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La corte dei leoni
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E-book481 pagine7 ore

La corte dei leoni

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Info su questo ebook

«Rivoluzionario, illuminante e commovente.»
The Globe and Mail

Il destino può riservarti il più incredibile dei doni

Kate Fordham, in fuga dal suo passato, ha trovato riparo sotto falso nome nella bellissima Granada, l’antica e soleggiata città spagnola sulla quale la dominazione araba ha lasciato evidenti tracce. Nel tentativo di ricostruire la sua vita, Kate lavora come cameriera in un bar all’interno dell’Alhambra, l’antica reggia del sultano. Un giorno, passeggiando in quei giardini meravigliosi, fa una scoperta insolita: nascosto in una crepa del muro di cinta c’è un rotolo di carta. È un manoscritto risalente a prima del 1492, l’anno della caduta di Granada, quando la città araba si arrese alla regina Isabella e al re Ferdinando d’Aragona. Sul rotolo proveniente da quell’epoca lontana sono iscritti strani simboli che riportano un messaggio di pericolo e disperazione. Ma è dall’amore che nasce il misterioso frammento, e la potenza di quel sentimento finirà per cambiare per sempre la vita di Kate. 

Un'autrice bestseller pubblicata in 27 Paesi

Il nuovo avvincente romanzo epico di Jane Johnson

«Un amore tormentato e indistruttibile, magnifiche atmosfere. Scritto splendidamente, impossibile staccarsene.»
The Times

«Giardini, profumi, torri e cortili dell’Alhambra. Questo romanzo incanta mentre si muove tra passato e presente.»
Sunday Express

«Rivoluzionario, illuminante e commovente, questo romanzo provoca una riflessione sugli eventi attuali ma anche sulla resilienza dell’amore e della speranza.»
The Globe and Mail

«I libri di Jane hanno tutto quello che si può desiderare. Ti agganciano dalla prima pagina e ti accompagnano con passione, storia e romanticismo.»
Katie Fforde
Jane Johnson
È una scrittrice e una storica inglese. È l’editor inglese di Dean Koontz e George R.R. Martin e con lo pseudonimo di Jude Fisher ha pubblicato alcuni albi illustrati ufficiali delle trilogie Il signore degli anelli e Lo Hobbit, collaborando alla realizzazione dei film di Peter Jackson. Un viaggio in Marocco le ha cambiato la vita e ha influenzato profondamente la sua scrittura.
LinguaItaliano
Data di uscita20 set 2017
ISBN9788822715043
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    Anteprima del libro

    La corte dei leoni - Jane Johnson

    Capitolo 1

    Kate

    Granada

    Oggi

    Kate non si considerava una vandala. In vita sua, non aveva mai danneggiato niente di proposito (eccetto se stessa), men che mai un sito dichiarato patrimonio culturale dell’umanità. Mossa dalla curiosità per una pianta che assomigliava a un rampicante comune in Inghilterra, detto ciombolino o ederina dei muri, si era avvicinata per guardarla meglio, e aveva notato un oggetto che non avrebbe dovuto trovarsi lì. L’aveva tirato fuori, e nel farlo aveva causato una piccola frana.

    Si era guardata intorno, sperando che nessuno l’avesse vista. Il complesso dell’Alhambra, costruito nel Medioevo dai re islamici di Granada e circondato dai suoi giardini maestosi, per lei rappresentava la perfezione: il paradiso in terra. Se l’avessero buttata fuori, sarebbe stata come la cacciata dall’Eden. Nascose l’oggetto nel palmo della mano e tornò a sedersi composta, cercando di apparire innocente.

    A quanto pareva, nessuno l’aveva notata, neppure il gruppo di turisti con cui era arrivata. Avevano formato un capannello e stavano leggendo con attenzione la guida; poi guardarono verso il palazzo d’estate, oltre la gola, con le visiere che brillavano nella luce bassa del pomeriggio e i bastoncini da trekking sotto il braccio. Li aveva osservati mentre salivano a passi decisi sulla collina, oltre la Porta dei melograni, con i bastoncini che ticchettavano sulle pietre, come se fossero diretti a un campo base sull’Everest invece che in un giardino andaluso inondato dal sole.

    Kate si voltò dall’altra parte e si sistemò una ciocca dietro l’orecchio per osservare ciò che aveva trovato, in preda a un piacere semplice e inaspettato. I capelli avevano impiegato un po’ di tempo a ricrescere, come se farsi vedere in pubblico li rendesse nervosi. Adesso, però, le arrivavano alle spalle. La loro lunghezza rappresentava la misura in cui si stava riappropriando di se stessa.

    Aprì la mano: si trattava solo di un pezzo di carta straccia, che qualche visitatore aveva probabilmente infilato in una fessura del muro invece di buttare. L’abitudine voleva che la aprisse con scrupolo. (Con la carta da regalo usata faceva sempre così, staccava con cautela lo scotch cercando di non strapparla. Da bambina, a Natale, aveva esasperato la famiglia prolungando all’infinito il momento dell’apertura dei regali con la sua pazienza lievemente autistica). All’interno del piccolo rotolo di carta, trovò uno strato di granelli bianchi, grezzi, e, sotto di essi, una serie di simboli tracciati con l’inchiostro.

    Nel suo cervello balenò all’istante un ricordo: una domenica piovosa di molto tempo prima, lei seduta con Jess e un libro aperto sul pavimento.

    Erano gemelle. Non monozigote, ma era difficile distinguerle, se si impegnavano. Quel giorno, avevano letto a turno, ad alta voce. Lei interrompeva Jess di continuo, facendola impazzire con le tipiche domande di una bambina di otto anni. «Sì, ma che tipo di ragni sono? Da dove sono venuti? Come hanno fatto a diventare così grandi? Nei nostri boschi esistono ragni che intrappolano le persone nella ragnatela e le mangiano vive?».

    Furiosa, Jess aveva posato il libro a faccia in giù, per impedire alla sorella di leggere. Allora, Kate aveva notato un particolare che le era sfuggito: il motivo della copertina proseguiva sul dorso e sul retro. E non era un motivo qualsiasi: erano simboli che sembravano appartenere a una specie di alfabeto incomprensibile. Aveva sfiorato il bordo, meravigliata. «Guarda», aveva esclamato. «Lettere!».

    Jess aveva sospirato. «Sono rune, stupida», aveva esclamato, con un’aria di superiorità quasi da adulta. «È un’altra lingua». Indicò un punto, sulla costola. «Lì, vedi? Quello dovresti riuscire a capirlo».

    Era una specie di doppia B appuntita. Kate ebbe un’illuminazione e capì che, insieme alle lettere vicine, andava a formare un nome. «C’è scritto Lo hobbit!», gridò. Era come sbirciare in un mondo segreto. «Cosa dice il resto?».

    Avevano passato il resto del pomeriggio a traslitterare il codice e a mandarsi messaggi nella nuova lingua. Negli anni, erano diventate bravissime. Codici diversi, giochi diversi. Quando Jess, nel suo anno sabbatico, era partita in Interrail per l’Europa, Kate aveva ricevuto strane cartoline: qualche riga scritta in alfabeto runico, seguita da un cuore e da una J, messaggi che rimanevano criptici anche una volta decodificati.

    Ragazzi girovagano come lupi. Un morso o un bacio?

    Un francobollo italiano e la foto di una statua di Romolo e Remo. Dalla Spagna, l’immagine del monumento di un eroe a cavallo, Rodrigo Díaz de Vivar, detto El Cid, a Burgos. Lo sguardo d’acciaio di C. Heston e capelli da autodafé, tradusse Kate. Cara lettrice, che balestra.

    Balestra era una delle loro parole in codice, scoperta leggendo i racconti di Chaucer. Quando Kate aveva tradotto quella lettera, la quarta, era scoppiata a ridere e la mamma le aveva chiesto il perché. Ovviamente, non gliel’aveva detto.

    Assorta nei ricordi, Kate sorrise e continuò a scrutare il foglietto. I simboli assomigliavano alle rune di Tolkien: tuttavia, non era facile trovare un principio per interpretarli, non riusciva neppure a capire se si dovessero leggere da sinistra a destra o viceversa, oppure dall’alto verso il basso. Era una serie di segni minuscoli, come se avessero voluto risparmiare spazio oppure rendere ancora più oscuro il segreto che contenevano.

    Forse si trattava di un messaggio per un amante, che parlava di gelosia, di tradimento, di adorazione eterna. Oppure, era solo un gioco, la lista della spesa, un parto della sua fantasia, addirittura. Una cartaccia senza alcun significato che qualcuno aveva infilato nella fessura del muro per non disturbarsi a cercare un cestino. Quello che avrebbe dovuto fare lei, forse.

    Invece, si infilò il foglio nella tasca dei jeans. Forse, era semplicemente un alfabeto che non conosceva, come l’ebraico o il cirillico. Avrebbe potuto portarlo al bar per vedere cosa dicevano gli altri. Era un ambiente cosmopolita. Guardò l’orologio. Erano quasi le cinque. Quella settimana aveva il turno serale. Era meglio per le mance, ma le scombinava il sonno. Si rimise in piedi, le ginocchia schioccarono e fece una smorfia. Si vede che sei vecchia, Kate. Ti scricchiolano le ginocchia e porti l’orologio. Era l’unica al bar ad averlo: gli smartphone avevano vinto. Da quel pensiero ne scaturì un altro. Devo telefonare a Jess e Luke.

    L’idea di riprendere contatto con il mondo avrebbe dovuto rallegrarla, invece fu come se una nuvola avesse appena oscurato il sole.

    * * *

    «Anna! Anna Maria, sto parlando con te… mi hai sentito?».

    Kate sussultò e alzò lo sguardo dalla lavagna su cui stava scrivendo i piatti speciali della serata, in spagnolo su un lato e in inglese sull’altro: patatas a la pobre, patate alla povera; piquillos rellenos, peperoni ripieni; boquerones, alici marinate. «Scusa, avevo la testa fra le nuvole». Impiegò un momento per trovare un’espressione adatta in spagnolo. «La cabeza en las nubes».

    Jimena scrollò la testa, rassegnata. «A volte sembra che tu sia su un altro pianeta. Quando ho iniziato a lavorare, se non fossi saltata sull’attenti ogni volta che Paolo mi chiamava, mi sarei ritrovata in mezzo alla strada, a fare trabajo de negros».

    Lavori da neri.

    I racconti di Jimena sulla vita dura che aveva avuto prima di affermarsi, con le unghie e con i denti, e diventare la proprietaria della Bodega Santa Isabel erano sempre coloriti; i suoi commenti razzisti, però, erano proprio sgradevoli. Kate si morse la lingua e le mostrò la lavagna. «Ecco. Va bene?».

    Jimena scorse con gli occhi la parte in spagnolo, il volto lungo concentrato come quello di un’aquila. «Chicharrón con due erre», osservò, sottolineando l’unico errore e restituendole la lavagnetta senza neppure una lode. «E, come ti dicevo, il tavolo sette fa schifo e bisogna cambiare la candela sul cinque».

    Dette quelle parole, se ne andò a sgridare qualcun altro.

    Kate vide che si dirigeva verso Leena e Giorgio, che malauguratamente erano al bar con le spalle rivolte al bancone. Stavano ridendo, le teste vicine, divertiti e complici. Avrebbe voluto avvertirli, ma fu questione di secondi e fecero un balzo, come bambini colti con le mani nel sacco, e misero via il cellulare. Un attimo dopo, il telefono era nelle mani di Jimena, confiscato per il resto della serata, come se il capo fosse una matrigna cattiva. Kate sfiorò il foglietto di carta che aveva in tasca, e lo lasciò lì.

    Fece un giro rapido dei tavoli, sistemando le sedie e raddrizzando le tovagliette, allineando un coltello che qualcuno aveva lasciato storto. Sostituì la candela sul tavolo cinque e passò la spugnetta sulla cerata del sette, muovendosi come un automa, senza mai smettere di pensare che doveva chiamare Jess.

    Era passata meno di una settimana dall’ultima volta che avevano parlato, ma una preoccupazione la tormentava: sperava che Luke non fosse malato. Al solo pensiero, un dolore lancinante le scosse tutto il corpo.

    «Ciao, Anna!», gridò Axel, avvolto in una nuvola di vapore. Accanto a lui, Juan tagliava e pelava patate.

    «Dopo ci facciamo una bevuta?», chiese.

    «Forse». A volte, quando staccavano, bevevano una birra seduti sui gradini, sul retro: stava bene in compagnia dei due ragazzi, nonostante si sentisse così vecchia che potevano essere figli suoi.

    Axel aveva i lineamenti dolci degli svedesi e i capelli biondi; Juan era scuro e aquilino, spagnolo di Madrid. Erano come due facce della stessa medaglia: poco più che ventenni, andavano di città in città, facendo qualche lavoretto e divorando la vita, insieme ai chilometri. Kate aveva trentanove anni. Invidiava il loro stile di vita privo di legami. Anche lei si trovava lì, alla deriva, senza àncora, molto, molto lontana dall’esistenza di un tempo. Eppure, non si sentiva né leggera né spensierata: tutto il contrario. Forse era questa la differenza fra i trentanove e i venticinque anni.

    Cerca di vivere il presente, Kate. Così si ripeteva, con convinzione. Fece alcuni respiri profondi. La vita è una sola. «Va bene», si corresse. «Se non finiamo troppo tardi».

    La clientela, quella sera, era variegata. L’Alhambra e la città che si era sviluppata intorno a essa attraevano visitatori d’ogni sorta. Ragazzi che facevano il giro delle città europee, troppo pieni di narcisismo e di ormoni perché la maestosità e il senso tragico del luogo toccassero il loro cuore; accademici che andavano in giro con il taccuino, e guardavano, guardavano, senza in realtà vedere niente; coppie in viaggio di nozze, venute a sospirare davanti ai tramonti e nei patii romantici; viaggiatori navigati che camminavano svelti per i giardini, ansiosi di macinare gli ultimi metri e giungere al Palazzo dei Nasridi per spuntarlo dalla lista delle meraviglie in programma; vecchiette svitate che toccavano le mura, convinte che nessuno le vedesse, come se potessero risvegliare qualche fantasma; nordafricani dagli occhi scuri che scrutavano torvi tutto ciò che avevano perso, là, dove un tempo erano stati re. Tutti entravano in cerca di tapas, del vino del posto, un bel rosso scuro, e di cerveza.

    Be’, non era proprio così. Quando ad accogliere i clienti c’era Jimena, i rappresentanti dell’ultimo gruppo venivano respinti con un brusco «Non abbiamo tavoli» (sottintendendo «per quelli come voi»), anche se il locale era palesemente vuoto.

    Affermare che il capo era razzista non le rendeva giustizia. Era come se Jimena si considerasse l’ultimo avamposto della Spagna cattolica, un grande inquisitore che lottava contro le orde degli infedeli. Finché comandava Jimena, gli arabi non erano i benvenuti nella bodega; e guai se ne lasciavi entrare uno. «Sono terroristi, tutti. Credi che non ti ammazzerebbero subito se pensassero di farla franca? Ho perso un cugino per le bombe a Madrid. È da secoli che vanno avanti così, quelli. Ce l’hanno nel sangue. Ci odiano perché ci siamo presi delle cose, e passano il tempo a pensare a come riprendersele, o in alternativa distruggerle. Sono il nemico. Sono sempre stati il nemico. Se non ho il potere di tenerli fuori dal mio paese, li terrò almeno fuori dal mio bar!».

    La prima volta che Kate aveva sentito quella filippica – diretta a un nuovo arrivato che aveva avuto l’ardire di far sedere una famiglia di turisti marocchini, gentilissimi – dentro di sé si era fatta piccola piccola. Un tempo avrebbe chiesto spiegazioni al capo, ma con gli anni aveva perso la sua sicurezza e non riusciva a trovare il coraggio necessario. Si odiava per questo.

    Quella sera, ai tavoli erano seduti svedesi, francesi, tedeschi, giapponesi e danesi; sentì Leena che salutava questi ultimi con un allegro «Hej hej!». Niente inglesi, e ciò le dava un po’ di sollievo. Kate si agitava ogni volta che sentiva un accento britannico, anche se non lo conosceva. Era assurdo, lo sapeva, ma non riusciva a evitarlo.

    Verso le undici e mezzo fece una breve pausa e uscì in strada, perché lì il cellulare prendeva meglio. Chiamò il fisso della sorella. Ci fu una lunga attesa prima che iniziasse a squillare, e poi continuò a suonare a vuoto. Così a lungo, appunto, che temette di aver sbagliato numero. Sul cellulare non aveva registrato nessuna informazione: era un telefono da due soldi con una scheda spagnola che ricaricava in contanti; ed era stanca, quindi era possibile che avesse digitato male. Si concentrò e inserì nuovamente il numero, ma anche quella volta non ci fu nessuna risposta, neppure dalla segreteria telefonica. A Kate venne la pelle d’oca. Probabilmente, Jess era uscita e aveva dimenticato di impostarla. In quel caso, però, non avrebbe risposto la babysitter? Provò con il cellulare. Partì direttamente la segreteria. Sicuramente Jess era andata a letto presto. Avrebbe riprovato a telefonarle la mattina seguente; non c’era niente di cui preoccuparsi.

    Ciononostante, per il resto del turno si sentì oppressa dall’ansia, sebbene indossasse la sua maschera fatta di sorrisi cordiali e amabili chiacchiere.

    Quando il gruppo dei danesi finì le bevute e se ne andò, finalmente, con la promessa di tornare entro la fine della settimana, l’una era passata da un pezzo e Kate stava trattenendo sbadigli talmente potenti che ogni volta rischiava di slogarsi la mandibola. Ai giovani non importava che fosse tardi; avrebbero dormito di più la mattina dopo. Per Kate, al contrario, scombinare orari e abitudini era un problema. Se mi sbrigo riesco a racimolare sei ore di sonno. Quindi, vedendo Juan che si avvicinava con un paio di bottiglie di birra fra le dita della mano, iniziò a scrollare la testa. «A dire la verità, ho cambiato idea. Stasera, no… sono troppo stanca».

    Lui si strinse nelle spalle. «Magari domani, eh?».

    «Buonanotte, Anna!». Leena la baciò sulla guancia. «Ci vediamo domenica». La sua collega era fortunata: ben due giorni liberi.

    Kate salutò tutti e sgusciò via nella notte. Era arrivata a Granada l’anno prima, d’estate, durante un luglio particolarmente soffocante. Eppure, non era ancora riuscita a farsi contagiare dall’atmosfera rilassata del posto. I suoi tacchi risuonarono sulle pietre irregolari del vicolo stretto che conduceva a Plaza Nueva, e le saracinesche di metallo dei negozi ne rimandarono l’eco. Quando attraversò il quartiere arabo, chiamato Albayzín, qualcosa schizzò fuori dalle tenebre e attraversò di corsa una chiazza di luna per gettarsi nella boscaglia buia della collina della Sabika. Kate fece un salto, spaventata, poi si rimproverò: un gatto, sicuramente. O magari una volpe. Che stupida ad agitarsi tanto per una creaturina che senza dubbio aveva molta più paura di lei.

    Seguì il corso del fiume Darro, rimanendo sulla strada principale per un tratto, poi svoltò a sinistra su Calle Zafra e montò a passo deciso la stradina stretta, lastricata di sassolini rotondi resi scivolosi da tutti i piedi che li avevano calcati nei secoli, che in caso di pioggia potevano rivelarsi letali. Nelle vicinanze di Calle Guinea, tirò fuori le chiavi e le strinse nel pugno, lasciando sporgere la punta come le avevano insegnato al corso di difesa personale. Non era un luogo malfamato, l’Albayzín, anche se a volte sapeva essere inquietante. Lei stava sempre attenta, comunque. In quel momento, vide il pezzo di carta che aveva trovato quel pomeriggio nel muro che volteggiava a terra. Aveva dimenticato di mostrarlo ai suoi colleghi per vedere se riconoscevano i simboli. Non importava. Poteva sempre farlo l’indomani.

    Si accovacciò per raccoglierlo, e stava per rialzarsi quando sentì qualcuno che la chiamava per nome. Senza urlare, a bassa voce.

    «Kate».

    Lì, nessuno la chiamava Kate. Nessuno. Lì, era Anna. Anna Maria, per l’esattezza. Moreno, di cognome. Era un cognome comune, voleva dire mora di capelli. Un piccolo gioco di parole. Un indizio, addirittura…

    Balzò in piedi, con il cuore che batteva all’impazzata e la chiave stretta nella mano, pronta a colpire. Era convinta che la voce fosse arrivata da dietro. I battiti sempre più forti. Si guardò rapidamente intorno. Nell’oscurità, tutto era immobile.

    Smettila, Kate.

    Si sforzò di ignorare la paura, si mise a correre nel vicolo, fino alla sua porta.

    Quando allungò la mano verso la serratura, la luna illuminò la ragnatela di minuscole cicatrici pallide che le ricopriva l’avambraccio.

    Capitolo 2

    L’aveva quasi raggiunta. Sentiva il suo fiato caldo sulla schiena nuda. Le gambe sembravano di piombo, per quanto si sforzasse di correre. Infatti lui la acciuffò e…

    Il trillo del telefono sul comodino svegliò Kate, proprio nel momento in cui quella mano le stava afferrando la spalla. Rimase distesa, con il cuore che batteva forte, e tentò di penetrare la membrana del sogno, provò a indovinare perché stesse correndo nuda in un vicolo. Il ritorno alla realtà fu graduale, come se il sogno stesso fosse in combutta con il suo inseguitore. Si accorse che era ancora buio pesto, dai bordi delle tende scure non trapelava il minimo bagliore. Era nervosa. Prese il telefono e rimase a fissare il messaggio. Di Jess, ovviamente; l’unica persona che aveva il suo numero.

    Sono da Sarah. Sono venuta sulla scogliera. In casa non c’è linea. Domattina ti scrivo una mail. Ti voglio bene. Jx.

    Erano le 3:28 del mattino. Sarah, l’amica di Jess, viveva in un cottage sperduto in Cornovaglia. Cosa aveva spinto sua sorella ad andare a piedi fino alla scogliera nel bel mezzo della notte per mandarle un messaggio? La richiamò subito, ma non ricevette risposta. In preda all’ansia, scese dal minuscolo letto a castello e andò alla finestra, camminando a piedi nudi sulle mattonelle fredde. Scostò le tende e guardò verso la gola del Darro, dove la luna rischiarava i tetti e le mura dell’antica fortezza. Cosa ci faceva lì, a migliaia di chilometri dalla sua vera vita? Appoggiò la fronte al vetro, guardando le nuvole create dal suo fiato sulla superficie fredda. Inspira ed espira, continua a respirare. A volte, era l’unica soluzione.

    Alla fine, tornò a letto e rimase sdraiata, nel tentativo di prendere sonno, e invece di contare le pecorelle recitò i nomi dei fiori selvatici che lei e Jess vedevano sulle siepi mentre andavano a scuola:

    Ortica mora

    Macerone

    Cerfoglio dei prati

    Senape selvatica

    Occhi della Madonna

    Ederina dei muri

    Non funzionò. Allora passò ai nomi scientifici:

    Lamium galeobdolon

    Smyrnium olusatrum

    Anthriscus sylvestris

    Sinapis arvensis

    Veronica chamaedrys

    Cymbalaria muralis

    Considerata la sua passione per le piante, avrebbe dovuto intraprendere la carriera di botanica. Invece, era finita a fare la data analyst. Era convinta che applicando la logica avrebbe avuto un minimo di controllo sulle sue scelte. Purtroppo, la vita sembrava decisa a dimostrarle il contrario. Infatti, dove si trovava? Non era più una data analyst ben quotata, con il suo stipendio sostanzioso, ma una cameriera che viveva all’estero sotto falso nome, e che aveva perso tutto ciò che di più caro aveva al mondo.

    * * *

    Kate fu svegliata di nuovo dallo squillo del telefono. Quando prese il cellulare per rispondere, però, quell’aggeggio maledetto si spense: si era scaricata la batteria. Aveva dimenticato di metterlo in carica, come faceva ogni sera, religiosamente, prima di coricarsi. La sera prima aveva avuto davvero paura.

    Nell’attesa che il telefono si ricaricasse, prese a camminare avanti e indietro per l’appartamento, preparò del caffè, se ne versò una tazza e uscì a berla in terrazza, seduta sul muretto, in una chiazza di sole. Adorava la vista che si godeva da lassù, la distesa ondulata di tetti di terracotta che, in alcuni casi, proteggevano le case da secoli, fino ad arrivare all’Alhambra: dall’altura rocciosa oltre la gola sovrastava la città, maestosa, con le sue mura fulve e imponenti, i bastioni e le torri. Vivere in quel luogo magnifico doveva essere stato straordinario. Si chiese se una persona cresciuta a palazzo potesse mai diventare normale, se potesse anche solo lontanamente agire in modo comprensibile agli altri esseri umani. Secondo la sua esperienza, per quanto piccola, il lusso viziava la gente, la rendeva meno umana, meno comprensiva; certe persone si facevano un’opinione troppo alta di se stessi. Diventavano crudeli.

    Rabbrividì, e scacciò quel pensiero.

    Adesso, il cellulare aveva un po’ di carica. Chiamò Jess, e quando scattò la segreteria, riuscì solo a dire che sperava che lei e Luke stessero bene, e che avrebbe richiamato. Attaccò il telefono al caricabatterie. Preparò un’altra tazza di caffè. La bevve. Prese il cellulare, lesse di nuovo il messaggio. Ne lasciò un altro in segreteria:

    Jess chiamami. Adesso sono preoccupata sul serio!

    Se ne pentì all’istante. Trascorsero altri dieci minuti, senza nessuna risposta da parte della sorella. Era ridicolo. Non poteva passare tutto il giorno ad aspettare che il telefono si caricasse e sua sorella la chiamasse; aveva una vita, nonostante il massimo del divertimento fosse fare il bucato e la spesa al supermercato.

    Erano quasi le undici quando andò in Calle Charca per lasciare i panni da lavare a Rosita, una spagnola allegra e cicciottella che tre volte alla settimana faceva il bucato per chi non aveva la lavatrice, come Kate, mentre suo marito si occupava delle consegne alla bodega. Ritirare la biancheria profumata il giorno seguente era uno dei piaceri della vita, per Kate. Niente aveva un profumo più delizioso delle lenzuola asciugate al sole dell’Albayzín: sembravano intrise dell’incenso dei secoli, con un tocco di arance amare e brandy speziato. Dopodiché, Kate passò dal piccolo supermercato di Calle Panaderos e dalla piazza del mercato per comprare frutta e verdura biologiche e dall’aspetto meraviglioso. E di Jess ancora nessuna notizia!

    Mentre rincasava con la spesa, a Kate parve di udire il muezzin della moschea, la Mezquita Mayor, qualche strada più in là, che chiamava i fedeli musulmani alla preghiera. Drizzò le orecchie in cerca del canto lontano, ma nel vicolo stretto spuntò un camioncino rumoroso e fu costretta ad appiattirsi contro il muro grezzo. Quando il baccano cessò, ormai il muezzin era tornato al silenzio. La moschea era stata costruita meno di vent’anni prima. La città, alla fine, si era arresa alle pressioni della folta comunità nordafricana, costretta a pregare nascosta nei garage e nelle case private, che reclamava un luogo di culto. La cattolicissima Spagna aveva cacciato i mori alla fine del XV secolo, e aveva permesso loro di tornare più di mezzo millennio dopo, a quanto pareva, e di intrecciarsi nuovamente al ricco ordito di un paese che loro stessi avevano contribuito a civilizzare. Al muezzin, però, era stato negato il permesso di usare l’altoparlante.

    Passò dall’internet café per mandare un’email a Jess. Di turno c’era Hicham, non Saïd, e lui non la guardava negli occhi quando la salutava, né le porgeva la mano per ricevere i soldi: aspettava che lei mettesse le monete sul banco, come se Kate potesse contaminarlo con un solo tocco. Di solito, il negozio era pieno di ragazzi, ma lei non si sentiva a disagio quando Saïd era in servizio, anche se era da sola. Invece il modo in cui la trattava Hicham la mandava in confusione. Mentre armeggiava con la borsa per mettere dentro il resto, fece volare un pezzo di carta che rotolò sul bancone di melamina. Hicham lo fermò, schiacciandolo con il dito.

    «Scusa», disse lei, d’istinto. Poi aggiunse: «Perdón». Allungò il braccio per riprenderlo, ma l’uomo lo coprì con la mano. I suoi occhi neri la sfidarono.

    «Perché hai questo?»

    «Cosa?».

    Lui ripeté la domanda. Confusa, fece spallucce. «Scusa, è solo spazzatura. Avrei dovuto buttarlo in un cestino. Ma non lo trovi mai quando lo cerchi, da queste parti, eh?». Kate fece una risata goffa. Forse si era resa colpevole di qualche oscura offesa: far cadere un pezzo di carta straccia davanti a un uomo islamico? Non ne aveva idea.

    «Se è spazzatura, perché lo rivuoi?».

    Lei non rispose. Vide Hicham che prendeva il foglietto per guardarlo meglio. Solo allora si accorse di cosa fosse. Era il pezzo di carta che aveva sfilato dalle mura dei giardini del palazzo, il giorno prima. «Oh. Per favore, lo rivoglio».

    Hicham fece un sorrisetto. «Non credo. Non è tuo».

    Per un attimo, in preda all’imbarazzo, Kate temette di scoppiare a piangere. Che diavolo le prendeva? Quando era diventata così patetica? Era solo il commesso di un internet café che voleva scherzare. Un giochetto sgradevole e inquietante, con cui voleva esercitare il suo potere su una donna; ormai, doveva averci fatto il callo. E poi, era davvero così importante? Tutta questa confusione per un pezzetto di carta. Si ricompose. «Tienilo, allora».

    Per un attimo, lui parve confuso. Poi, buttò il foglietto sul bancone. «Non scherzare con me». Girò sui tacchi e si avviò verso la stanza sul retro, con il telefono all’orecchio.

    Lei infilò il foglio in borsa. Hicham l’aveva fatta davvero innervosire. Come si permetteva di comportarsi così? Saïd era sempre gentile, era facile parlare con lui e a volte flirtava persino. Stava con una donna spagnola, comunque, una bella ragazza di nome Pilar, che lavorava in un museo. O, almeno, Kate pensava che Pilar fosse la sua ragazza. Gli uomini di cultura araba potevano uscire con qualcuno oppure l’unica relazione accettata era all’interno del matrimonio? Le sue certezze in fatto di uomini islamici – anzi, di uomini in generale – se le avesse messe per iscritto, sarebbero entrate sul retro di quella carta di caramella, o qualunque cosa fosse.

    Trovò un computer libero nell’ultima fila, tra un gruppo di adolescenti che ridacchiavano e un giovane silenzioso che cambiò subito posizione per coprire lo schermo da occhi indiscreti. Come se a lei importasse se guardava un porno a mezzogiorno, di venerdì. Be’… a quanto pareva le importava. Immagini sgradite emersero dal fondo dei suoi ricordi, fendendo le onde scure con pinne affilate.

    No. Non ci avrebbe pensato. Non l’avrebbe fatto. Doveva scoprire perché Jess le aveva lasciato un messaggio a notte fonda, controllare se era arrivata l’email che le aveva promesso.

    Entrò nell’account anonimo di posta elettronica, ma non trovò niente da parte di Jess. Un paio di spam da indirizzi che non conosceva. Non le aprì.

    Sospirando, uscì e aprì un sito di notizie, presa da un turbine di pensieri. Un attacco terroristico in Nord Africa. La rottura del cessate il fuoco in Medio Oriente. Attacchi con i droni, migranti annegati, un vulcano che aveva eruttato in America del Sud. Ovunque, morte e distruzione.

    Perché Jess non l’aveva richiamata? Forse perché da Sarah non c’era campo. La zona era alquanto isolata: sulla costa settentrionale della Cornovaglia, in fondo a una valle stretta che conduceva al mare. Fra i cespugli di aglio orsino e di ortica, sul sentiero ingombro d’erbacce, si trovavano massi di granito ricoperti di muschio su cui gli antichi avevano inciso delle spirali. Kate e Jess avevano aiutato Sarah con il trasloco. Trasportare il frigo su quella stradina era stato un incubo. Anzi, quell’esperienza in generale l’aveva turbata parecchio. Trovava il luogo inquietante e le sue uniche consolazioni erano state la vista delle lucciole scintillanti che sfrecciavano fra gli alberi, la prima sera; e una volta salita in cima alla scogliera in cerca di un po’ di sole, nella brughiera, il suo incontro con una Dactylorhiza maculata, un’orchidea screziata, con intricate volute lilla e bianche che ricordavano un motivo cachemire.

    Doveva essere successo qualcosa a Jess, per forza. Perché sua sorella era andata fin laggiù senza avvertirla? Kate immaginò Luke avvolto in una coperta sul sedile della Fiat ammaccata di Jess, mentre lei guidava nella notte, infervorata, fino alla Cornovaglia, che in pratica era la fine del mondo.

    Kate sentì la morsa dell’ansia stringerle lo stomaco.

    Tornò alle email, controllò di nuovo il telefono. Stava per terminare la sessione quando le venne in mente che, forse, tra la spam c’era qualcosa di interessante. remaker@google.co.uk

    All’improvviso, si ricordò che era il nome usato da Sarah per il suo lavoro di ristrutturatrice. Cliccò sull’email. Ci mise una vita a caricare, e quando il testo comparve, era in codice.

    Kate provò un brivido di terrore misto a eccitazione. Terrore, perché Jess aveva sentito il bisogno di oscurare il messaggio. Eccitazione, perché aveva un enigma da risolvere.

    Rovistò nella borsa in cerca di una penna e di qualcosa su cui scrivere. L’unico pezzo di carta disponibile era il foglietto che aveva trovato nel muro. Non poteva usare quello. I suoi simboli la sfidavano: i triangoli rovesciati e i cerchi con i puntini, i segni lunghi e sottili e le E inclinate. Ce n’era uno a forma di cavalletto, un altro che sembrava una Y con i bracci molto divaricati. Poteva trattarsi di un reperto antico, importante. No, non poteva usare quel pezzo di carta per gli appunti. Sul pavimento vide il giornale del giorno prima. Lo raccolse. Nelle pagine sportive trovò una foto enorme di Cristiano Ronaldo. La sua faccia, grande e sgombra, offriva un sacco di spazio per lavorare sul codice. Dopotutto, come constatò con una certa delusione, il messaggio non era lungo.

    G3.E2D4-D5A3B4…

    A Kate sfuggì un sorriso. Era facile da risolvere, stranamente. Non fu neppure necessario fare la tabella: le bastò ragionare a mente.

    CI HA…

    Quando Kate arrivò alla quinta lettera, il suo cuore batteva ormai all’impazzata. No. Non poteva essere vero. Non l’aveva… Sentì il caffè che le risaliva in gola, e dovette ributtarlo giù deglutendo con forza, tanto da attirare l’attenzione degli adolescenti che la guardarono con gli occhi scuri. Per un attimo, sentì la testa vuota. Digrignò i denti, sforzandosi di mantenere il controllo.

    Quando si ricompose, si accorse che uno dei ragazzi la stava fissando. Aveva detto qualcosa ad alta voce? Avrebbero pensato che era pazza. Oppure una penitente che recitava una preghiera. Oppure una strega, intenta a lanciare un incantesimo. Il giovane disse una frase e gli amici si voltarono verso di lei, guardandola con malizia. Poi, all’improvviso, uscirono tutti insieme, gridando e ridendo.

    Kate tremava. Fece un respiro profondo per calmarsi e tornò al messaggio in codice, pregando di essersi sbagliata.

    Non era così.

    CI HA TROVATO, KATE.

    Capitolo 3

    Benedict

    Granada

    1476 (Shaban 881 secondo il calendario islamico dell’Egira)

    Lui accarezzò le piastrelle sul muro del palazzo, e subito desiderai, ardentemente, che fosse la mia pelle quella che toccava con tanta tenerezza.

    «Guarda, Benedict», ripeté. «Guarda bene. Cosa vedi?».

    Che noia.

    «Disegni», risposi, mostrandomi apposta ottuso. «Solo disegni».

    Il principe Abu Abdullah Muhammad, erede al trono di Granada, che io chiamavo semplicemente Momo, sospirò. A volte la sua pazienza mi faceva venire voglia di spaccare tutto. «Ragnatele, non le vedi? Centinaia di ragnatele, migliaia».

    A me non sembravano ragnatele. Io le avevo viste, le ragnatele vere, tese fra i cactus del deserto, gli esili filamenti a malapena visibili alla luce del sole. Queste, invece, erano verdi, dorate, rosse e bianche. Arrivai alla conclusione che gli artigiani avessero usato la fantasia e le avessero adornate. I sultani non volevano che i loro palazzi fossero decorati con ragnatele vere: avevano un esercito di schiavi al loro servizio per cancellare ogni traccia di realtà.

    «Rappresentano le tele che i ragni hanno filato per proteggere il profeta, mentre fuggiva dai nemici sulla strada di Medina», continuò Momo.

    Gli piaceva istruirmi nelle materie religiose, poiché mi considerava un pagano, un piccolo selvaggio. Era così che mi aveva soprannominato, e io avevo permesso a quei nomignoli di plasmarmi.

    «Il profeta, che la pace sia con lui, si nascose in una caverna sulle montagne e i ragni si misero a tessere come pazzi per chiudere l’ingresso con le loro tele. Quando gli assassini si imbatterono nella grotta, le ragnatele erano talmente fitte che passarono oltre, convinti che nessuno potesse esserci entrato per anni».

    Sbadigliai. Avevo già sentito quella storia. «Non possiamo andare fuori?», mugolai.

    «Fra un minuto. Gli uomini che hanno creato questo zullayj erano gli artigiani migliori al mondo. Immagina quanta cura e pazienza hanno impiegato per tagliare ogni singolo pezzo in modo così preciso». Con il dito, seguì il contorno del motivo intricato formato dalle tessere. Nella sua voce si percepiva la venerazione. Per quanto possa sembrare folle, ero geloso di un muro.

    Quando mi avevano portato all’Alhambra, la fortezza mi era sembrata così imponente che mi ero spaventato. Gli altissimi soffitti di legno, intagliati o a cassettoni, pieni di minuscoli particolari; ancora peggio, gli stucchi simili a merletti, che pendevano all’alto come acqua ghiacciata o favi giganteschi. Tutto mi terrorizzava, letteralmente. Ero sicuro che mi sarebbero caduti addosso nel corso della notte, non riuscivo a dormire e sgusciavo fuori dal letto, andavo in giardino e mi raggomitolavo in una nicchia. Prima di venire qui, avevo sempre dormito in tende basse di pelle di cammello, o sotto la volta stellata. Impiegai mesi per abituarmi a vivere al chiuso. Se non fosse stato per Momo, sarei già scappato da un pezzo.

    Lui mi afferrò la mano e mi condusse nella sala successiva. «Come va con l’arabo? Ora riesci a leggere questa iscrizione?», insisté. La calligrafia stilizzata formava un fregio sull’intonaco traforato. Sospirai. Sicuramente parlava di Dio. Tutto parlava di Dio, e in arabo classico per giunta, che non c’entrava niente con la mia lingua. Alzai gli occhi, controvoglia. Il richiamo del sole e delle arance, delle fontane e della pelle bagnata era irresistibile per me. Procedendo da destra a sinistra, farfugliai, recitando a memoria:

    Sono un giardino ornato di bellezza:

    se la guardi, me ne accorgerò.

    O Muhammad, mio re, mi sforzo di essere all’altezza del gioiello più bello mai esistito o che mai esisterà.

    All’improvviso, mi accorsi che quelle parole toccavano una corda personale, e arrossii. Momo, però, non lo notò. I suoi profondi occhi d’ambra si erano fatti distanti.

    «Un re. Un giorno, diventerò il sultano. Siederò sul trono di Granada, farò rispettare le leggi del mio regno e difenderò i miei sudditi». Parlò in tono sognante. Sbatté le palpebre e tornò a guardarmi. «Cosa ne pensi?».

    Feci una smorfia. «Sembra alquanto noioso. Quale persona sana di mente vorrebbe essere un re?». Lo presi per mano e lo trascinai fuori, nella luce del giorno.

    * * *

    La calura si era insinuata sin nei patii interni e nei giardini nascosti, e tutti si erano rifugiati nelle fresche stanze del palazzo. In giornate come quella, in cui i precettori sonnecchiavano, io e Momo potevamo sottrarci alla loro severa disciplina.

    Passammo un’ora a schizzarci con l’acqua delle fontane, cercando di non gridare o ridere troppo forte. Stavamo attenti a posare il piede solo sulle mattonelle blu, per sfuggire ai jinn; mentre il fratellino di Momo, Rachid, ci sbarrava la strada. Per evitarlo, poiché era un vero scocciatore, corremmo velocissimi nell’ombra screziata dei viottoli, sotto le gallerie di rampicanti, sopra il burrone e fino alla Collina del sole, dove i giardini erano selvaggi e meno curati. I lamenti di Rachid ci seguirono, simili a grida di uccelli, fino a perdersi in lontananza nella foschia.

    In questi giardini, fra scoppi di lillà e di lavanda, papaveri bianchi e fiori blu, veniva coltivata la frutta e la verdura per il palazzo. Quando maturavano i piselli, non appena i giardinieri si voltavano dall’altra parte, li rubavamo e ce ne andavamo via con le braccia piene, poi li sbucciavamo e ci rimpinzavamo dei dolci frutti. In base alla stagione, sgraffignavamo l’uva o le pere; le mele che crescevano sulle spalliere lungo un muro di terracotta, le albicocche sull’altro muro. C’erano peschi e melograni carichi di frutti.

    Facendo una deviazione per aggirare una coppia di giardinieri, circospetti, udimmo dei miagolii acuti che provenivano dalle aiuole di erbe aromatiche. Fra il prezzemolo e la lavanda, trovammo una gatta tigrata distesa sul fianco. Sette piccole sagome si

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