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Le Tentazioni: ed altri racconti
Le Tentazioni: ed altri racconti
Le Tentazioni: ed altri racconti
E-book157 pagine2 ore

Le Tentazioni: ed altri racconti

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Questo volume raccoglie sei racconti ambientati nello scenario preferito da Grazia Deledda, la Sardegna rurale e legata alle tradizioni:

- I MARVU;
- UN PICCOLO UOMO;
- L'ASSASSINO DEGLI ALBERI;
- ZIA JACOBBA;
- DONNA JUSEPA;
- LE TENTAZIONI;
- NEL REGNO DELLA PIETRA;


Maria Grazia Cosima Deledda è nata a Nuoro, penultima di sei figli, in una famiglia benestante, il 27 settembre 1871. E’ stata la seconda donna a vincere il Premio Nobel per la letteratura, nel 1926. Morirà a Roma, all'età di 64 anni, il 15 agosto 1936.
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2018
ISBN9788866613497
Le Tentazioni: ed altri racconti
Autore

Grazia Deledda

Grazia Deledda (Nuoro, Cerdeña, 1871 - Roma, 1936). Novelista italiana perteneciente al movimiento naturalista. Después de haber realizado sus estudios de educación primaria, recibió clases particulares de un profesor huésped de un familiar suyo, ya que las costumbres de la época no permitían que las jóvenes recibieran una instrucción que fuera más allá de la escuela primaria. Posteriormente, profundizó como autodidacta sus estudios literarios. Desde su matrimonio, vivió en Roma. Escritora prolífica, produjo muchas novelas y narraciones cortas que evocan la dureza de la vida y los conflictos emocionales de los habitantes de su isla natal. La narrativa de Grazia Deledda se basa en vivencias poderosas de amor, de dolor y de muerte sobre las que planea el sentido del pecado, de la culpa, y la conciencia de una inevitable fatalidad. Sus principales obras son Elías Portolu, La madre y Cósima. En 1926 recibió el Premio Nobel de Literatura.

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    Le Tentazioni - Grazia Deledda

    9788866613497

    I MARVU

    In un angolo della tavola da pranzo, che riflettendo la luce gialla del lume risplendeva come una lastra di rame, Diego e Maria giocavano appassionatamente a carte. Essi conoscevano a perfezione ogni partita, dalla scopa al tresette, dalla briscola al lanzichenecco e all'asino, e sempre giocavano, sino ad esaurirsi. Fuori imperversava il vento e gelava, tanto che il fuoco del camino e del braciere non bastavano a riscaldare il freddo ambiente della vasta stanza bianca, scarsamente arredata; ma i due giovanissimi giocatori non si accorgevano di nulla, non provavano freddo, non sentivano il vasto soffio del vento che scuoteva le inferriate e passava con un possente fruscìo come di mille giganti in corsa: e non pigliavano parte alla conversazione o meglio alle conversazioni. Giacché la numerosa famiglia era divisa per la vasta stanza in altri tre gruppi distinti.

    Intorno al pedale di legno dell'antico braciere, sul cui rosso fuoco la cenere stendeva un sottile merletto bianco, stavan Margherita, la maggior figlia, e Giovanni Faira, suo marito. Entrambi biondi, egli piccolo, pallido, con occhietti azzurri socchiusi; ella altissima ed elegantissima nel modesto vestito di indiana pelosa a quadrati rossi e violacei; venivano chiamati da tutti, anche in famiglia, i "signori l-i" per la loro diversa statura. C'era poi donna Martina, e, un po' lungi dal braciere, Filippa, la secondogenita e Nino Faira, fratello del signor Giovanni, che faceva segretamente e da lontano la corte a Maria, terza figlia di donna Martina Marvu. Nino, studente in primo anno di leggi, che passava in paese le vacanze natalizie, veniva ogni sera dai Marvu a scorrervi alcune dolci ore di segreta estasi, in contemplazione del graziosissimo volto di Maria, e portava sempre fasci di libri, opuscoli e giornali illustrati. Il suo amore era così profondo e segreto e la sua corte tanto sottile e misteriosa, che nessuno, neppur Maria, se ne accorgeva!

    Ei portava i libri e i giornali appunto e appositamente per lei, segnati a lapis rosso, con certe freccie sanguinanti che parevano estratte da profonde ferite, nei punti, nei periodi e nei versi che meglio s'adattavano al suo stato d'animo; ma nessuno ci badava; e tanto meno Maria, che era l'ultima a leggere i libri e i periodici già frustati e sciupati dalle altre sorelle e dal piccolo gregge.

    Il piccolo gregge (così donna Martina lo chiamava nel suo rude linguaggio), consisteva in quattro ragazzetti indemoniati, Martino e Peppino, Grazietta e Chichita, i due primi, dagli otto ai dieci anni, ultimi figli di donna Martina, e le bambine degni rampolli del piccolo e cascante Giovanni Faira. Grazietta contava quattro anni, e Chichita due e mezzo.

    Tutti e quattro, zii e nipotine, biondi e magri, chi con gli occhi grigi, chi con gli occhi neri, erano la disperazione della casa; stavano tutto il santo giorno a correre nel grande orto attiguo, gridando a squarciagola; arrampicandosi sui meli, sugli alti e snelli susini e persino sui pali del pergolato; incidendo nomi, date, geroglifici e parole insolenti sulle grandi e pallide foglie carnose dei fichi d'India, fabbricando case e giardini e castelli e stabilimenti interi, coi molini, i pozzi, ferrovie e i relativi ponti, fabbriche di terra... cruda, teatri, caserme, e persino prigioni di sassi e di rami, ove si rinchiudevano a vicenda.

    Avevano a lor disposizione corni da caccia, trombe, carri di ferula, buoi e cavalli di canna, fucili e rivoltelle della stessa materia, casseruole e mestole, e infine un bagaglio innominabile, nascosto pei buchi del muro, sugli alberi, sotto terra, da per tutto.

    Persino Chichita, alta due palmi, ancora balbuziente e con le gambette storte sempre ignude e rosse di freddo, perché le calzette invece della lor giusta missione compivano quella di copri-scarpe, pigliava parte a tutte le scorrerie della compagnia: se non poteva più la mettevano a far il pranzo, tutto d'erbe cattive e di polvere, o la rinchiudevano in prigione, rea d'innominabili delitti. Pur di far una parte, ella restava contenta, e in attesa del dibattimento scavava un pozzo entro la prigione.

    Occhiverdi, la gatta fulva dagli occhi di vetriolo, altro importante personaggio della compagnia, faceva la sentinella. Già, la poverina veniva costretta a tutti gli uffizî; a girar il molino, a tirare i carri, a far la guardia carceraria, a comparir sulle scene con lo strascico e la cuffia. Alle volte però, quando Chichita stava in prigione e i grandi sui muri e fra le siepi facevano la guerra e le battaglie di Roncisvalle o di Montaperti (Diego voleva esser classico allorché dirigeva egli gli eserciti), Occhiverdi scappava dal casotto, scuotendo le zampine bionde. Ed ecco che allora la prigioniera si liberava da sé, e correva dietro la sentinella: un caso veramente strano.

    Facevano così il giro dell'orto, e cadevano fra i guerrieri di Carlo Magno e di Farinata, scompigliandoli e mandando a monte tutto il piano di guerra.

    Grazietta, una spiritata, coi capelli sempre sugli occhi, che per i suoi quattro anni parlava già discretamente male del prossimo, picchiava Chichita; Peppino e Martino, nella lor qualità di zii, bastonavano le monelle; Diego, caporione e capitano di tutta la volante squadriglia, pallido e miope coi suoi tredici anni prepotenti, metteva tutti in castigo. Schiaffi di qua, pedate di là, il finimondo, la battaglia vera, con grida, pianti ed altri guai, e sputi e insulti dell'altro mondo. Ci si mischiavano persino i grandi, e una volta Giovanni Faira era stato sul punto di andarsene con la moglie e le figlie, perché Peppino aveva fracassato il nasetto rosso di Grazietta con un pugno numero uno, chiamandola ladra figlia di ladro!

    Una disperazione, infine. Andavano a mala pena a scuola, ma odiavano e mettevano in caricatura la povera vecchia maestra, e non studiavano né facevano nulla.

    La mattina uscivano di camera lindi e puliti e coi ribelli capelli acconciati; la sera non si riconoscevano più, con gli occhi e il naso pieni di terra, le manine graffiate e nere, i vestitini a brandelli. Filippa e Maria non bastavano a rattoppare.

    Solo al cospetto di Giovanni, il cui sguardo felino li impauriva, stavano alquanto tranquilli, ma egli, costretto dal suo impiego, restava fuori quasi tutta la giornata. A Maria e Filippa non badavano; e Margherita e donna Martina li avevano troppo viziati e ancor troppo li viziavano, perché potessero incuter loro rispetto e obbedienza.

    Esse d'altronde, sempre sopraffatte da faccende e da affari in quella gran casa di possidenti sardi, non avevano il tempo necessario per educare quei bimbi nervosi e prepotenti. Rinchiuderli in casa era come ucciderli, essendo essi come gli uccelli dell'orto selvatico, scesi dal nido appena messe le prime piume; eppoi avrebbero fracassato ogni cosa; e per mandarli in collegio, nelle città lontane, non era ancora tempo. Questo era il progetto, ma non ancora ben fermo perché mancava l'assentimento degli interessati. Una volta, infatti, avendo Diego sentito qualche cosa come l'annunzio della sua prossima entrata nel seminario di Nuoro, scappò di casa.

    Mancò due giorni e una notte, e per ricercarlo si dovette chieder anche l'aiuto dei carabinieri e dei barracelli: dopo ansie e timori indicibili fu ritrovato, nascosto fra le macchie d'un lontano podere. Bisognò non più parlargli di seminario, minacciando egli di far il bandito per davvero. Ora aveva tredici anni e studiava in privato presso il giovine maestro intelligente che aveva il diploma di professore; la sua infanzia turbolenta mischiavasi ancora al principio d'un'adolescenza maliziosa e fiera; e infatti, di giorno, quando non studiava, comandava il piccolo gregge nelle scorribande che, oltre la distruzione dell'orto, formavano il terrore degli umili vicini; di notte leggeva romanzi e giornali politici, giocava a carte e rubava i sigari di Giovanni, e parlava come un giovanotto, più malizioso di Nino Faira.

    Donna Martina non si dava tanto pensiero per le monellerie fin di secolo di Diego e dei piccini, perché ricordava che Margherita, Filippa e Maria, ai lor bei tempi eran state più monelle e sbrigliate di essi.

    Ed or Margherita era un'ottima sposa, signora e massaia perfetta, e le altre due, signorine serie, educate e rispettosissime. A parer suo! D'altronde, quel carattere indomito, caparbio e focoso la famiglia lo ereditava da lei, che aveva trascorso una esistenza quasi maschile. Allevata fra inimicizie e odi di partito e di famiglia, tra fucilate e processi e agguati, donna Martina, arido tipo di donna araba, alta, secca, di un pallore bronzino, naso aquilino e occhi neri grandissimi e fulminanti, maneggiava l'archibugio meglio della spola, cavalcava arditamente e faceva da sé ogni sorta di affari, sbrigando liti e controversie, e infine navigando meravigliosamente in quel mare tempestoso ch'è un grosso patrimonio nei villaggi sardi.

    Già, la buona anima di suo marito non era mai stato buono a nulla, ella diceva. Ed essa aveva comandato sempre in casa sua.

    Era ignorante e superstiziosa, ma di coscienza raffinata e di retto giudizio, nonostante la sua fenomenale superbia, che ella riconosceva.

    - Mi dicono superba, - diceva, - ebbene? Siamo in tempi che per vivere bisogna armarsi di sproni; altrimenti vi si cavalca come un mulo.

    Filippa le rassomigliava assai, fisicamente e moralmente; anche ella altissima per i suoi sani e forti vent'anni; una figura addirittura bizantina, con certe forme sottili ma dure, con certi occhioni oscuri e ovali, i capelli attortigliati e il vestito di percalle giallo a stelle e a ruote. Era altera, superba e ambiziosa; cavalcava stupendamente anche su puledri quasi indomiti; diceva di non creder in Dio; e benché donna Martina la dicesse una signorina educatissima, imprecava con la miglior grazia del mondo; e beffarda e sprezzante parlava male di tutti. Per lei tutti erano pezzenti, e se una persona era magra e pallida, come del resto lo era anche lei, voleva dire che non aveva di che mangiare!

    Filippa era lo spauracchio di tutti i partiti del paese. Ella aspettava, ma che cosa aspettava? Lo sapevano tutti: ella aspettava un alto ideale, un laureato ricco e nobile, un presidente di Corte d'Appello, un professore d'università, o, in assoluta mancanza di questi egregi personaggi che non si lasciavano mai veder in paese, uno di quei proprietari sardi che hanno dieci tancas di fila, col fiume in mezzo; che hanno le tasche piene di fogli bancarî, ma che per sé stessi, nella loro personalità, sono... quel che sono...

    (Apro una parentesi per dire che le tanche di maggior valore sono quelle provvedute di corsi d'acqua, ove il bestiame, essendo le tanche vasti pascoli chiusi, possa abbeverarsi. Una volta un ricco proprietario in berretta sarda sentì parlare dei miliardarî americani e dei milionarî europei.

    - Roscilde! - disse con disprezzo. - Chi è questo Roscilde che sento sempre nominare? Cos'ha questo Roscilde? Ha delle tancas col rio in mezzo?

    - No, non ne ha.

    - E allora cosa è? È un corno!).

    Per questa sua ambizione Filippa viveva un po' in discordia con Margherita, alla quale non poteva perdonare le nozze plebee con un piccolo avvocato senza titoli, tranne quello di segretario comunale. Nino Faira aveva una pazza paura di Filippa, e, oltre che per naturale timidezza, non svelava apertamente il suo amore per Maria, sapendo la fanciulla imbevuta e suggestionata dalle grandiose idee della maggior sorella che la dominava completamente. Per una strana furberia istintiva egli cercava però di ammansare la fiera ragazza, comportandosi con essa come non osava con Maria: standole vicino, le rivolgeva esagerati complimenti, in modo che Filippa si credeva corteggiata; ma tanto disprezzo ne sentiva che non degnava neppure offendersene.

    Ella, del resto, aveva abbastanza che fare per abbandonarsi a sciocchi sentimentalismi, teneva i registri, pagava i domestici, vendeva i prodotti e aiutava assai donna Martina negli affari più importanti.

    Ella così sapeva che in casa Marvu entravano, fra una cosa o l'altra, dodici mila lire l'anno. Di parte sua ella avrebbe avuto dunque due mila lire di rendita: quindi poteva ben pretendere, ben aspettare.

    Fra tanto cozzar di passioni grandi e piccole, Maria passava quasi inosservata, sebbene anch'ella avesse la sua discreta dose di superbia e di

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