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Come corvi nella mente
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Come corvi nella mente
E-book134 pagine1 ora

Come corvi nella mente

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Info su questo ebook

"Come corvi nella mente" è soprattutto la storia di un grande riscatto, sia morale che pratico, perché proprio quando la protagonista sembra essere una donna perduta, il destino le chiede scusa e le regala una seconda alettante opportunità… Un insegnamento, quello di non arrendersi mai, che è per tutti una preziosa eredità.
LinguaItaliano
Data di uscita20 feb 2011
ISBN9788897268062
Come corvi nella mente
Autore

Marcella Icardi

Marcella Icardi, nata a Cuneo quasi 36 anni fa, vive in uno sperduto paese della “pro-vincia granda”, ai confini con la Liguria. Dopo il diploma, si laurea in lingua e letteratu-ra inglese presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Torino (2000), discutendo la tesi “I saggi critici di James Joyce”. Insegnante e giornalista per un settimanale locale, nel tempo libero, ama scrivere. È in corso di pubblicazione con la casa editrice “Le Brumaie” una raccolta di favole per bambini che uscirà in primavera, dal titolo “Favole di stagione”.

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    Come corvi nella mente - Marcella Icardi

    COME CORVI NELLA MENTE

    Marcella Icardi

    romanzo

    Copyright © 2011 by Giuseppe Meligrana Editore

    ISBN 978-88-97268-06-2

    www.meligranaeditore.com

    All rights riserved - Tutti i diritti riservati

    Marcella Icardi

    Marcella Icardi, nata a Cuneo quasi 36 anni fa, vive in uno sperduto paese della provincia granda, ai confini con la Liguria. Dopo il diploma, si laurea in lingua e letteratura inglese presso la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Torino (2000), discutendo la tesi I saggi critici di James Joyce. Insegnante e giornalista per un settimanale locale, nel tempo libero, ama scrivere. È in corso di pubblicazione con la casa editrice Le Brumaie una raccolta di favole per bambini che uscirà in primavera, dal titolo Favole di stagione.

    marcellaicardi@tiscali.it

    COME CORVI

    NELLA MENTE

    1

    Due grossi e inquietanti corvi neri si posarono sul davanzale della finestra. Amalia, tutta presa com’era dalle sue faccende domestiche non li notò. Quello, per lei, era un importante giorno di festa: il decimo compleanno di suo figlio maggiore, Riccardo. Era il 25 febbraio del 1946, la guerra era finita da un anno e tutti e tutto ne portavano ancora le conseguenze. L’aria di miseria si respirava dappertutto: in ogni casa, nella vita di tutti i giorni, in qualsiasi angolo di quello sperduto paese di campagna della provincia di Cuneo, incastonato nelle colline delle Langhe, ai confini con la provincia di Savona. Una terra di frontiera, dove la povertà e il dolore si leggevano negli occhi di ogni essere vivente.

    Ma per quell’occasione, Amalia non aveva voluto badare a spese: il compleanno del suo primogenito era una sorta di riscatto, era uno scossone da tutta la sofferenza nella quale sprofondò due anni prima, quando morì suo marito Mario. Un brutto attacco di peritonite se lo portò via nel fiore degli anni e la lasciò da sola con tutta l’enorme montagna d’incombenze e preoccupazioni a crescere i suoi figli.

    Passato un primo periodo di strazio e smarrimento la donna dovette reagire per l’unica sua ragione di vita: i figli. Era sempre stata una ragazza forte e coraggiosa, abituata al sacrificio e alla fatica: era cresciuta in una famiglia di mezzadri e sapeva bene cosa voleva dire sudare sotto il solleone di agosto per riuscire a fare qualche sacco di grano che sarebbe poi diventato farina, quindi pane, quindi sopravvivenza.

    Quando rimase vedova dunque seguì quella filosofia di vita che aveva imparato fin da piccola.

    Era stato molto difficile per lei; negli anni più duri della guerra aveva dovuto rimboccarsi le maniche: occuparsi della campagna, delle bestie e di tirare su i suoi figli che erano ancora piccoli. Soprattutto Amalia si era dovuta sdoppiare, aveva cercato in tutto e per tutto di compensare l’incolmabile vuoto lasciato dal marito, aveva imparato ad essere per Riccardino e Carletto sia una brava madre che un buon padre. Tutto questo in un contesto sociale veramente desolato: la guerra aveva annullato ogni sentimento di disponibilità e solidarietà, essere buoni e generosi verso gli altri era un lusso che nessuno o quasi si poteva permettere. Per questo non aveva potuto, né voluto chiedere aiuto a nessuno, ma aveva tirato fuori tutta la sua forza e la sua intraprendenza e aveva deciso di contare solo su se stessa. Orgogliosa com’era, non voleva assolutamente che nessuno, neanche i suoi familiari provassero pietà per lei e in effetti era solita ripetere: - Con la compassione non si mangia!

    Amalia era così: da un lato dolce, amorevole e paziente con i bambini, dall’altro caparbio e determinato come un bravo capofamiglia quando si trattava di coltivare l’orto o di vendere e contrattare le mucche.

    Così quel giorno lei non voleva pensare a niente, desiderava che tutto fosse perfetto e soprattutto sperava che la festa potesse alleviare un po’ i partecipanti dalle ansie del dopoguerra. Per questa ragione aveva tirato a lucido tutti i mobili: la credenza della cucina, le mensole, gli armadi, i comodini, i letti e perfino la stufa che quel giorno sembrava scoppiettare in modo speciale. Tutto brillava. Con grande passione aveva preparato dopo tanto tempo i ravioli e un bell’arrosto di maiale concesso da suo cognato Giovanni che, per quanto potesse sembrare impossibile, era stato colto da un impeto di bontà. In effetti, pensò Amalia, quel giorno di festa avrebbe fatto bene anche a lui, che era il fratello di Mario e che dalla sua morte non si era più ripreso: aveva reagito esternando in maniera ancora più forte la sua cattiveria e la sua avidità. Amalia però tendeva sempre a giustificarlo, diceva che i suoi modi di fare erano frutto di tutto il dolore che si portava nel cuore – se mai ne avesse avuto uno – dopo l’esperienza del campo di concentramento.

    Dopotutto condividevano la stessa casa: lei e i figli abitavano al pianterreno, mentre Giovanni viveva al piano superiore con la moglie. Loro non avevano potuto avere figli a causa delle botte che lui aveva preso in tempo di guerra, per lo meno questa era la convinzione che si era messa in testa Adelina, la cognata. Entrambi vivevano con molta sofferenza questa condizione: la triste realtà di non essere genitori era una condanna diventata sempre più insostenibile che aveva spinto in modo particolare la donna ad essere molto invidiosa dei nipoti. Perché a lei sì e a me no?: era questo il tarlo che la tormentava in continuazione, pensando ad Amalia e la rendeva una vipera pronta a sputare veleno a ogni urlo dei ragazzini. Quanto a Giovanni, il suo ruolo di zio si espletava solo ed esclusivamente nell’autorità: i piccoli Martini dovevano capire che dopo la morte del padre era lui che comandava. Così quando si rivolgeva a Riccardino e Carletto urlava sempre, anche se non ce n’era bisogno. Amalia però spesso metteva da parte l’orgoglio e cercava sempre di passare sopra tutti questi fastidiosi atteggiamenti: lei, fondamentalmente, era una donna pacifica, mite e umile e si sentiva in debito verso Giovanni e Adelina che l’avevano tenuta in casa dopo la morte dell’amato Mario. Si era perfino dimenticata che rimanere in quella casa era un suo pieno diritto: Giovanni non perdeva occasione di ricordarle che tenerla lì era un favore che lui le faceva per misericordia. Per quieto vivere, Amalia aveva incominciato a convincersi di questo e mise in un cassetto della sua mente quelle parole che il marito era solito ripeterle come se il destino gli avesse già suggerito qualcosa: - Guarda Amalia che se mi succedesse una disgrazia tu puoi rimanere in questa casa con i nostri figli. Giovanni ed io l’abbiamo ereditata metà per uno.

    Al compleanno di Riccardo chiaramente erano stati invitati anche loro, ma soprattutto Amalia era molto felice perché tra poco sarebbero arrivate le sue sorelle Giuseppina e Luigia da Torino. Loro, che non si erano sposate erano state mandate a servizio quando erano poco più che adolescenti e ogni volta che ritornavano al paese, in famiglia si creava una magica atmosfera di attesa e di gioia. La più grande era Giuseppina, fisicamente in tutti i sensi: la maggiore delle sorelle, la più alta di statura e la più robusta di corporatura. Era la più burlona, le sue battute erano proverbialmente conosciute in tutto il paese. Lei che non aveva avuto figli era adorata dai bambini che rimanevano tutti a bocca aperta quando incominciava a raccontare le sue barzellette, le sue avventure torinesi o le sue storie. Luigia invece era più giovane e più esile. Lei era quella colta della famiglia perché era stata l’unica che grazie allo zio prete aveva terminato la quinta elementare. Amava vantarsi di questo privilegio, ma senza mai far sentire inferiore chi la circondava che magari a stento riusciva a fare la propria firma. Era una donna molto discreta, fine e raffinata nei modi che adorava leggere, così spesso aveva l’abitudine di parlare per citazioni e quando tornava al paese erano in pochi a capirla, ma lei aveva comunque il pregio di farsi volere bene da tutti.

    Amalia, invece, avendo messo su famiglia era quella che per forza di cose aveva uno spirito più pratico, una particolare intraprendenza che solo le mamme hanno. Andava dritta al sodo senza mai concedersi distrazioni.

    Quella della festa era la prima dopo anni. Attendeva quel giorno da tanto tempo e non vedeva l’ora che l’evento avesse inizio. La tavola era già apparecchiata ed era degna di un banchetto sontuoso per ricchi signori, pensò. Per l’occasione aveva tirato fuori dal baule del corredo una preziosa tovaglia di fiandra. Amalia ricordava ancora l’emozione della sua mamma quando poco prima del matrimonio gliela donò come se fosse un lingotto d’oro e raccomandandole di usarla solo in occasioni speciali. E quella lo era veramente. In effetti, tirò fuori anche il servizio buono, regalato da zia Gina. Ora che tutto era a posto, era arrivato il momento di pensare a lei. Amalia non era mai stata una donna trasandata, nemmeno nei grandi momenti di dolore. Per lei essere curata e bella era quasi una ragione di vita, era un po’ come esorcizzare il male e allontanare le tragedie. Così quel giorno indossò la gonna più bella che le era rimasta, un maglioncino di angora che teneva come una reliquia e un bellissimo paio di scarpe col tacco che avevano per lei un valore speciale visto che

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