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Artigli nei boschi
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E-book103 pagine1 ora

Artigli nei boschi

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Fantasy - romanzo breve (83 pagine) - Due giovani eroi, una guerra nel cuore oscuro della foresta, un'avventura di spade, magia e artigli.


Nel boschi di un'Europa arcaica, dove gli ultimi bagliori delle colonie atlantidee si scontrano con la marea della barbarie, si compie il destino di due giovani eroi.

Valawyne, una bambina che ha visto la propria famiglia sterminata dagli Ulfhednar, uomini-belve della Foresta Nera, è adottata da un branco di lupi e cresce con loro.

Alcuni cacciatori delle Terre Selvagge, venuti in cerca di fortuna nel ricco regno atlantideo di Finyas, sono imprigionati e derubati; una strega fa leva sulla loro rabbia e sete di vendetta per trasformarli in Ulfhednar, ma uno di loro, il giovane Helmor, si ribella.

Valawyne e Helmor si uniscono a un gruppo di soldati sbandati, guidati da un capitano di Finyas. Feroci scontri contro gli Ulfhednar decideranno il destino del regno, in una storia di spade, sangue e magia, amicizia e tradimenti.


Giorgio Smojver, nato a Padova da esuli giuliani, è laureato in Lettere classiche presso l'Università degli Studi di Padova, appassionato di mitologia comparata e letteratura medievale. È stato per anni bibliotecario e coordinatore del sistema bibliotecario del Comune di Padova, e in questa veste ho curato attività di promozione della letteratura. Ritiratosi, si è dedicato alla scrittura. Ha pubblicato un romanzo, Le Aquile e l'Abisso (Watson) e diversi racconti, tra i quali: L'anello infranto, in Premio Esecranda 2018, L'allodola e i rovi, in Oltre la SogliaCastrum Daemonum in Impero – Antologia Gladius & Sorcery, Watson.

LinguaItaliano
Data di uscita9 apr 2019
ISBN9788825408683
Artigli nei boschi

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    Anteprima del libro

    Artigli nei boschi - Giorgio Smojver

    Watson.

    Prefazione dell’autore

    Artigli nei boschi è la prima storia che ho scritto, anche se non nella forma attuale. È stata accantonata, ripresa e riscritta più e più volte negli anni. Sono stato uno dei fortunati bambini i cui genitori leggevano libri la sera. Quelli che più amavo ascoltare erano Il libro della giungla di Rudyard Kipling e Zanna Bianca di Jack London. Ero affascinato dai boschi, fossero giungle indiane o foreste innevate del nord, e dai lupi. Il richiamo della foresta l'ho letto invece da solo, a otto anni, e ugualmente amato. La voglia di richiamare la magia di queste letture infantili è uno dei motivi che hanno ispirato la storia.

    Il secondo fu la scoperta del Signore degli Anelli, verso i venti anni. Studente di lettere classiche, innamorato dei poemi dell'antichità e del rinascimento, ne ritrovai la complessità e l'epicità in quell'opera grandiosa. Fantasticavo sull'appendice, quegli Annali dei Re e Governatori che riassumono tremila anni di lotte epiche. C'era materia per decine di libri non scritti! Ma una cosa non capivo: i Numenoreani erano presentati come infinitamente superiori agli uomini comuni per sapienza, valore, durata della vita. Perché dunque la loro storia era una sequela di disastrose sconfitte, e Gondor da impero si riduceva a una città assediata? Fu stendendo la mia tesi di storia greca che capii. Tolkien non racconta gli Annali da scrittore onnisciente, come verità obiettiva, ma crea una cronaca antica di Gondor compilata ai tempi di Re Elessar, così come la Cronaca anglosassone fu compilata da fonti più antiche sotto Alfredo Il Grande. Il testo esprimeva il punto di vista di un sapiente di Gondor e Tolkien suggeriva di leggerla criticamente, così come uno studente legge in modo critico la Guerra del Peloponneso di Tucidide o le Storie di Erodoto.

    Accettata questa ipotesi, diveniva lecito chiedersi, come fa Sam Gangee, se Haradrim ed Esterling fossero davvero malvagi e se il loro odio non derivasse invece dai secoli di dominio spietato e dalla superbia di Gondor. Volli così coniugare la leggenda dei figli dei lupi e una storia di guerra molto liberamente ispirata a quella di Gondor e dei Wainriders. Non sono però così presuntuoso da presumere di entrare nel mondo di Tolkien: mi riferii quindi al mito condiviso secondo cui gli Atlantidi (parola che preferisco al più diffuso Atlantidei, perché è un patronimico) avrebbero colonizzato la Gallia, la Britannia e le coste di Spagna e Africa, e creai il mio mondo.

    Giorgio Smojver

    Nota dell'autore

    Questo romanzo, autoconclusivo, fa parte del ciclo di Helmor

    Capitolo I

    Ingrediuntur Heroes

    La storia non iniziò in una città né in un castello, ma in un casolare nel fitto della Selva Nera; era costruito solidamente, assi di legno di quercia, tetto di terra battuta coperto di zolle erbose. C'era una stalla, un recinto di maiali e un orto. Non era molto, ma il Padre e la Madre ne erano orgogliosi, perché quando erano arrivati lì non c'era niente. Erano di stirpe cimbra e fuggivano dalla loro terra invasa dai nemici, a nord. Il Nonno aveva disboscato e costruito la casa con le sue mani, con l'aiuto del figlio, che allora non era ancora il Padre; un'altra famiglia di esuli era arrivata con loro, ma erano morti durante il primo inverno, tranne una ragazza che sarebbe poi divenuta la Madre. Fu lei a piantare l'orto, spargendo semi che erano l'unica dote lasciatale dalla sua famiglia; il Nonno e il Padre erano abili cacciatori, raccolsero pellicce per venderle al più vicino villaggio, a tre giorni di marcia nella foresta, sinché poterono comprare due cavalli e quattro maiali. Chiamavano la casa Cinque Querce; una era quella che avevano tagliato per costruirla, le cui radici restavano sotto l'impiantito; le altre quattro segnavano, come mute sentinelle, i limiti dalla zona disboscata. Nacque un bambino e qualche anno dopo una bambina. Poi il Nonno morì: la bambina ricordava che aveva la barba bianca e il viso rugoso come un guscio di noce e le parlava del nord, delle terre perdute e del mare di Iperborea, oltre il quale vivevano gli Elfi. La bambina però non conosceva le terre del nord o del sud, lei non aveva mai visto altro che Cinque Querce e i boschi intorno, per il raggio di un giorno di cammino. Da quando aveva imparato a camminare aiutava la madre nell'orto, ma invidiava il fratello, di cinque anni più grande, che seguiva il Padre nella caccia e che aveva già un arco proprio.

    Sei volte l'anno il Padre attaccava uno dei cavalli al piccolo carro e andava a vendere le sue pelli al mercato del villaggio, in cambio di stoffa, sementi e utensili di bronzo. L'ultima volta portò il figlio con sé, e al ritorno il ragazzo raccontò alla bambina che il villaggio aveva decine di case, fatte di assi di legno liscio e dipinto e con tetti di tegole rosse, al mercato vi erano più persone di quante fossero le oche selvatiche quando si riuniscono per volare a sud, che vi erano mercanti che avevano visto Ker Lyonis, una città immensa tutta di marmo bianco. La bambina non sapeva se credere a tali meraviglie o se lui la prendesse in giro.

    Ma lei adorava il fratello, il suo unico amico, che ogni volta che poteva, quando lei non doveva lavorare all'orto, la conduceva nei boschi e le mostrava come trovare i nidi degli uccelli o seguire le tracce di un capriolo. Quando lei ebbe sei anni, un'altra famiglia costruì una fattoria a poche miglia da Cinque Querce. Era una coppia con due bambine, Alba e Lena, e così la bambina di Cinque Querce ebbe due amiche. Alba aveva nove anni e fu subito stabilito, come cosa ovvia, che da grande avrebbe sposato il fratello della bambina; Lena aveva la stessa età della bambina di Cinque Querce. Le due sorelle erano gentili e a casa loro vi erano venti libri, e Alba sapeva leggere! Due volte la settimana la bambina e il fratello avevano il permesso di andarle a trovare: erano un'ora di marcia nella foresta ad ogni andata e ogni ritorno, ma ne valeva la pena, perché Alba leggeva loro le storie antiche e iniziò persino a insegnare a leggere a Lena e alla bambina di Cinque Querce. Ma all'inizio di quell'inverno l'Orrore giunse senza preavviso, come una faina nella notte. Un giorno il Padre e il ragazzo tornarono dalla caccia tesi e silenziosi. Il Padre non volle raccontare alcunché, ma alla fine il fratello non poté resistere alle domande della bambina. Avevano trovato un cervo, decapitato, sventrato e quasi smembrato da lunghi artigli. La notte prima vi erano stati cori selvaggi di ululati, come se un grande branco di lupi fosse sceso dal nord. Ma quelle attorno non erano tracce di lupi, e i lupi non decapitano le loro prede. Un grande orso avrebbe potuto decapitare un cervo e avrebbe avuto artigli simili; ma perché portare via la testa? Quella sera il Padre tagliò robuste sbarre di legno di quercia e inchiodò ogni porta e finestra. E di notte i cori di ululati si levarono ancora, più vicini, e da punti differenti, come vi fossero diversi branchi. La bambina sentì che non erano i lupi che aveva udito in altri inverni. Il giorno dopo il Padre permise alla bambina e al fratello di andare alla fattoria della famiglia di Alba e Lena, ma questa volta volle accompagnarli e prese con sé l'arco, il coltello lungo da caccia e il suo miglior cane. Il bosco, ai lati dello stretto sentiero, era silenzioso come la bambina non ricordava di aver mai sentito; sembrava che uccelli e piccoli animali fossero fuggiti. Mancava ancora mezzo miglio alla fattoria, quando il cane iniziò a ringhiare, correndo in avanti e indietro, col naso sul terreno: e poi finalmente gli alberi si aprirono e la bambina

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