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Il poeta analfabeta
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E-book379 pagine5 ore

Il poeta analfabeta

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Info su questo ebook

È il viaggio dell’uomo che incontra tanti se stesso. Tutti diversi. Tutti uguali. Un viaggio lieve, fatto di metafore e d’ironia. Forse d’ ingenua poesia. Una babele di lingue diviene unica voce. Domande generano domande. Storie si intrecciano con storie, in un tessuto senza spazio e senza tempo. Può un incubo feroce imbrattare di sangue innocente la nostra favola bella? Un girotondo di rotta, che naviga miraggi, può essere governato da un Comandante che appare e scompare? Può la morte innamorarsi della vita, il vizio camuffarsi da virtù, il lavoro precario divenire felicità inconsapevole? E un re glorioso, può abbandonare la sua sacra missione per andare a coltivare la vigna, una ninfa innamorarsi di uno stagista pastore, un elefante bianco volare in una bolla di sapone? Può nascondersi nel dna delle leggende il filo che cuce il Tutto al Nulla? Può un poeta analfabeta disvelare l’ipocrisia del mondo? Pensieri vigliacchi, impigliati tra favole e storia, pongono domande irrisolte ben sapendo che sono irrisolvibili. Chi sei, da dove vieni, dove vai: aprono la strada a venditori di nulla pronti a venderti tutto? Si trova sempre quello che si desidera, anche se non c’è? Interrogativi rispondono alle nostre domande La coscienza di essere piccoli e ignoranti, vaganti in tutti gli universi possibili, è forse, quello che ci rende veramente grandi
LinguaItaliano
EditoreNino Greco
Data di uscita14 apr 2017
ISBN9788871630830
Il poeta analfabeta

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    Anteprima del libro

    Il poeta analfabeta - Nino Greco

    XIV

    NINO GRECO

    Il POETA ANALFABETA

    Seconda edizione

    Indice

    Prefazione di Campanella Margherita Maiorca

    I Leggende giornaliere

    In viaggio

    La barca spadara

    Briganti e Pircanti

    Dove sognano i sogni

    Favole vere e false leggende

    Flauti e Ninfe

    La Formula del Tutto

    II E vissero tutti felici e contenti

    Musica e musicanti

    La perniciosa malattia delle gambe molli

    Tutto e niente sono parenti

    L’occhio clinico del ciclope medico

    La certezza del dubbio

    La giustizia degli Dei

    III D’abbagli e miraggi

    Dove finisce il mare

    Dove sognano i sogni

    Oltre l’amore

    IV Compagni di viaggio

    L’elefante diverso

    La felicità inconsapevole

    Il biglietto di viaggio

    L’attimo dell’eterno amore

    L’oscura via della luce

    V Nel mercato delle pulci

    La bandiera gira come gira il vento?

    Prima buum e poi patatrac

    Il tempo sospeso della vita

    Tra il fioraio e il caffè

    Ci ha fregato il sessant’otto

    La democrazia nella foresta

    VI Se il vizio si traveste da virtù

    All’anagrafe risultava Ludovico, Luigi, Maria, Alberico, Federico, di Roccaforte, di Consalvo, di Monterosso e di tante e tante altre cose

    Le tentazioni della cultura

    Il contagio dei libri

    La redenzione degli innocenti

    La perversione della penitenza

    VII Nei giardini dell’anima

    Gli angeli sanno fare miracoli?

    Il sole fa come gli pare.

    La Formula del Nulla

    Il pellegrinaggio mistico del farmacista agnostico.

    Il dna della storia.

    L’Accademia del Futile.

    VIII Versi clandestini e leggende taroccate

    Non fu sonno sprecato

    Morgana, la fata chiacchierata.

    Per centocinquanta ne manca sempre uno.

    IX A passeggio con la luna

    La notte prima della battaglia

    I nobili cavalieri senza cavallo

    Il valoroso Cavaliere Smemorato

    La morte innamorata

    X Cose politicose

    Il sistema puttano

    Meglio la vigna

    XI Poemetto scandaloso del poeta analfabeta.

    Manoscritto originale con traduzione approssimativa.

    XII Storielle pellegrine

    Cavalieri per tutte le tavole

    C osa faceva Cola Pesce mentre la Sicilia affondava?

    Il melo marcio, il pero marcio...

    La verità nel vento

    La giraffa e il violino

    Pensieri vagabondi

    XIII Poeti e scienziati

    XIV Fine?

    PREFAZIONE

    Il poeta analfabeta

    Ho letto Il poeta analfabeta tutto d’un fiato, non riuscendo a smettere; una notte intera annotando impressioni, felici aforismi, assiomi…

    Un’imbarcazione, la Regina dello Stretto, salpa da Scilla, attraversa lo Stretto, custodito da mitologici mostri, fino a raggiungere l’alto mare del sogno…

    L’ho seguita, talvolta inseguita, condividendo il viaggio con i passeggeri.

    Una folla di personaggi, bramosi di raggiungere la meta, si propone, racconta e si racconta.

    Uomini comuni, dei e semidei, come in una giostra, vorticano davanti ai nostri occhi, si interrogano, tentano soluzioni…un viaggio fantastico, senza tempo.

    Lo scritto, acquisendo la veste del paradosso-metafora, cerca di penetrare la realtà, di trovare una chiave di lettura, una sorta di stele di Rosetta che permetta di decodificare, con l’uso di validi espedienti letterari, la società odierna.

    Durante la narrazione, l’Autore vela, dietro il mito e l’ironia, una realtà spesso cruda; un mondo fatto di permessivismo ipocrita e di subdola connivenza. La metafora diventa poi chiara denuncia dei metodi e dei mezzi usati dalla peggiore categoria umana, i disonesti.

    Severa condanna, nei riguardi dei responsabili, briganti e pircanti (quest’ultimo un fior di conio neologistico, mutuato dal lessico familiare dei cunti della nonna) che fanno da padroni indisturbati, a danno della parte sana della società.

    Cito:

    I briganti rubano tutte le ricchezze aurifere possibili ed immaginabili ed i pircanti, prima le fanno fondere da Vulcano e poi le portano all’altro capo del mondo per perdere la tracciabilità.

    Briganti e pircanti, come i Saracini che Orlando sbudella, ma più ne ammazzi e più ne spuntano. Sembrano topi niuri scasati dalle fogne. Brutti e larii… Diavoli sono, scappati dall’inferno.

    Imperiture progenie, che, imperano indisturbate, allora, come oggi, saccheggiando e fruendo di leggi elastiche, nelle cui larghe maglie, s’insinua il peculato, la collusione, il riciclaggio.

    In realtà, la società, è da sempre stata come una carriola; in sé accoglie fiori e sterpi.

    La quasi palpabile e poetica ansia d’infinito dell’uomo d’oggi, abitante ed allo stesso tempo prigioniero di una sorta di mondo mediano, dilaniato tra l’affanno del vivere quotidiano e la necessità d’inventare sogni, …diventa Poesia.

    Noi uomini siamo ciò che osserviamo, o meglio, siamo tutto ciò che riusciamo a vedere: ascoltiamo la musica armoniosa del Creato, godiamo dei suoi colori.

    Non potremmo mai notare la Bellezza, se non fosse già dentro di noi, non potremmo riconoscerla.

    Ma non ci basta, tutta la vita siamo logorati da questa tensione, sete che porta altra sete.

    Vorremmo avere braccia più lunghe, mani enormi per prendere e comprendere il Tutto.

    Questa pulsione verso l’Infinito che ci pervade è spiegabile: siamo sfere pulsanti, luce compressa in pesanti corpi, bellezza in nuce, che aspira assurgere a luce abbagliante…nel frattempo, accaparra quel che può, cercando di decodificare misteri e svelare Arcani.

    Dice il poeta, come rivolto a se stesso:

    Io non voglio sogni prigionieri. Ho bisogno di giochi fanciulli…arrampicarmi all’azzurro, salire sul cocchio del Sole. Ho bisogno d’aria. Ho voglia di cielo, dove l’inganno si veste di stelle e l’orizzonte infinito scivola in un abbaglio di luna. In realtà, cosa mai saremmo senza sogni, se non degli esseri ruminanti la vita?

    Cocente, dunque, il bisogno di affabularci, salvifica la favola, che ci rende liberi dalla giostra, prigionia le cui sbarre sono costituite da pensieri, di tutti i tipi:

    " I pensieri, per fortuna, si fanno e si disfano senza chiedere il permesso, né di nascere, né di morire.

    Arrivano senza sosta...i pensieri superficiali sono sempre banali, luoghi comuni, rimedi peggiori dei mali.

    I pensieri profondi sono monotoni e vigliacchi. Bleffano, sapendo di bleffare.

    Ripropongono sempre le solite irrisolvibili domande: Chi sei? Esisti davvero? Da dove vieni? Dove vai?

    Non si accontentano mai. Vogliono persino sapere cos’è la vita." I pensieri ci interrogano ed esigono risposte, domande che, nel romanzo, restano aperte alla libera interpretazione del lettore…

    La meta, il Vello d’oro, compare e scompare, come la mitologica terra di Sicilia, come l’enigmatica figura del Comandante.

    Se poi, nel quinto capitolo, l’incertezza sull’esistenza di una Presenza superiore, di un Comandante, risulta evidente, è pur vero che nessun uomo può affermare con certezza di non avere mai nutrito dubbi in proposito, durante l’arco della vita.

    l’A., interprete dei sentimenti dell’uomo comune, si pone domande, frutto di amare constatazioni sulla mancanza di valori morali.

    Quante volte ci siamo sorpresi a disquisire, a confutare dogmi incomprensibili, a criticare dettami religiosi insostenibili per una mente indagatrice, che pretende chiarificazioni anche su temi lontani dalla nostra limitata comprensione?

    Se anche i santi si arrovellarono nel dubbio, mettendo in forse la loro stessa fede, perché mai non dovrebbe un semplice analfabeta, poeta per caso, chiedersi dov’è Dio quando l’amarezza suggerisce affermazioni che potrebbero sembrare azzardate?

    Ognuno di noi ha dentro di sé una scintilla di Dio…è una ricapitolazione, non una rivelazione

    La delusione è cocente, capita a volte che non mi interessi niente di niente. Capita a tutti… quindi si decide d’andar via.

    Nessuna voglia di lottare, di procedere, ma neppure di attendere…Pigrizia? Noia? Piuttosto stanchezza?

    Se lo tolga dalla testa di vedere il Comandante!

    Intanto qualcuno (ma chi?) insiste: Avanti, vada sempre avanti!

    Qualcuno invita, esorta, senza alzare neppure la testa.

    Lo scettico titubante insiste: Lui neanche sa che esisto o forse se l’è scordato o forse non esiste affatto. Lo hanno inventato i sottoposti per poter comandare a Suo nome".

    Viviamo fitti-fitti in uno spazio ristretto e popolatissimo, come in un mercato delle pulci, in cui coperte, abiti da sposa, ombrelli…alibi, sventolano come bandiere, seguendo la direzione suggerita, di volta in volta, dallo spirare dei venti.

    Nella baraonda, per rubare l’attenzione degli astanti, bisogna urlare, forte, più forte degli altri, animatamente, non importa cosa…scrosceranno gli applausi.

    Non bisogna mai pensare; è troppo costoso e poi, non conviene.

    A parlare con i pazzi, forse, s’impara a ragionare.

    Sembrano discorsi deliranti, ma per reinventarsi e diventare analfabeti, bisogna necessariamente essere pazzi.

    Bellissima la preghiera dell’uomo semplice; candidamente pretende di dar consiglio al Grande Fattore che, a suo avviso, pur essendo per definizione onnisciente ed onnipresente, ha commesso qualche errore di progettazione, deve ancora rivedere alcuni dettagli.

    Sorge spontanea la domanda: Sì, ma con Dio, come finisce?…sollecita la risposta: E come dovrebbe finire? Dio non finisce mai!.

    Allora conviene assolverci; se noi uomini non Lo comprendiamo, in fondo non è tutta colpa nostra, forse è colpa dello spazio, che non dà spazio, forse è colpa della materia prima che ci costituisce, Ci ha fatti con la creta, poi si lagna che siamo cretini

    Domande, sempre domande, come pulci all’orecchio, ma anche indicazioni, sotto il velo della follia; il viaggio, l’ iter che va percorso durante tutto l’arco della vita, assume un’importante funzione, diventa necessario alla crescita ed alla conoscenza del significato del percorso stesso, il viaggiare chiarisce se stesso. Unica certezza il viaggio in sé.

    In tutti noi alberga una scintilla divina, una lapazza di carbone ardente, una voce interiore che, nello scruscio del silenzio, ci suggerisce e sprona. All’uomo, per comprendere, non rimane altro che mettersi in cammino.

    Gli esseri umani, dal canto loro, argonauti sempre in viaggio, alla continua e rinnovata ricerca di sé stessi, cercano di nutrirsi di sogni, che li avvicinino all’infinito.

    Bisogna inventare favole belle, per navigare la vita, dice l’Autore ed ancora, per bocca d’Artù:

    Come vorrei essere la Luna, estraneo agli intrighi del mondo…se questa è la vita, cosa ci resta? Una favola, una favola bella…

    I miti, reinterpretati o inventati, diventano, sotto quest’ottica, comprensibilmente vicini al lettore, che si appropria dell’immaginario stesso dell’Autore, lo confronta con il suo vissuto, infine lo fa suo.

    Nello scritto, una felice commistione tra lingua italiana e dialetto, l’uso di parole, lievi come foglie, o dure come sassi, si adatta, congruo e versatile, al contenuto della narrazione.

    Il linguaggio de Il poeta analfabeta, originale e colorita frammistione di italiano e siciliano contemporaneo, una sorta di contaminazione, vivacizza, dà freschezza e brio all’intera narrazione, si adatta al contenuto acquistando, di volta in volta, la forma della metafora, del paradosso, dell’assioma, dell’aforismo dell’ironia e della denuncia.

    Sottende l’opera una sorta di soffusa musica che, dalle note carezzevoli narranti il mito, in un crescendo rossiniano, raggiunge i toni verdiani della denuncia, per poi scemare, in un ritorno lieve, degno di un notturno, dove tutto danza, come zattera sulle onde.

    Il poemetto, in catanese moderno, quasi in chiusura del romanzo, diventa decodifica della narrativa, supporto esplicativo della metafora favola bella di gente di mare, che permette al visionario poeta di arrampicarsi sulla scala dei sogni e ancorarsi al cielo. Maledetto mestiere di poeta, arrampicare il cielo e ritrovarsi annegato di parole… l’ironia diventa autoironia. Anche trattando argomenti scabrosi, come la cruda storia di Abatino, o ironicamente maliziosi, come la favola di Polifemo, Aci e Galatea, l’esporre diventa sapientemente insinuante, comunque sempre lieve ed accorto, rivelandosi alfine solo scherzosamente allusivo e rispettoso del lettore. Durante il viaggio, il Sole fa come gli pare, la Luna, osserva, guida, accompagna…

    " A tutti c’ispirasti ‘nta nuttata

    ma ora, co lustru, ci svirgogni

    Tutti i prumissi e tutti i sirinati

    co jornu addivinniru minzogni.

    Pirchì mi vardi tutta risintuta

    a virità, chi fici, ti pùngiu?

    Non ti duliri luna priputenti

    Sugnu pueta e non cuntu nenti."

    La lettura del romanzo, favola bella di gente di mare, mi ha molto arricchita; da un poeta analfabeta, che denuncia l’ipocrisia del mondo, ho imparato molto sulla società, su me stessa e, soprattutto, ho imparato la sua lingua; intrigante, moderna, incurante delle regole lessicali…coinvolgente, caratteristiche queste che rendono una produzione letteraria valida e sempre attuale. Tanto altro ci sarebbe da dire…

    Nino Greco descrive un mondo così ricco, da rendere inesaustiva qualsivoglia descrizione…bisogna leggere il suo poeta con cuore bambino, un cuore di semplice analfabeta che guarda la vita e, nonostante tutto, riesce ancora a rimanerne incantato.

    Margherita Campanella Maiorca

    I

    Leggende giornaliere

    In viaggio

    Quando la stanchezza del viaggio aveva vinto la celata malinconia che lo accompagna, e la fretta d’arrivare si era fatta indifferenza, mi ritrovai a vagare tra futili pensieri e lontani abbagli di mare.

    Alta e verde la Calabria fingeva inusuali languori, complice anch’essa di un disordine, compiaciuto e indolente, che mi lasciava sospeso tra una partenza e un arrivo che mi parevano ugualmente estranei e lontani.

    Sono quasi arrivato. Le cose da fare m’assalgono precipitandomi in un intrigo di piani e programmi. Tanti minuti per questo, tanti per quello… se tutto va bene in serata riparto.

    L’auto non ha voglia d’andare: si sperde tra verdi e azzurri improvvisi. C’è resina e polline nell’aria che frizza. È bello lavarsi la faccia di vento. La freschezza m’invade. Domani è estate. È festa di mare.

    L’auto brontola, sbuffa, risbuffa, rallenta. Riprende la corsa contenta. Pare voglia scherzare. Trotta col cuore felice. Poi, ancora un capriccio l’assale e s’impunta. Si ferma. Ha deciso così.

    A motore spento scivolo via, d’azzurro in azzurro, risucchiato da un budello di strada. Il paese di Scilla m’aspetta. Il silenzio m’avvolge, fascia di fresco ogni cosa. C’è quiete di zagara intorno.

    Appena più giù è soffusa voce di mare. Un gatto attraversa la strada, rallenta indolente, si volta a guardare. Il sole spennella di giallo terrazzi e balconi, insegue deciso ogni ombra sin dentro le case. Antichi odori di forno si posano su gerani e garofani rossi. Nell’aria, c’è già il gelsomino che inonderà la sera.

    Bisogna svincolarsi dall’abbraccio invadente di Scilla, non lasciarsi sorprendere dalla sua arcana magia.

    Scilla è diverso dagli altri paesi dai nomi di santi. Scilla è paese d’antichi pirati, di mostri marini.

    La leggenda, dice che il mostro Scilla si era rintanato a due bracciate dal molo. Stava immobile. Se si muoveva, schiumava il mare, se spalancava la bocca inghiottiva interi bastimenti.

    Scilla era il padrone del mare. Gli abitanti del paese, per tenerselo buono, avevano dato a quel pugnetto di case il suo nome: Scilla.

    Scilla era un signore capriccioso. A volte mangiava i suoi marinai, a volte li proteggeva da Cariddi.

    Cariddi, anche lui, era un mostro marino. Era sempre cattivo.

    La leggenda dice che era il guardiano di un’isola. Un’isola tanto grande che conteneva mille paesi e cento città, un’isola tanto ricca che quando spuntava il sole, l’oro che ricopriva i tetti di tutte le case, avvampava gli occhi.

    Una leggenda, dice che quest’isola si chiamava Sicilia e che era abitata da gente felice e laboriosa. Un’altra, dice che si chiamava Trinacria e che era dimora di Dei e semidei, di faune, ninfe, ciclopi e briganti.

    Gli abitanti di Scilla, giurano che la Sicilia l’hanno visto tante e tante volte guizzare tra le onde.

    Favole belle di gente di mare.

    La barca spadara

    Lui, pareva si fosse messo lì, in punta al molo di Scilla, proprio per farsi notare. Aveva un berretto da marinaio. Passeggiava lentamente, come aspettasse qualcuno, qualcosa.

    Guardava ora il mare, dove il sole si spegneva svaporando di rosso, ora i monti che lasciavano calare il refrigerio della sera.

    Era dritto e asciutto. Il suo viso, rugato di sole e di mare, nascondeva gli anni dietro storie di porti lontani.

    Parlammo di mare e di pesca, tanto per vincere insieme la febbre del tramonto. Poi all’improvviso decise.

    «Domani salpiamo!»

    Non lesse lo stupore del mio viso. Non mi guardò nemmeno.

    «È tempo di andare, la regina ci attende!»

    Dunque, è un pazzo.

    Quale regina poteva aspettarci in quel paesetto dove la terra era soltanto una lieve distrazione dell’acqua e il sole un abbaglio di mare. Provai profondo imbarazzo, facevo fatica a seguire quel suo discorso così strampalato. Non volevo deluderlo.

    M’incantava il suo sguardo lontano.

    «Bisogna far rotta contro vento, inseguire frammenti di suoni, profumi di zagara… a volte anche pianti di bimbi e lampi di scimitarre. Andiamo, la regina ci attende.»

    Dunque, è pazzo, pazzo davvero.

    Ammaliato da quella follia, lo seguii, in silenzio, per una trazzera che lesta s’insinuò sui fianchi dei monti. La sera scendeva rapida e la luna colorava di luce ogni foglia, ogni ramo, ogni pietra. Ci precedeva sempre di un passo, e se tardavamo, ci aspettava paziente. Salimmo. Senza tempo, senza parole.

    Un grande pianoro ci accolse. Eravamo arrivati.

    Ritagliata dal buio, una costruzione alta e bianca turbava la vista. Un abbaiare festoso ci venne incontro, inseguito da passi affrettati e da un indistinto vociare. I cani si ammucchiarono intorno al marinaio in cerca di carezze. Poi giunsero gli uomini. Un cenno di saluto e muti ci avviammo verso quella grande costruzione che, bianca com’era, sembrava la casa della luna.

    Il silenzio, avvolgente, lasciava scoperte solo piccole stelle lontane. La luna era ovunque, invadente, padrona della notte.

    Solo le cicale osavano provare gli archi per l’imminente concerto.

    Una grande porta si aprì cigolando la notte. Prepotente, la luna entrò e subito svelò il grande segreto. Al centro, come in un altare, una barca slanciata e agile, con un albero tanto alto da sfidare il cielo e, a prua, una sottile passerella che inseguiva l’orizzonte.

    Quella bizzarra barca, senza vele e senza ricordi di mare, portava dipinto sulle fiancate un pescespada che s’inarcava sulle onde e una scritta in giallo lucente Regina dello Stretto.

    «È bella - disse il marinaio accarezzandola con lo sguardo - è bella come lo sono soltanto le barche dello Stretto. Lei è ancora più bella. È la regina di tutte le barche spadare. Dobbiamo far presto. Ha voglia di mare.»

    È pazzo, pazzo davvero.

    La leggenda racconta che le barche spadare andavano a caccia di pescispada percorrendo su e giù lo Stretto che separava la Calabria dalla mitologica Sicilia.

    Secondo la leggenda, i pescispada attraversavano quel tratto di mare: i pescatori lo sapevano e li aspettavano per fiocinarli.

    I pescispada erano furbi, appena sentivano il freddo della morte arrivare con l’ombra della barca, davano un gran colpo di schiena e giù negli abissi.

    I pescatori dovettero farsi più furbi. Costruirono delle barche con un albero altissimo su cui saliva la vedetta. Appena avvistava il pescespada, urlava.

    < U visti, u visti a dritta, a punenti, a livanti … prestu a fiocina, prestu a fiocina ca scappa …>

    Il marinaio con la fiocina si precipitava all’estremità della passerella. Doveva fare presto, colpire il pescespada prima che sparisse in fondo al mare.

    Li ammazzavano con l’inganno. Ogni volta almeno due.

    Se colpivano prima la femmina, il maschio si lanciava furioso contro la barca in cerca di vendetta. Se colpivano prima il maschio, la femmina offriva alla fiocina il suo cuore. Maschio e femmina, insieme morivano d’amore e d’inganno.

    «I siciliani, - continuò il marinaio senza staccare lo sguardo dalla sua barca - non sapevano cosa fosse l’inganno: glielo insegnò Ulisse. Quando sbarcò in Sicilia, si vantò con tutti di quella bella trovata del cavallo di Troia, e poi, come se non bastasse, con l’inganno accecò Polifemo e con l’inganno fuggì. La Sicilia imparò l’inganno e non se lo scordò mai più.»

    La più grande pazzia, - pensai - spesso si confonde con la più grande saggezza. Nei porti, c’è sempre qualche marinaio che ha voglia di credere a tutte le favole che sanno di mare.

    «Non dobbiamo perdere la rotta segnata dalla luna.»

    Il marinaio continuava a parlarmi, calmo e deciso, con il tono sicuro di un vero comandante.

    Non riesco a pensare a cose concrete, non riesco a pensare a niente. Ho soltanto voglia di sole, di mare, di luna, di cielo, di boschi, di aquiloni lievi e colorati per giocare col vento.

    Il comandante mi svela il suo piano. Io sento solo cicale che cantano alla luna.

    «Bisogna avvicinarsi quando il sole è già stanco, quando socchiude gli occhi alla notte che avanza. È quella l’ora in cui lei aspetta il ritorno delle sue barche spadare. Dobbiamo cantare, farle credere che abbiamo catturato tanti pescispada. Dobbiamo ingannarla. Se si accorge che non siamo pescatori siciliani sparirà tra gli odori del mare e ci farà ingoiare da Cariddi.»

    Il comandante, navigava solitario le sue favole, quando un rumore vibrò la notte. Un trattore abbagliante riempi l’aria di tosse. Ci fu lavorio d’uomini intorno.

    Poi un brivido, un leggero sussulto: la barca spadara tentenna, si muove, ondeggia indecisa, avanza spaurita, sbuca all’aperto. Si arresta sgomenta nel centro dell’aia.

    La luna guarda stupita. La barca cerca inquieta la stella polare. Il gallo tradisce l’aurora e canta d’amore alla barca spadara.

    È già luce di giorno. Il sole fora l’intrigo di rami e di foglie e dritto minaccia ogni zolla. La rugiada, svanisce leggera, inseguendo un ricordo di luna. C’è sudore di terra nell’aria che trema. È tempo d’andare.

    Una scala di legno, abituata agli ulivi, s’adagia sulla barca spadara. Il comandante sale e sparisce alla vista. Ricompare a poppa, a prua, controlla fasciame e timone, scruta oltre l’azzurro improbabili nubi. Fa un cenno al trattore. Si salpa.

    La barca spadara, scortata da uomini e cani, conquista la rotta tra ulivi e filari di vigne. Ogni dosso un sussulto. Rametti improvvisi si frangono in foglie.

    La verde burrasca è di breve durata. L’azzurro di cielo assicura bonaccia. Scilla è già lì. Sugli usci spunta la gente, si pigia ai balconi, si stringe, fa largo alla regina del mare. La barca spadara avanza regale. Si mostra felice, ha voglia di farsi ammirare. Il paese è sul molo.

    Luna o non luna, la barca ha voglia di mare. Una lieve fatica e scivola dolce in un solco di schiuma.

    Macari ju vogghiu veniri… macari ju, piagnucola un ragazzotto con lo sguardo svanito.

    È Ciccio lo scemo del paese. Si vuole imbarcare.

    Nessuno ha il coraggio di spegnere quell’eco di voce.

    Il sole, ora è vampa di cielo. Un brivido azzurro percorre lo scafo, uno schizzo saluta l’ormeggio, la barca va incontro al suo mare.

    Il comandante ha smesso i suoi lunghi pensieri. Io, di contare i minuti.

    La barca scherza con le onde. Si tuffa giocosa, risale leggera, s’inoltra insinuante, avanza sicura d’essere amata.

    Nessuno bada alla manciata di case che scorrono via.

    La barca scivola su un sentiero di luna.

    È tornata la notte. C’è ancora voglia di mare.

    Mischiata alle stelle, la luce di via ci fa tutti compagni di viaggio: sartie e fasciame di un solo vascello che palpita e vibra.

    Negli occhi scheggiati di stelle una meta lontana.

    Briganti e Pircanti

    Ciccio è a bordo. Canticchia una nenia che sa di lune lontane, di scirocco e di gelsomini, che promette frescure d’oasi e occhi neri di fanciulle ma che, a tratti, s’incupisce in lamento di rosario, in scialle nero che ammanta le stelle. D’inganno in inganno.

    La luna gioca con la prua e si spruzza di mare.

    Una voce d’alto urla felice.

    «Sull’antinna sugnu, sull’antinna, propriu ‘ncima... Arrivai auto autu.»

    Ciccio è salito sull’antenna. È arrivato in cima ed è felice.

    «U munnu si vidi… tuttu u munnu. Cche granni ... cche beddu. Na favula pari... na favula bedda. >

    «E la Sicilia si vede?» Urla da basso qualcuno.

    «A Sicilia dormi abbrazzata alla luna.»

    «Com’è la Sicilia, com’è?» Sussurra una voce di donna.

    Qualcuno risponde con voce incantata.

    «La Sicilia è nove città e mille paesi. La Sicilia è montagne e laghi e boschi e campagne e fiumi e masserie e castelli. In Sicilia, dovete sapere, conventi ce ne sono più della rena del mare e tutti pieni di monaci con la panza china e di madri badesse con le facce tonde che paiono vastedde fatte in casa. Mangiano solo cudduri di miele e pasta reale.»

    «In Sicilia, - riprende lieve un’altra voce di donna - c’è una montagna che è colonna di cielo. Di fora è petra niura ma intra è focu vivu. È la casa del dio Vulcano che fa spade, elmi, corazze, lance per tutti gli dei dell’Olimpo… ma è anche porta dell’inferno, casa di diavoli e anime dannate.»

    «E i truvaturi? In Sicilia ci sunu i truvaturi?»

    «Ogni grotta ha la sua truvatura china china di tesori - chiarisce un tizio dall’aria di grande intenditore di leggende - oro, smeraldi, brillanti, rubini, argento e perle: perle bianche e perle nere ce ne sono a migliaia, a milioni. Tutti i tesori del mondo ci sono in Sicilia. La Sicilia è terra ricca... Ricca assai»

    «Allora tutti ricchi sono i siciliani?»

    «Eh, no! Voi, mi dovete capire. Io dissi la Sicilia è ricca, non dissi i siciliani sono ricchi. Ci sono più siciliani emigrati di quanti ce ne stanno in Sicilia ... mi sono spiegato?»

    «I pircanti ci sono?» Riprese quel tizio a cui non interessava la povertà ma soltanto la ricchezza.

    «I briganti? Certo che ci sono i briganti... »

    «Pircanti, dissi pir-can- ti.»

    «Ah, i pircanti … Certo che ci sono i pircanti. Ci sono i pircanti e ci sono anche i briganti. Grazie a Dio niente ci manca alla Sicilia, - rispose l’esperto di leggende - i pircanti sono compari dei briganti. Non c’è ricchezza senza pircante, non c’è pircante senza brigante.»

    «E cosa fanno i pircanti?»

    «E cosa possono fare? Fanno il loro mestiere di pircanti: non fanno toccare li truvaturi a nessuno!»

    «Ah … guardiani sono!»

    «Pircanti vi dissi, pircanti, esseri mostruosi sono. Che vi aspettate di vedere vigilantes con la divisa e la pistola? Fosse stato così, a quest’ora, i saraceni a colpi di cannone li avrebbero fatti saltare e si sarebbero acchiappati tutti i tesori della Sicilia.»

    «Anche i saraceni sanno che la Sicilia è piena di tesori?»

    «Di saperlo, tutti lo sanno e tutti li vogliono … specialmente i saraceni. Dovete sapere che i saraceni tutte le notti sbarcano in Sicilia in cerca di truvaturi.»

    «Tutte le notti?»

    «Tutte le notti…tutte le notti. Ma non li trovano. La Sicilia, la povertà la tiene a vista d’occhi, ma la sua ricchezza la tiene ammucciata. A nessuno la fa vedere... a nessuno. Ma sapete cosa fanno quei tizzuni d’infernu? Per non tornare a casa con le mani vacanti, sequestrano i siciliani e poi chiedono il riscatto.»

    «Tutte le notti?»

    «Tutte le notti!»

    «E i siciliani come fanno a pagare tutti questi riscatti?»

    «Non li pagano!»

    «E gli ostaggi… gli ostaggi li fanno ammazzare?»

    «Che ti parevano senza cuore i siciliani? Mai e poi mai lascerebbero i cristiani nelle mani dei saraceni. Quelli gli farebbero cose turche.»

    «E allora?»

    «Santa pazienza, fammi finire. Non sono sacco, le parole non le posso sduvacari tutte in una volta. Diciamo che il riscatto non lo pagano, ma gli ostaggi li liberano lo stesso e ci guadagnano pure assai. Ti va bene così?»

    «Miracolo è, miracolo!» Proclamò estasiata un’ingenua devota, facendosi tre volte il segno della croce.

    «Dovete sapere, - fu costretto a chiarire l’esperto di leggende - che

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