Il potere di Vanessa
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Camelia, Mimosa, Jasmine e Nénuphar si sono integrate in fretta seguendo le regole e accettando la guida degli educatori.
Vanessa arriva all’improvviso. Le assegnano una stanza e un letto.
Dopo ciò che ha fatto, il tribunale le offre un’ultima opportunità per recuperare.
Il carisma di Vanessa emerge fin da subito, mettendo in subbuglio la Dimora e le persone che la frequentano...
Una storia di bullismo al femminile.
Autrice
Raffaella Radice appassionata di lingue straniere, dopo un viaggio di due anni in Europa, approfondisce lo studio della letteratura ispano-americana e si laurea in Lettere moderne con una tesi intitolata “Viaggio lungo il río Marañon”. Nel 1995 parte insieme al marito per Cuba e per sei mesi vivono a L’Avana. Tornata in Italia collabora con alcune case editrici milanesi, accede all’insegnamento e consegue la laurea in Scienze e tecniche psicologiche.
Dal 2000 si occupa di adolescenza nel ruolo di insegnante, educatrice, coordinatrice di laboratori di scrittura creativa. È parte attiva del progetto “Un viaggio dentro la fiaba” presso le scuole medie inferiori che unisce il tema della disabilità nello sport all’espressione letteraria attraverso la fiaba; nel 2015 pubblica la raccolta di racconti per bambini intitolata Otto amiche per Clementina, scritta insieme alle ospiti della comunità residenziale per minori Diana. Nel 2010 coinvolge centinaia di ragazzi nel progetto di ricette e tradizioni etniche “Imparo cucinando”.
Nel 2014 pubblica il suo primo romanzo intitolato La Dimora (I libri di Emil) presentato all’Università Ca’ Foscari di Venezia in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
Il potere di Vanessa è il suo secondo romanzo.
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Anteprima del libro
Il potere di Vanessa - Raffaella Radice
Indice
PRIMA PARTE
QUARTO OGGIARO
LA DIMORA
QUARTO OGGIARO
LA DIMORA
QUARTO OGGIARO
LA DIMORA
QUARTO OGGIARO
SECONDA PARTE
LA DIMORA
MAGIA
TERZA PARTE
VENEZIA
MUSICA
Epilogo
Contemporanea
Raffaella Radice
IL POTERE DI VANESSA
© La Memoria del Mondo Libreria Editrice
Via Garibaldi, 51 – Magenta (MI)
www.lamemoriadelmondo.it
edizioni@memoriadelmondo.it
ISBN 9788899933807
Novembre 2019
Tutti i diritti sono riservati
Questo libro è opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti o a persone reali è puramente casuale.
Raffaella Radice
Il potere di Vanessa
romanzo
A Jeremy, Marika, Samuel, Gabriela, Enrico
e alla vita che trionfa
La pioggia sferza grassi e magri, potenti e umiliati. Il vento soffia su chi ha fame e su chi mangia troppo, su ammalati, su morenti e su chi si nutre delle invisibili sofferenze altrui.
Ma le salvezze avvengono con lentezza, perché tale è la nostra percezione del tempo. Il tempo e la verità tornano sempre; coloro che sembrano avere il dominio e cercano di impedire il ritorno della giustizia non fanno che accelerarlo.
Ben Okri
da La via della fame
PRIMA PARTE
QUARTO OGGIARO
A sedici anni compiuti Giacinta Garofalo avrebbe avuto qualche esitazione nel dichiarare la sua appartenenza. Se qualcuno glielo avesse chiesto avrebbe dovuto riflettere per decidere da dove venisse realmente, quali fossero le sue radici, se si sentisse più figlia della famiglia Garofalo o del quartiere.
Sapeva bene chi fossero i suoi genitori, viveva con loro da sempre. Li sfiorava nell’andirivieni continuo di quell’appartamento troppo affollato, poiché lei e i suoi fratelli stavano diventando grandi nel trilocale della torre in via Renato Simoni a Quarto Oggiaro.
Lì dentro otto persone erano davvero troppe. E allora lei in casa ci stava il meno possibile, per non posare lo sguardo sulla maschera sfiduciata del padre, per non dividere lo spazio della cameretta con Giada e Genny, per non subire le angherie dei fratelli, per non dover assistere alle fatiche di Filomena, sua madre, che in un moto perpetuo si prendeva cura della famiglia e garantiva la sussistenza a tutti.
Giacinta lì dentro si sentiva soffocare. E allora usciva, oltrepassava l’ingresso e scendeva a perdifiato le scale fino a raggiungere il cortile dove incontrava quelli che lei considerava la sua vera famiglia: gli amici.
Agli occhi di Giacinta il cortile era stato per anni regno inviolato dei maschi dei palazzi.
Da bambina lo attraversava insieme a Giada quasi di corsa, al mattino presto, col gelo che s’aggrappava alle orecchie e al naso e la nebbia che oltrepassava i jeans e impregnava le ossa; poi ne misurava la diagonale a passi lesti all’ora di pranzo, al ritorno da scuola, spinta dall’impulso della fame. La sera si metteva alla finestra e lei, piccola vedetta del terzo piano, osservava con ostinazione, alla ricerca di un guizzo, di un cenno di vita.
Nel buio tutto sembrava statico. Il grande spiazzo asfaltato circondato dalle torri con le mille finestre illuminate appariva sospeso e incerto in attesa del giorno a venire, ma poi il suo sguardo acuto scorgeva alcune sagome muoversi lungo i muri, negli angoli del vasto perimetro, sentiva le portiere sbattere con rigore metallico e un motore ronzare scoppiettante per lasciare la scia del suo ricordo. La curiosità la pungeva in un punto recondito in fondo allo stomaco, lei immaginava e sentiva forte il richiamo per quel luogo conosciuto eppure misterioso che la invitava a gran voce a far parte di sé.
Il cortile diventò, se possibile, ancor più attraente nel momento in cui suo padre le vietò di frequentarlo. La paura per la punizione fu annientata e vinta all’età di undici anni dalla brama di trasgressione quando, camuffata per non essere riconosciuta dai fratelli maggiori neanche a distanza, si calava in quell’universo pulsante.
Quando Giacinta varcò la soglia dell’adolescenza il quartiere era diventato la sua casa. Le vie erano madri e padri che ogni giorno forgiavano la sua esistenza al limite; il cortile un tempo suo iniziatore, trampolino di lancio verso il mondo esterno, ora era il suo maggior protettore, porto franco dove ritornare ogni volta per sentirsi di nuovo in pace.
Il rione offriva spunti d’azione fantasiosi e sempre diversi, confermandosi giorno dopo giorno guida esperta e instancabile. Il parchetto lungo la ferrovia, ombroso e confortante d’estate, spoglio e comprensivo d’inverno, era il paese dei balocchi del divertimento e dello sballo; i parcheggi al termine di ogni fuga s’allargavano come soccorrevoli braccia, mentre la facciata della chiesa austera nel suo rigore le restituiva dignità e rispetto.
Poi arrivava la domenica e il rito casalingo si celebrava a pranzo: tutti si riunivano in tinello e l’uomo di casa seduto a capotavola teneva il dominio della conversazione con i suoi racconti risucchiati dal passato e ogni volta finiva per nominare Rosario, quel fratello da anni in carcere per traffico di droga, e il povero Tonino, pace all’anima sua, morto giovanissimo in un incidente stradale.
La madre intanto era tutto un andirivieni dalla cucina alla tavola con recipienti traboccanti pasta asciutta, verdure oleose e tranci di carne che versava nei piatti con la cantilena mangia che è buono
e poi si sedeva con le guance rosse e l’aria soddisfatta e affondava la forchetta nel piatto pure lei.
Giacinta era colta da una tremenda nostalgia che provava a soffocare con dosi esagerate di cibo mentre sua madre la guardava orgogliosa e piena di soddisfazione e suo padre, colmandosi l’ennesimo bicchiere di vino rosso perdeva a poco a poco la loquela. Si accendeva una sigaretta e con gesto cavalleresco porgeva la fiamma a quella che pendeva dalle labbra della moglie. Lei sorrideva socchiudendo le palpebre in un tacito ringraziamento, inalava appagata, adagiava tra loro il posacenere, un oggetto barocco ricevuto come dono di nozze, e intrecciava con lui volute di fumo.
Dopo aver schiacciato i mozziconi nella conca di cristallo l’uomo scivolava in una sorta di torpore che consumava in poltrona, la bocca aperta e gli occhi chiusi, emettendo rantoli e grugniti.
La madre si ritirava in cucina insieme a Giada a lavare i piatti.
Giacinta si defilava.
In ogni caso, si diceva Giacinta, anche se fosse rimasta in casa i genitori non li avrebbe comunque avuti con sé. Mamma usciva ogni mattina alle sette e mezza per accompagnare Guglielmo alle medie poi Genny alle elementari e galoppare fino a scuola, dove faceva la bidella. Tornava il pomeriggio dopo le quattro, giusto il tempo di riportare a casa i piccoli, preparare loro la merenda e affidarli alle cure della vicina, quindi scappare al suo secondo lavoro dalla signorina Anselmi, la novantenne della casa rosa.
Il padre infilava gli scarponi anti infortunio ancor prima che facesse giorno e spariva per le scale facendo rimbombare il passo. Tornava imbronciato ogni sera, cenava senza dire una parola e farfugliando un rimbrotto sbatteva la porta per andare al bar della Tatiana.
Sin dall’infanzia Giacinta si sentiva afflitta da uno stato di malinconia, un desiderio assillante di ricongiungimento; non appena il desiderio veniva soddisfatto era però soppiantato dalla paura del distacco. Nella pancia la smania formava mulinelli, lei non trovava pace, perciò era costretta a muoversi in continuazione alla ricerca di qualcosa che a mala pena riusciva a sfiorare e che ogni volta sfuggiva, dissolvendosi.
Nonna Giacinta, da cui aveva preso il nome, una vecchia arcigna da sempre vestita a lutto che vedeva solo d’estate quando la famiglia si trasferiva in Puglia, glielo continuava a ripetere:
- Stai ferma, stai ferma. Guarda Giada com’è brava. Tu invece sei una tempesta.
E mentre l’anziana strillava producendo sonorità dialettali per lei incomprensibili, Giacinta urtava contro i mobili, scivolava sul corridoio lucido dell’ingresso, s’aggrappava alle maniglie delle porte, s’appendeva alla ringhiera delle scale. E poi correva fuori nei campi, dove s’arrampicava sulle piante d’ulivo, faceva la gincana tra gli alberi da frutto, penzolava a testa all’ingiù attaccata a un ramo e ogni estate immancabilmente cadeva e si rompeva un osso.
Affacciandosi alla pubertà Giacinta cominciò a esibire con naturalezza la sua immagine eterea. L’incarnato trasparente e roseo ricordava quello delle signorine aristocratiche dei dipinti ottocenteschi, i capelli fini e dorati venivano portati sciolti ad accarezzare le spalle conferendole un’aurea evanescente e delicata. Riparata dietro a un velo di squisita femminilità, Giacinta apprese presto a reagire alla violenza con violenza.
Seguiva istintivamente una linea di comportamento coerente col passato, un passato che lei non conosceva perché non lo aveva vissuto e nemmeno le era stato raccontato ma che scorreva poderosamente nelle sue vene. Era una nitida eredità, trasmessale da generazioni, una legge arcaica secondo la quale al male si risponde col male.
Giacomo fu il primo tiranno che incontrò e che per anni le diede il tormento.
Il primo maestro di conflitto quindi le si offrì in famiglia.
- Rospa portami la maglia - comandò una mattina.
- Vattela a prendere - rispose Giacinta che stava bevendo una tazza di latte e cacao.
- No, non ci siamo capiti, è un ordine. Portami la maglietta azzurra. E subito. Rana bollita.
- Ma che vuoi da me? Alzati e pigliala, la tua maglietta!
- Oh sorella diversa, qui quello che comanda sono io. Tu devi solo obbedire, capisci questa parola? Ob-be-di-re.
E mentre alitava il verbo della sudditanza sulla faccia della ragazzina, le afferrò il lobo dell’orecchio sinistro costringendola ad alzarsi dal tavolo e la trainò fino allo stendi panni.
- Ahi, lasciami. Lo dico a mamma.
- Ecco, brava, aspetta e spera.
Di fronte alla maglietta stesa Giacinta rimase immobile. Giacomo la penetrava con occhi minacciosi, lei lo sfidava sostenendo lo sguardo.
- Allora? Non ho tempo da perdere, io. Devo andare a scuola.
- Che me ne frega - disse lei facendo spallucce.
- Lo hai voluto tu - Giacomo le agganciò il braccio tirandolo dietro alla schiena tanto che lei si attorcigliò su sé stessa piegandosi in ginocchio.
- Ahia, mi fai male!
- Lo hai voluto tu. Ti avevo avvertita. Tu devi obbedire sennò sarà peggio per te. E ora chiedimi scusa - impose parlandole dall’alto al basso.
- Scusa, scusa, scusa.
- Brava sorellina. Così si fa, vedo che hai capito - disse liberandola - e adesso passami la maglia azzurra.
Giacinta allungò la mano e sfilò l’indumento dal filo metallico, porgendolo al fratello. Lui se ne andò con un sorriso compiaciuto lasciandola lì interdetta mentre si massaggiava il braccio dolorante.
Giacomo era il maggiore e come tale rivendicava pretese su tutti, voleva comandare, esercitava il privilegio della primogenitura su fratelli e sorelle a costo di usare le maniere forti.
Giuseppe, per convenienza, si era scelto il ruolo di miglior vassallo. Sebbene comunicassero prevalentemente a spintoni, a pacche sonore, a giocose lotte, i due anni che li separavano avevano fatto di Giacomo un modello, un esempio, un eroe agli occhi di Giuseppe che viveva nella sua ombra, in uno stato di totale asservimento e venerazione.
- Uh, guarda guarda, è avanzata l’ultima fetta di panettone… me la mangio io a merenda - proclamò Giuseppe un pomeriggio di dicembre aprendo lo sportello della dispensa.
- Eh no caro, non è giusto - disse Giacinta - facciamo la conta e chi esce se la mangia.
- Appunto. È meglio così - si intromise Giada - chi vince fa merenda con il panettone e gli altri si mangiano i biscotti.
Giacomo osservava in silenzio la scena, pregustandosi il dolce conteso dai fratelli minori. A un tratto si alzò dal divano e asserì:
- Fare la conta è una roba da bambini. Sfidiamoci a wrestling!
- A che? - chiese Giada.
- A wrestling - spiegò Giacinta esperta - la lotta.
- Si vabbè - ribatté Giada - io mi mangio i biscotti.
Spostarono le sedie e crearono un ring nel tinello dove i tre si batterono afferrando spalle, tirando gambe, facendo capriole, infilando la testa tra le ginocchia altrui provocando capitomboli. Giacinta ridendo lanciava calci con le gambe secche e nervose, provocando l’ilarità dei fratelli, impreparati a quella tecnica scomposta.
- A me il panettone! - proclamava la piccola infervorata dalla lotta.
Era tutto un groviglio di corpi e schiamazzi quando Giacomo urlando all’attacco
strizzò l’occhio a Giuseppe e insieme si avventarono sulla sorella. Bloccandola a terra, tenendole salde braccia e caviglie, la immobilizzarono.
- Ti arrendi?
- No, il panettone è mio.
- Non ho sentito bene, ti arrendi?
- No, il panettone è mio. E poi non è valido, siete due contro uno.
- Qui le regole le faccio io. Hai perso la lotta e anche il panettone.
- Noooo. Lasciatemi. Non è valido. Siete in due e io sono da sola, e poi siete anche più grandi.
- Ma poverina - la schernì Giuseppe - senti quanto si lamenta. Giacomo che facciamo?
- Io la terrei bloccata ancora per un po’ ma ho già l’acquolina in bocca… - rise l’altro sarcastico, lasciò la presa e si avventò sul dolce natalizio lasciandone solo un boccone al fratello minore.
Giacinta si alzò da terra e vedendo i due deriderla a bocca piena scoppiò a piangere e urlando insulti e maledizioni spalancò la porta di casa e corse giù dalle scale. Giada la raggiunse e la trovò rannicchiata nell’androne che sfogava la rabbia battendo i pugni a terra.
Giada si rimetteva ai fratelli con bisogno di protezione e li nominava di continuo quando era fuori casa - guarda che lo dico a mio fratello Giacomo, guarda che chiamo mio fratello Giuseppe - e nessuno dubitava della vicinanza tra loro, mori e paffuti, occhi scuri e pungenti, stessa pelle olivastra tanto che Giuseppe avrebbe potuto essere il vero gemello di Giada, appena un paio di centimetri più alto di lei, il medesimo profilo, lineamenti similmente marcati, e Giacomo due spanne più su di loro, assottigliato dalla crescita esibiva nell’aspetto un’impronta ugualmente mediterranea.
Giada, colma di gratitudine, era sempre pronta a servirli, a prodigarsi in faccende e favori per garantirsi la loro benevolenza.
Guglielmo, assillante sin da piccino, affrontava Giacomo con spavalderia e a sette anni, guardandolo dritto negli occhi gli disse:
- Sei solo un prepotente! Ma io lo so perché: tu sei geloso di me perché io sono il preferito di papà.
Giacomo, le labbra stirate da un falso sorriso, esibiva indifferenza e lo sbeffeggiava:
- Nano, ma che ne sai tu? Sei solo un moccioso.
Crebbe così Guglielmo, conservando un carattere spigoloso e poco incline alla mediazione.
Genny era amata da tutti in famiglia, nemmeno Giacomo riusciva a contrastare l’allegria che sprigionava quella bambina. Se inscenava per lei uno scherzo, seppur bonario, lo raggiungeva la voce severa di Giacinta:
- Non ci provare - e allora lui apriva le braccia e la piccola si lanciava verso di lui, facendosi stringere al petto.
Tranquilla e accondiscendente Genny solo di rado si concedeva un piccolo capriccio. Giacomo le andava incontro con aria seria ma la traiettoria veniva intercettata da Giacinta che si frapponeva tra loro e con convinzione diceva:
- Toccala e ti ammazzo.
Lei era in grado di tenergli testa: tra loro era sempre guerra aperta. Lo ammirava e lo detestava al tempo stesso, avrebbe voluto essere come lui per poterlo annientare, avrebbe voluto essere un maschio per poterlo prendere a botte e fargli un occhio livido. E quel desiderio lavorava in lei, costantemente.
Un impulso naturale la portò a sostituire la casa con il cortile dove era guardata dagli altri ragazzini con ammirazione e dove coltivava una coorte di amici.
Osservò e apprese all’ombra dei palazzi, mimetizzandosi nei gruppi gremiti di maschi che il più furbo e il più veloce vince, che nella giungla del quartiere il forte mangia il debole, il grande atterra il piccolo.
Assisteva con bramosia alle zuffe, registrava colpi e mosse, incitava, tifava, scommetteva sul più scaltro. Per essere accettata sviluppò grande capacità di adattamento e una notevole abilità di mimetismo. Conobbe Cesare, Simone, Amedeo, Antonio, Federico, Sebastiano e molti altri di pochi anni o solo mesi più grandi di lei e accanto a loro, tra discussioni, risate e litigi formò il suo pensiero, nel freddo pungente di gennai nebbiosi scambiò con loro parole e gesti, nell’asfissia delle estati conobbe turbamenti, attraversò emozioni.
La Giacinta bambina diventava ragazza, scegliendo atteggiamenti e sembianze, forgiandosi respiro dopo respiro in quel territorio collettivo, definiva se stessa e determinava la donna che sarebbe diventata.
Si applicò con metodo, ogni incontro era un’occasione d’addestramento, qualunque rapporto un’opportunità, perché Giacinta studiava il suo avversario a distanza, carpiva il punto debole di chi le aveva fatto un torto, lo assecondava da principio e quindi, giunto il momento propizio, lo colpiva senza pietà né ripensamenti. Sapeva aspettare. Giacinta calcolatrice senza scrupoli. Giacinta camaleontica. Giacinta regina di vendetta.
LA DIMORA
La porta d’ingresso della Dimora si aprì e apparve la direttrice seguita da una nuova ospite.
Dalia, Camelia e Gigliola, sedute al tavolo da pranzo, alzarono lo sguardo. Squadrarono la sconosciuta in silenzio. Piccola, nera, brutta. Povera stracciona, ma ad aprile si mette già i sandali? Spaventata, tenera, triste. Questi furono i pensieri che ognuna lasciò scorrere nella propria mente prima di rivolgerle un saluto.
- Ciao! - disse Gianmarco alzandosi da tavola e andandole incontro.
- Ciao - rispose lei timidamente mentre si lasciava avvolgere il piccolo palmo nella stretta morbida e forte dell’educatore.
- Welcome! This is your home - disse l’uomo trattenendo la gracilità delle dita infantili nell’incavo delle sue mani congiunte.
- Thank you - rispose lei seria.
Dalia spingendo rumorosamente la sedia contro il muro si alzò e andò verso la giovane.
- Ciao io sono Dalia e tu?
- Io sono Mimosa.
- Ah ma lo parli l’italiano!
- Un poco.
S’intromise Gigliola che tese a sua volta il braccio per presentarsi.
- Ciao Mimosa io sono Gigliola.
- Ciao.
- Da dove vieni?
- Nigeria.
- Daaai, sei nigeriana? Anche la mia migliore amica di Trezzo è nigeriana, è simpaticissima e ci conosciamo da quando siamo piccole.
- Sorry?
- Ragazze con Mimosa dovete parlare lentamente altrimenti non vi capisce - spiegò la direttrice - È qui da poco e solo da un mese ha cominciato a studiare l’italiano.
- Ah scusa - fece Gigliola e rispiegò tutto da principio. - Mia amica - disse battendosi la mano sul petto, alzando la voce come se l’altra fosse sorda - è nigeriana - e mentre lo diceva puntava il dito verso di lei per sottolineare l’equivalente provenienza - molto simpatica, very nice, capisci?