
ISBN9788898754878
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    Anteprima del libro

    Il Teatro degli Arcani - Chiara Magliacane

    Visconti».

    CAPITOLO 1

    Siena, 1995

    Gli uomini non sono capaci di governarsi da soli.

    Se lasciati a se stessi, conducono il mondo alla rovina. Distruggono la società, facendosi guerra l'un l'altro per il potere e la ricchezza, infine arrivano al collasso. Gli uomini devono essere governati, per non cedere il posto al caos.

    Di questo, Ettore era fermamente convinto.

    Camminava lungo le vie di Siena, con la borsa a tracolla e la testa persa nei suoi pensieri. Era convinto che gli uomini dovessero essere governati da una classe dirigente capace e migliore di loro. Ettore li considerava come dei bambini che, abbandonati su un'isola sperduta, avrebbero finito per uccidersi a vicenda. Oppure come un branco di lupi affamati che, dopo aver esaurito le prede più deboli, avrebbero cominciato a saltarsi alla gola l'un l'altro. Ne derivava che l'ordine era la priorità. L'ordine era strettamente connesso al controllo. Il controllo era giusto se gestito da un'autorità superiore.

    Un bambino per poco non lo urtò, uscendo dal negozio di musica. Era pomeriggio e i ragazzi si erano già radunati davanti al forno, in attesa dei ciaccini, le tipiche focacce senesi. Il sole splendeva su una città che era al contempo antica e moderna, rurale e urbana. La gente che passava per le strade sfiorava Ettore, senza riconoscerlo. Era soltanto un ragazzo come gli altri, uno dei tanti giovani universitari che vagava per la città alla ricerca di un futuro.

    Ettore non si fermò alle bancarelle dei dolci, né ai negozi che avevano appena alzato le serrande. All'angolo di via Banchi di Sopra, vide una donna che chiedeva l'elemosina. Le diede cento lire, senza accennare un sorriso. Non per carità, bensì per marcare una distanza: lui donava perché poteva; lei chiedeva, e solo per il volere degli altri poteva sopravvivere.

    Ettore era sempre stato affascinato dalle dinamiche sociali. Ogni volta cercava di osservare e capire la provenienza e il dispiegarsi del potere. Il potere vestiva le persone con il più bell'abito di parole e gesti, collegando le vite tra loro. Un filo invisibile che avvolgeva gli uomini; le estremità del legame rette ogni volta da opposte espressioni di dominio. Quelle tiravano, un po' qua, un po' là, e giocavano a scacchi con il destino.

    Dalle vie adiacenti si sentivano i tamburini del Bruco che si allenavano; le bandiere della contrada garrivano sopra le insegne dei negozi. Banchieri incravattati entravano nella vecchia sede del Monte dei Paschi, in piazza Salimbeni. La statua del fondatore della banca salutò Ettore con la sua fredda possanza, ricordandogli che un grande uomo può costruire molto, nella sua vita, se riesce a farsi obbedire dalle masse.

    L'edicolante lo salutò con un cenno, senza alzare lo sguardo dalla Gazzetta dello Sport. A quanto pareva, Lippi stava finalmente riuscendo a riportare lo scudetto a Torino e Batistuta incantava Firenze. Ma Ettore non era interessato allo sport. Comprò il Corriere della Sera, poi proseguì per la sua strada. Leggere le prime pagine dei giornali era sufficiente per confermare le sue opinioni. La crisi dei Balcani, gli strascichi di Mani Pulite, le guerre in Africa e nel Medio Oriente.

    Non ci voleva un genio, per capire. Bastava una persona superiore alla media, come lui. Bastava un'intelligenza capace di uscire dalla massa per prendere coscienza della realtà dei fatti e della natura umana.

    La democrazia aveva fallito. Ovunque nel mondo i governi faticavano a mantenere l'ordine o la stabilità economica. La classe politica era corrotta e meschina, i popoli si facevano raggirare dai conflitti etnici e culturali. Ovunque, la partecipazione delle masse al potere aveva causato guerre, violenze, distruzione, caos. Il XX secolo ne era la dimostrazione. Il secolo più sanguinoso della storia umana.

    Ettore imboccò la strada che conduceva a San Francesco. Si strinse il maglione al collo, per proteggersi dal vento. La folla intorno a lui rideva, lavorava, pensava. Ma era lontana dal capire ciò che per lui era perfettamente chiaro.

    Il mondo aveva bisogno di una guida.

    La sua guida.

    Il filo arrivava lento tra le sue dita, pronto a essere stretto saldamente al suo polso. Gli uomini, infatti, dovevano essere dominati da chi ne era degno. Un principe illuminato, un sovrano giusto, l'erede di una dinastia capace, migliore della folla indisciplinata. Gli uomini da soli erano persi, per questo si erano inventati le divinità, sin dalla preistoria. Per questo esistevano i nobili, le gerarchie, le differenze sociali. Se gli uomini fossero stati capaci di governarsi da soli, dopo la Rivoluzione francese il mondo sarebbe migliorato: gli uomini sarebbero dovuti essere tutti uguali, le nazioni sarebbero dovute essere eque, solidali e progressiste, la ricchezza dei popoli avrebbe dovuto migliorare la loro vita. Ma così non era stato. Nulla funzionava meglio di prima.

    Ettore giunse finalmente all'università. Il chiostro si affacciava su una piazza spoglia, circondata dai giardini. Il ragazzo entrò nella facoltà, accolto dal vociare degli studenti. In quella massa indistinta, lui era come un principe tra i sudditi. Un dominatore, un illuminato. Un uomo migliore, incamminato su un percorso che gli avrebbe permesso di reclamare il suo potere.

    Si lasciò sfuggire un sorriso.

    ***

    Entrando nella sala studio, si rese conto di essere perfettamente in orario. Si guardò intorno e individuò i suoi compagni.

    «Ma nemmeno per sogno!». Una voce stava strillando nella sala.

    Ettore si mise a sedere al suo posto preferito, all'estremità del tavolo che dava le spalle alla libreria. Posò la borsa a terra e tirò fuori i libri.

    «Sì, ma scusa, eh…».

    Il ragazzo che stava urlando stava anche sbracciando vistosamente per la stanza. Ettore, suo malgrado, riconobbe il suo amico Emanuele. Era al telefono.

    «Sì! Mi ha detto così, capisci? Non sei tu, sono io… Ma che discorsi sono? Mi piglia per il culo?».

    Accanto a Ettore sedevano Maria Grazia e Gianni. Probabilmente, pensò Ettore, Maria Grazia adesso avrebbe perso la pazienza.

    «Dai, Manu… finiscila», sbuffò lei, dalla parte destra del tavolo.

    «Lascialo stare, dai. Tanto manca ancora l'Ely», disse Ettore con un sorriso, alzando le spalle.

    «Va bene, ma ha rotto. Tutte le volte con queste telefonate infinite. La lasciasse, quella stronza».

    «Così poi si rimette con te?», la canzonò Ettore.

    Maria Grazia gli fece una smorfia. Poi si mise a rovistare nella sua borsetta, tenendogli il broncio.

    «Sì, hai capito?», stava continuando Emanuele. Il volume della sua voce stava diventando fastidioso, secondo il limite di sopportazione di Ettore. Tuttavia era affascinante. Perché mai gli esseri umani perdevano il loro tempo a inerpicarsi su queste strade impervie fatte di complicazioni sentimentali e sofferenze? Con tutto ciò che l'essere umano era in grado di fare. Certo, lui non era come tutti gli altri, ma anche la gente comune poteva trovare un modo migliore per impiegare il suo tempo senza sprecare ore preziose in questo modo. Un continuo rincorrersi. Aveva ragione Hermann Hesse quando aveva scritto Narciso e Boccadoro. Perché mai il mondo doveva continuamente vivere questo dualismo tra amore e razionalità? L'uno necessario all'altro, affinché ci sia l'equilibrio. Svenevole. Ovviamente Ettore considerava Hesse un devoto sentimentalista vittima del paraocchi che aveva l'umanità quando pensava all'amore e a quanto fosse ridicolmente importante, e non voleva riflettere invece su ciò che era veramente il fulcro delle azioni umane: il potere. Il potere era il vero motore del mondo. L'amore era solo qualcosa che teneva occupate le masse. I potenti non sprecavano il tempo a dedicarsi a queste pratiche inutili. Il sesso, sì, quello era divertente, anch'esso un rapporto di potere, non di amore.

    «Ettore? Mi stai ascoltando? Gli dici qualcosa?». Ettore si risvegliò dai suoi pensieri. Non si era reso conto che stava fissando nel vuoto. Si voltò verso Maria Grazia che lo guardava con aria interrogativa.

    «Scusa, mi sono distratto. Dicevi?».

    «Gli dici qualcosa? Dobbiamo cominciare a studiare e non intendo perdere tempo per colpa di quell'idiota. Lo sai che a me non dà retta».

    Ettore si voltò nuovamente verso Emanuele. Stava continuando a urlare.

    «Ma manco fossimo in un telefilm. Voglio dire… queste frasi fatte, no? Forse dobbiamo prenderci un periodo di riflessione, Forse tu sei troppo per me… Dillo chiaramente che vuoi farti sbattere da quel tennista, no? Tanto son tutte brave ad aprire le gambe, quando serve».

    Ettore ridacchiò. Fissò Maria Grazia, sempre più infastidita. Gianni, dal canto suo, continuava a

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