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Light and Shadow: Oltre l'ombra
Light and Shadow: Oltre l'ombra
Light and Shadow: Oltre l'ombra
E-book469 pagine6 ore

Light and Shadow: Oltre l'ombra

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Info su questo ebook

Il secondo capitolo della serie Light and Shadow alza il velo sulle ombre che si sono addensate sulla vita di Stella, riportando a galla ricordi che non sembrano neppure appartenere alla sua stessa vita.
Dopo quel maledetto 31 dicembre, la convocazione al Consiglio delle Arti Magiche ed essere riusciti ad evitare un verdetto che avrebbe cancellato per sempre la sua memoria, sembrava che anche l’ultima insidia fosse stata sconfitta. Ma l’inverno non è ancora finito quando un nuovo pericolo incombe su Stella, Aedan e la loro famiglia, minacciando lo stesso Consiglio dei Maghi e anche le popolazioni incantate.
Stella è una chiave magica e grazie a lei gli esseri fatati possono varcare i passaggi da un mondo all’altro con straordinaria facilità, Aedan ha in sé la totalità dei poteri di un mago e di un essere fatato. Questo legame con la magia si rivelerà più pericoloso di quanto chiunque avesse potuto immaginare, quando uno strumento proveniente da un altro mondo, un luogo tanto pericoloso da non essere più stato nominato per centinaia d’anni, rischia di causare la fine di entrambi i regni magici.
LinguaItaliano
Data di uscita14 set 2018
ISBN9788828374251
Light and Shadow: Oltre l'ombra

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    Anteprima del libro

    Light and Shadow - Elena Sombre

    Pascoli

    PROLOGO

    Quella di Aedan, con una madre fata e un padre proveniente dal mondo dei maghi, è una famiglia fuori dal comune. I suoi fratelli hanno ereditato entrambi i poteri, anche se in Aisling predomina la parte fatata e Connor è quasi completamente mago.

    Lui, Aedan, invece è tanto mago quanto essere fatato: una combinazione di due poteri al massimo livello non si è mai verificata prima d’ora in un solo individuo, rendendogli impossibile sentire un senso di appartenenza a uno dei due mondi che lo reclamano di diritto.

    La famiglia O’Gallagher si rifugia allora tra gli umani, dove nessuno dovrebbe essere in grado di vedere la loro diversità, un mondo in cui nascondersi e preservare la propria incolumità.

    Ma il suo incontro con Mirastella, la ragazza della casa accanto a quella in cui Aedan e la famiglia si sono appena trasferiti, risveglia nella ragazza la sua innata capacità di vedere la meraviglia. Stella non è mai stata incantata dall’aspetto con cui i suoi vicini si presentano agli occhi di tutti, lei vede le scintille scarlatte fluttuare attorno ad Aedan e avverte sulla pelle la carica magica dei nuovi vicini. Una persona capace di vedere la meraviglia come lei è una chiave, in grado di sbloccare i passaggi tra i mondi e consentire agli esseri fatati di viaggiare con una rapidità sorprendente.

    Se gli esseri incantati collaborano con gli umani, anche se inconsapevoli, i maghi invece hanno costruito una società rigida e segreta, in cui punire con severità chiunque sveli la propria natura. Per questo motivo durante l’ultima notte dell’anno Stella e tutta la famiglia O’Gallagher dovranno affrontare il giudizio del Consiglio delle Arti Magiche, certo che la ragazza non possa davvero vedere la magia e che i componenti della famiglia O’Gallagher debbano essere puniti per tradimento.

    Sidereus Lowitt, il Gran Mago delle Arti Magiche, scava nei ricordi di Stella e alla fine è costretto ad arrendersi davanti all’evidenza: non le è stato mostrato nulla che lei già non avesse potuto vedere con le proprie capacità.

    Stella, Aedan e il resto della famiglia vengono riconosciuti non colpevoli e sono liberi di andarsene, ma l’incantesimo formulato da Lowitt per esaminare la memoria della ragazza all’improvviso risveglia ricordi che non sembrano neppure appartenere alla sua vita…

    1 LA TORRE

    Seduta sul davanzale guardo i branchi di draghi volare tra i lilla e rosa dell’alba, le loro scaglie sbrilluccicano contro il cielo strappato da luci e nubi come briciole di specchio; quasi non mi suscitano il terrore che ne dovrei avere.

    Quasi.

    Alla sera, seduta sempre sullo stesso davanzale di pietra, prima di non riuscire più a sopportare il gelo del vento che soffia da nord, osservo gli sciami di pipistrelli sparpagliarsi a flotte attorno ai torrioni del castello.

    Dopo i primi giorni ho subito perso il conto, adesso non so più quante volte ho osservato i draghi volare al mattino e i pipistrelli uscire dai nidi alla sera.

    Quante volte mi sono avventata contro la porta sempre chiusa, tempestandola di pugni e calci fino a spaccarmi la pelle sulle nocche.

    Ho urlato, sbraitato, minacciato.

    Non è servito a nulla.

    Non so neppure se qualcuno mi abbia mai udita dare di matto come non mi sarei mai creduta capace.

    Poi ho iniziato a sentire la sconfitta corrermi nelle vene come un’iniezione letale, deve essere questo stato di affranta impotenza quello in cui cadono i condannati a morte; la differenza tra me e loro è che io non so quando terminerà il mio count down.

    Con una mano ho raggiunto la tasca posteriore dei jeans, un movimento meccanico che serviva ad alleviare noia, nostalgia e quel dilaniante senso di mancanza, che mi fa sentire una persona spaccata in due.

    Vuota.

    Devo averlo sfilato dalla tasca per appoggiarlo sul tavolo mi dico ripensando a quando mi sono seduta sul divano, prima che quella folata di ombre nere facesse irruzione in casa e iniziasse il mio nuovo peggior incubo.

    Non conosco questo luogo, da quello che riesco a vedere attraverso l’unica finestra immagino di trovarmi nella terra dei maghi.

    Un cellulare qui sarebbe del tutto inutile.

    Ma il mio telefono invece potrebbe confortarmi.

    Penso alle foto che non posso guardare, ai messaggi che vorrei rileggere, le nostre canzoni, i video girati di nascosto perché "… Stella! Ma sei impazzita? E se qualcuno li vedesse e scoprisse che di notte scorrazziamo in cielo all’interno di una bolla?"; stringo i denti fino a quasi macinarmeli, gli occhi mi pizzicano.

    La mia mano scatta in alto avvinghiandosi alla collana, con le dita seguo tutte le pieghe della conchiglia in cui è incastonata la magia di Aedan. La pietra è fredda e le mie mani non rispondono più scosse da quel leggero pizzicore che dovrebbero avvertire.

    Che sia a causa di quella cosa intrappolata all’interno della pietra?

    La rosa d’oro.

    Mi domando se i miei ragionamenti sulla sua provenienza siano corretti, e mi accorgo che, in un momento di cui non mi ero resa conto, ho iniziato ad analizzare i sospetti come fossero già certezze.

    Lascio la presa e la collana mi ricade all’interno della scollatura.

    Guardo oltre la finestra e vedo colline a tratti ricoperte da una vegetazione fitta, in cui i verdi si alternano alle sfumature dei rosa, gialli e celesti in ugual misura. Un paesaggio che si rincorre fino a sbriciolarsi in una prospettiva di vette aguzze e alti picchi innevati, riflessi nelle acque argentate di un lago poco lontano. Non è raro scorgere qualcuno, intabarrato in un ampio mantello scuro come fumo, sfrecciare in sella ad una scopa; ma questo non accade mai abbastanza vicino da poter chiedere aiuto.

    Sembra che tutti si tengano ben alla larga.

    Non so a chi appartenga questo castello, una lastra di pietra grigia che sembra svettare direttamente dalle viscere della terra, circondato da giardini e roseti tra cui spicca un labirinto di siepi, una sagoma a due pance appoggiate contro una linea dritta .

    La lista di ciò di cui sono fornita è più breve di tutto quello che qui non ho. Il letto è ampio e comodo, protetto da un copriletto così fittamente ricamato che, a fissarlo con attenzione, ci si ritrova l’intera narrazione di un libro di favole. Principesse, streghe e maghi mi sfilano davanti agli occhi mentre i punti si disfano e si rifanno raccontandomi di grandi imprese, amori folli e magie inimmaginabili.

    Oggetti del genere possono solo essere stati progettati da un potere senza limitazione di azioni per quantità di tempo.

    Un informatico lo chiamerebbe più semplicemente multitasking, ma questo è molto di più.

    C’è un caminetto. Si accende da solo alla sera ed è sempre ben provvisto di legna.

    Ho anche tutto l’occorrente per lavarmi, e non so se sia stato più stupefacente fare il bagno per la prima volta in vita mia dentro ad una tinozza, o ad una tinozza capace di riempirsi da sola di acqua calda alla giusta temperatura, come di svuotarsi.

    L’armadio straripa di abiti, li guardo e mi domando se dovrei capire che prima o poi mi dovrò aspettare di uscire da questa stanza.

    Sul mio comodino non manca mai una rosa fresca, giallo zafferano. Non ho idea se una qualche magia la riesca a conservare giorno dopo giorno come appena colta, o se quando non me lo aspetto qualcuno venga a portarla via, sostituendola con una appena recisa.

    Dormo poco, l’inedia e l’incertezza me lo impediscono, ma a volte ho l’impressione di svegliarmi senza essermi mai addormentata, e che per qualche strano motivo il tempo sia fuggito al galoppo.

    Quella rosa mi inquieta, è ciò che più di tutto mi fa impazzire.

    A volte cedo alla tentazione di accanirmici contro, la riduco a brandelli, ne getto i petali fuori dalla finestra e assaggio un vago senso di soddisfazione senza garantirmi la vittoria di nessun round.

    Ma poi la ritrovo sempre lì, sul comodino accanto al mio letto, fresca e profumata.

    Riporto una mano alla mia collana, forse nessuno è stato in grado di togliermela, penso ricominciando a mordicchiarmi un labbro.

    Non funziona più.

    Ha perso ogni brillantezza, non ha neppure più l’aspetto di un gioiello, ogni stilla di magia sembra sparita. Anche quella stramaledetta rosa intrappolata nel cuore della pietra, la magia cristallizzata di Aedan, ora ha tutta l’aria di una cianfrusaglia ossidata.

    Le mie dita la cercano ogni minuto di ogni ora, con le mani alla gola ne traccio tutti i profili, la speranza di veder brillare almeno una scintilla non si è ancora spenta.

    Quando non guardo fuori dalla finestra, tutta la mia concentrazione è indirizzata alla porta.

    Non cerco più il modo di sfondarla, ormai mi sono convinta sia protetta da qualche incantesimo e anche se ci riuscissi, non saprei dove andare una volta uscita da questo castello.

    La guardo perché a volte percepisco quella sensazione insistente di non essere sola, e sono del tutto certa che, per diverse ore al giorno, qualcuno attenda dall’altra parte.

    Un brontolio dello stomaco mi suggerisce sia quasi ora di pranzo, in punta di piedi mi avvicino alla porta. Mi abbasso piano, non so se le pareti di pietra bastino a non tradirmi, e lascio andare il fiato solo quando riesco ad abbracciarmi le gambe e a puntellare il mento sulle ginocchia. Enormi tappeti di lana soffice mi isolano dalla pietra fredda, se non ci fossero non resisterei seduta a terra più di un paio di minuti.

    Forse dovrei provare a costruirmi una sorta di meridiana, almeno avrei una percezione più reale dello scorrere del tempo.

    In realtà, per come sto qua, non mi serverebbe a nulla se non ad avere qualcosa da consultare di tanto in tanto.

    Schiaccio la schiena contro la parete di pietre irregolari, premono tra le scapole e le costole, e mi guardo attorno. L’unico oggetto adatto è una candela lasciata sopra al camino; ho trovato chi sarà la meridiana.

    Più tardi però, adesso ho altri piani da mettere in pratica.

    In questa stanza il tempo si è fermato; fatta eccezione per l’alternarsi di notte e giorno.

    Non capisco se ho dovuto attendere a lungo o se la mia insofferenza allo stare chiusa qui dentro, senza parlare con anima viva, abbia trasformato in ore quella che era solo una manciata di minuti, ma finalmente sento il cigolio che sto aspettando.

    La gattaiola sul fondo della porta si solleva con uno sferragliare rugginoso, intravvedo il bordo del vassoio su cui qualcuno ha messo il mio pranzo.

    Quando è quasi del tutto dentro alla stanza non mi lascio scappare il momento giusto e con uno scatto infilo il braccio strusciando contro qualcosa di bollente, stringo i denti al tin tin tin con tono calante di qualcosa che sto rovesciando contro il bordo di un piatto.

    Sento la manica inzupparsi e scaldarsi ai limiti della sopportazione mentre sono costretta a stringere la presa, quando la mia spalla è trascinata a sbattere contro la parte alta della fessura libero un urlo da convincere subito chi sta dall’altra parte a rimettersi accucciato.

    «Fermati» dico riacquistando vigore nella presa.

    Sento il ritmo del mio respiro anche da dentro alla testa, ma non credo basti a coprire il suono di una qualsiasi voce potrebbe giungere da dietro la porta.

    Mi accorgo di non riuscire a toccare la punta delle dita con quella del pollice, e ho la sensazione che anche se provassi a stringere la presa, sarebbe sempre troppo larga per non aprirmi la mano con un movimento del polso.

    «Voglio solo sapere come ti chiami» simulo un tono più accondiscendente, anche se le parole sembrano tremare appena escono dalla mia bocca. «Ho bisogno di parlare con qualcuno.»

    Nella mia presa non sento alcun moto di insofferenza, così come neppure alcun suono mi raggiunge.

    Un respiro, basso e accelerato, è tutto ciò che credo di udire.

    Il braccio, in questa posizione innaturale, inizia a dolere. Le dita mi si sciolgono da sole dalla stretta in cui le tenevo serrate, mentre il mio pugno è sollevato da una mano calda e morbida che non combacia con la mia.

    Uno sfregolio si irradia nel palmo della mano al primo tocco di quel contatto, ho la sensazione che qualcosa di identico mi sia già capitato in passato. Provo a cercare tra i ricordi quando possa essere accaduto, e sbuffo seccata con me stessa per non riuscirci.

    Sono abbastanza certa che questa sensazione non abbia nulla a che vedere con quelle percepite nelle vicinanze di Aedan o di qualcuno della famiglia. Il cuore inizia a battermi agitato, non riuscire a trovare neppure una possibile risposta mi lascia addosso una patina di perplessità dura da grattarmi via.

    Mentre piego il gomito e sento arretrare la spalla, distendo le dita senza trovare le punte di quelle sotto le mie, e sono certa che una pelle tanto liscia non possa appartenere alla mano di una guardia.

    La gattaiola si richiude con lo stesso cigolio tristemente sordo di qualche istante prima, sono di nuovo da sola.

    Ancora seduta a terra, schiaccio la schiena contro la parete e puntellando i gomiti sulle ginocchia mi esamino la mano; sento ancora punzecchiare, anche se è una sensazione che si sta spegnendo. Ruoto il polso alla ricerca di un qualsiasi elemento, sono certa di avere la soluzione davanti agli occhi ma tutto ciò che scorgo è un leggero scintillio dorato.

    Scuoto il capo imbronciata, mi rassegno all’attesa a cui sono sottoposta e abbasso lo sguardo avvilita. Lancio un’occhiata al vassoio accanto a me, ho fatto meno danni di quello che pensavo, ma lo stomaco d’un tratto chiuso mi costringe a girare lo sguardo altrove.

    Mi alzo e raggiungo il camino ancora spento, è arrivato il momento di appoggiare quella candela al centro della pozza di luce raccolta sul davanzale della finestra. Cammino piano, mentre il mio primo desiderio sarebbe almeno quello di veder calare la luce ad ogni passo: durante la notte mi illudo di veder accadere ciò che in pieno giorno sarebbe un’impresa impossibile.

    Mi chiedo se Aedan sarà capace di arrivare fino in cima a questa torre, mentre non sono neppure certa che sappia in quale angolo, di quale mondo, io mi trovi.

    Piego la testa di lato, emetto un profondo sospiro e osservo la candela poggiata sul davanzale. Non so più cosa fare.

    2 L’INCONTRO

    Osservo la candela che mi sarebbe dovuta servire come meridiana e un rantolo di disappunto mi brontola nel petto. Avrei dovuto immaginare che, a lasciarla esposta al sole, avrebbe finito per storcersi come un ulivo centenario.

    Faccio spallucce, non si sa mai che qualcuno mi possa vedere e, nel caso accada, sono ben determinata a fargli sapere che a me di lui, di tutto ciò che mi circonda, di quello che mi sta facendo, non interessa niente.

    Sotto alla mia finestra, parecchio più in basso, il labirinto di siepi è in concerto. Mi chiedo come possano esserci esseri tanto felici e altri altrettanto tristi, così vicini.

    Mi sporgo a guardare in giù, tra i rametti delle piante si intravvede un gran movimento; certo che questo labirinto è proprio strano con le sue forme curve e panciute, diverso dall’ordine squadrato a cui sono abituata.

    Stringo i pugni fin quasi a conficcarmi le unghie nella pelle e lancio un’occhiata irritata verso il mucchio di oggetti accatastati accanto al camino: non si sa mai che prima o poi la magia della legna che da sola alimenta il fuoco faccia cilecca.

    Sono tutti regali.

    Io li uso solo per contarli, ognuno rappresenta un giorno in più chiusa in questa trappola. Dopo quel primo contatto avvenuto durante l’inserimento del vassoio attraverso la gattaiola, ricevo un dono al giorno.

    Fino ad oggi ho accumulato ventuno oggetti, per lo più libri di autori mai sentiti nominare, come Il mago della torre maledetta di un certo Cornelius Westfire, o Storia di una strega prescelta di Melania Jane Hinchinghooke, un volume rilegato di un bel verde smeraldo che ho sfogliato più per noia che non per interesse.

    Oltre a qualche altro libro ho ricevuto un cannocchiale in cui non ho mai avuto la tentazione di guardare, una scacchiera a cui per errore, mentre la posavo nel mucchio con gli altri oggetti, ho inavvertitamente toccato un pedone nero spostandolo.

    È subito avanzato un alfiere bianco.

    Ho ricevuto anche alcuni oggetti sul cui utilizzo non ho perso tempo ad indagare: pezzi di ferraglia con delle parti mobili, ingranaggi in cui qualcosa ruota e qualcos’altro esce.

    Chiunque sia il mio benefattore, deve aver pensato che mi avrebbe resa felice con un carillon dotato non di una sola ballerina tesa sulle punte, ma di un intero corpo di ballo pronto ad esibirsi al primo scatto del coperchio.

    Anche lo scialle cambiacolore deve essergli sembrata una genialata.

    Gettato nel mucchio. Pure questo.

    «Ehi tu!» grido avventandomi contro la porta con un gran botto.

    Possibile nessuno mi abbia udita? Sento ancora l’eco rintronare di parete in parete. Getto la testa all’indietro e guardo il soffitto: essere ignorata mi manda in bestia.

    «Voglio parlare con qualcuno» urlo con la fronte schiacciata contro il legno, mentre sferro pugni e calci.

    «Non smetterò finché non verrà qualcuno, anche a costo di farmi male» minaccio con un ringhio, mentre avverto già un dolore agli avambracci e il desiderio di far cadere le braccia lungo i fianchi.

    Ma la rabbia dentro di me continua a montare, e anche se non riesco più a tenere le braccia sollevate, porto avanti il mio lavoro a suon di spallate.

    «E domani regalami un baule! Non so più dove buttare questi stupidi oggetti!» aggiungo con tutto il risentimento che riesco a mostrare, mentre allungo un braccio nella direzione della catasta e subito mi sento ridicola.

    Sto parlando da sola.

    I matti parlano da soli.

    Soffoco un singhiozzo per il dolore che mi sto facendo e insisto. Se in questo luogo regna la regola del silenzio, solo il pensiero di infrangerla alla grande mi dà la forza di continuare.

    «Basta così!»

    Mi blocco con i piedi ben piantati a terra e una mezza torsione del busto già accennata, pronta a caricare il prossimo assalto alla porta. Questa voce inaspettata mi toglie ogni capacità di muovermi.

    Mi guardo attorno, viene da fuori.

    «Chi c’è dietro alla porta?» grido con un tono più stridulo di quanto mi sarei aspettata.

    «Non sono qui per rispondere alle tue domande» percepisco una nota agitata, anche se chiunque sia oltre la porta cerca di mantenere quel tono autoritario di chi si trova nella posizione di dare ordini.

    Vorrei solo che aprisse la porta per saltargli al collo, dovesse essere l’ultima cosa che faccio.

    Muovo un passo e prendo una boccata d’aria pronta ad impostare la voce sul mio tono più risoluto, ma poi il fiato appena catturato mi scivola fino allo stomaco mettendolo in subbuglio. Mi rendo conto che se non posso fare domande, non ho una gran scelta di frasi da sfoderare.

    «Adesso aprirò la porta» riprende sorprendendomi con un tono inaspettatamente calmo. «Ma prima ti passerò un fazzoletto nero attraverso la gattaiola. Legatelo davanti agli occhi.»

    «Qual è il tuo problema?» urlo con un ghigno, inclinandomi verso la porta per essere certa che non si perda neppure una parola. «Sei così brutto che non hai il coraggio di farti vedere in faccia? Troll? Leprechaun? Licantropo? Cosa diavolo sei?»

    Credo di averlo irritato a dovere, intreccio le mani compiaciuta e fisso l’uscio come se si fosse trasformato in un nano gobbo con il naso adunco, pochi ciuffi di capelli lanugginosi e un solo dente, messo in bella vista da un labbro leporino.

    Avverto una risata leggera, poi un cigolio sferruzzante fa calare il mio sguardo: un pezzo di stoffa nera è ripiegata davanti ai miei piedi.

    «Ti avviso, se non manterrai la promessa, richiuderò la porta e resterai sola per tutto il tempo che ancora avrai davanti a te.»

    Ingoio la bolla di tristezza che mi sta soffocando, sbuffando raccatto da terra la benda e brontolo quanto di peggio mi possa venire in mente, nel tentativo di riuscire ad irritarlo almeno la metà di quanto io non sia già.

    Mi ripeto che non lo devo lasciar scappare, ho bisogno di conoscere il mio carceriere per poter capire come affrontarlo.

    Ma vorrei solo saltargli alla gola e riempirlo di pugni.

    Sposto la treccia dietro al collo e faccio un doppio nodo al pezzo di tessuto, picchietto le punte delle dita contro la stoffa sopra agli occhi assicurandomi che nulla si sposti e attendo di sentire qualcosa di simile a un hai fatto? o a un posso entrare?.

    Imposto anche la voce su una nota stridula e sgraziata, pronta a sbraitare un faccia pure o un venga avanti, che dovrà sottolineare tutto il mio cipiglio.

    Non posso evitare di sussultare impreparata quando mi sento sollevare le mani, resto immobile come una preda braccata concentrandomi su un improvviso leggero tintinnio metallico, e avverto il suono di un respiro a poca distanza mentre le narici mi si riempiono con un aroma legnoso e speziato, che non proviene da nulla fosse già in questa stanza.

    I miei polsi ruotano all’esterno e all’interno come quelli di una marionetta, mi chiedo se anche con questa benda in faccia sia possibile leggere tutto lo stupore che mi invade.

    «Hai le nocche insanguinate e un bel po’ di lividi» dice, mentre un brivido mi percorre il braccio su cui lui, con la punta di un dito, ha appena tracciato i contorni di uno dei segni che devono chiazzare la mia pelle come una tuta mimetica.

    «Ma va?» ruggisco decisa a non farmi sottomettere, spostando un piede indietro e liberando le mani dalle sue. Mi sfrego furiosamente i palmi contro le ginocchia, la pelle pizzica in modo irritante.

    Il sollievo è breve perché, dopo tutte le ginocchiate sferrate contro la porta, mi provoco più dolore che piacere: devo rinunciare e passare a un metodo più efficacie, le unghie. Ci manca poco che me le conficchi nella carne.

    «Sembra impossibile che tu sia riuscita a ridurti in questo stato da sola» sogghigna rispondendomi a tono.

    «Immagina cosa avrei potuto farti se per tua sfortuna quella maledetta porta si fosse aperta» gracchio di rimbalzo, mentre mi porto le mani alla gola in quel gesto di afferrare e stringere che ancora mi dà coraggio.

    Una stretta su entrambi gli avambracci mi blocca. Non per forza o ruvidezza, questa volta è il tocco appena accennato e la cortesia con cui quelle mani stanno chiedendo al mio corpo di girarmi, a far scollegare il cervello dalle terminazioni nervose.

    Non capisco se mi sto accanendo contro la persona sbagliata, forse chi mi sta davanti è solo un povero servo che non ha nessuna colpa, e che davanti a sé non ha nemmeno l’aspettativa di un fidanzato del tutto mago e cento percento essere fatato che, prima o poi, accorra in suo aiuto.

    «Lasciami fare» dice quando avverto il bordo del letto premermi contro i polpacci.

    «Cosa vuoi?» squittisco prima di ricordarmi che non avrebbe risposto alle mie domande.

    «Curarti le ferite» sogghigna con un’innocenza di cui non mi fido.

    Credo che dovrei sentirmi al sicuro, ma la frase lasciata lunga come se avesse dovuto continuare aggiungendo qualche altra parola, e il silenzio che nessuno di noi rompe, mi fa sentire sulle spine almeno quanto essere rimasta all’improvviso senza vestiti.

    Mi sento sfiorare con qualcosa, mentre mi solleva una mano; vorrei grattarmi via ancora quel pizzicorio proprio nel punto in cui mi ha toccata.

    «Eri tu fuori dalla porta anche quella volta, non è così?» ringhio sperando di essermi voltata nella direzione giusta.

    «Quale volta?» chiede appoggiandomi le mani sulle spalle come per svitarmi di mezzo giro, alzandomi un braccio, distendendomi un ginocchio e posandomi di nuovo una mano sulla spalla.

    Ogni volta una piccola scarica elettrica mi attraversa la pelle e non riesco ad oppormi ai movimenti sussultori che i miei muscoli decidono di manifestare in totale libertà.

    «Quando ho infilato il braccio attraverso la gattaiola. Era la tua mano quella che ho afferrato.»

    «Cosa te lo fa pensare?» il tono vago suggerisce un’aria sopra pensiero, che me lo fa immaginare impegnato ad esaminare i miei piccoli lividi.

    «Avverto qualcosa, quando tocco le tue mani. Ti posso riconoscere anche da bendata.»

    L’esitazione prima di rispondermi mi pare eccessiva, «Non hai apprezzato i tuoi regali?» chiede cambiando argomento e con una punta di delusione.

    Forse, se chi mi è davanti è realmente un servo, non ha mai ricevuto un dono in vita sua e deve sembrargli inconcepibile che io invece li abbia rifiutati tutti, senza nemmeno averli esaminati.

    «Quelli non sono regali» grugnisco a braccia conserte, giocherellando con il ciondolo appeso al mio collo.

    «Ah no?» sobbalza trasferendo uno scossone dal materasso a me.

    «Sono il prezzo con cui si sta tentando di dominarmi» dico cercando di sembrare disinvolta, mentre dal suo silenzio non capisco se stia avvampando di rabbia o se grondi sconcerto.

    Ad ogni modo ha almeno il buongusto di non interrompere il meraviglioso lavoro che sta facendo sulle mie sbucciature e ad ogni livido, mentre sotto ad un piacevole formicolio sento i tessuti ripararsi e il sangue fluire.

    «Ho finito» dice, nel momento in cui il materasso su cui sono seduta si solleva un pochino.

    A quelle parole alzo il mento con un colpo secco, sperando di indirizzare il viso nella direzione giusta. Sono stata rinchiusa nella solitudine di questa prigionia troppo a lungo per essere pronta a rinunciare a qualsiasi compagnia mi venga offerta. Lui potrebbe anche essere un orco, e sento che non me ne importerebbe affatto.

    Quasi benedico questa regola della benda, a volte nel non vedere si riesce a ritrovare qualche grammo di felicità.

    Senza pensarci allungo un braccio e dopo aver tastato il vuoto trovo un polso da stringere tra le dita.

    Ancora una scossa leggera mi corre sottopelle.

    Non cerca di liberarsi, decido di dargli una dimostrazione di fiducia, allento la presa senza scioglierla e spero che non ne approfitti per divincolarsi.

    Al contrario, il mio gomito si piega sfiorandomi un fianco. Lui si è avvicinato.

    «Resta ancora» chiedo con un tono neutro, so che non devo dimostrarmi entusiasta della sua compagnia, ma sono terrorizzata al pensiero di ripiombare in altri mesi di solitudine.

    «Se tu vuoi, posso tornare ogni giorno» mi sorprende con un tono sereno che ancora non gli avevo mai sentito.

    Incrocio le braccia, non ho intenzione di fargli capire quanto abbia bisogno di non essere lasciata sola, e benedico la benda che mi copre gli occhi.

    Non sono capace di mentire con gli occhi, so che sotto alla stoffa nera il mio sguardo lo implorerebbe di tornare anche più volte al giorno.

    Annuisco restando in silenzio, l’altro mio punto debole è la voce. Se adesso provassi a spiaccicare un paio di parole, riuscirei comunque solo ad implorare.

    Ingoio un altro nodo e ci provo. Provo a farmi uscire due parole.

    «Non ho altri impegni» sbotto ironica, ma mi affretto a cancellare con un sorriso il cipiglio che immagino gli sia comparso in faccia.

    «Ad un’unica condizione, che tu indossi la benda» aggiunge senza mutare voce, ma con una nota che non accetterà obiezioni.

    «Aspetta» squittisco appena sento lo scatto della serratura, mentre balzo in piedi, taglio l’aria a braccia tese, mettendo un piede davanti all’altro e finendo la mia corsa intrappolata in una piega del tappeto.

    Stringo gli occhi, mi preparo a sfracellare le ginocchia a terra come mi sarei aspettata lo scorso Halloween, quando Neil Blackmore mi aveva lasciata cadere dopo essere stato sconfitto da Aedan nel duello di maledizione egizia.

    Ma proprio come quella volta, mi sento riacciuffare ad un soffio dall’impatto contro il pavimento. Non si limita a sorreggermi, o a farmi rialzare. Mi passa un braccio dietro alle spalle e uno sotto alle ginocchia, mi sento sollevare e mi domando se un carceriere possa essere tanto gentile.

    «Chi sei?» domando mentre la mia guancia rimbalza contro di lui e sento il suo respiro sull’altra.

    «Non vorresti saperlo, fidati.» mi risponde con voce piatta.

    «Ci conosciamo?»

    Mi rimette seduta sul letto, un attimo dopo sento di nuovo lo scatto secco della porta che si apre; questa volta non tento neppure di alzarmi e rincorrerlo.

    3 PROMESSE

    Apro gli occhi con fatica, le mie ciglia sbattono contro qualcosa che mi sta proprio addosso, eppure riesco a fissare l’immagine nitida di due iridi grigie puntate su di me: un’immagine che lentamente si scioglie costringendomi a chiedermi se sia un sogno.

    Alzo le mani alle tempie e invece di scivolarmi sulla pelle, le dita subiscono un leggero grip; adesso capisco perché le mie ciglia si stanno piegando.

    «Sei tornato» borbotto alzando il mento con aria di sfida, quando sono abbastanza certa che mi stia di fronte. Con questa dannata benda non capisco nulla.

    «Ne dubitavi?» ostenta un risentimento ferito. «Lo avevo promesso.»

    «Sai…» squillo tirando su con il naso mentre raddrizzo la schiena per guadagnare quel paio di centimetri in più, «detto da uno che mi tiene prigioniera…»

    Lui sospira, e all’improvviso mi convinco di aver detto qualcosa fuori luogo. Non so chi sia la persona davanti a me in questo momento, forse qualcuno che non ha nessuna colpa per la situazione in cui mi trovo.

    Se tiro troppo la corda, rischio di perdere anche questo unico contatto.

    «Okay» mi affretto ad aggiungere mordendomi un labbro, sventolo le mani e spero di non prenderlo a sberle in faccia. «Devi scusarmi, ma è difficile fidarsi di chi non si può guardare neppure negli occhi.»

    Inclino la testa e resto in attesa di non essere lasciata di nuovo sola. Questa pausa mi sta gelando, incrocio le braccia iniziando a massaggiarle, non sentirmi più capace di ostentare la spavalderia con cui ho esordito poco fa mi rende tremendamente indifesa.

    «Hai paura?» mi chiede appoggiando le mani sulle mie spalle. «Di me…» aggiunge.

    Il tocco delle sue dita è delicato, in questo momento accetterei la sua compagnia anche se fosse il nano deforme che ho immaginato ieri.

    Scuoto la testa, «Non sei tu a farmi paura» sospiro abbassando il mento fino ad incastrarmelo sotto al collo.

    Non può essere stato lui a rapirmi, i suoi modi sono cortesi. Credo solo che sia una pedina, come lo sono anche io. Ho bisogno di fidarmi, e che lui si fidi di me.

    Scuoto la testa e avverto la sua presenza, sento il respiro e poi qualcos’altro. È come se, non potendo utilizzare la vista, i sensi si affinassero: non lo vedo, eppure so che lui è dritto davanti a me, così vicino che se mi riempissi i polmoni di aria, finirei per sfiorarlo.

    Da quel giorno non ha mai mancato di mantenere la promessa, a volte bussa alla mia porta di mattina, più spesso arriva nel primo pomeriggio e si trattiene fino a sera.

    Quando gli permetto di leggermi alcuni brani dai libri che ho ricevuto, lo faccio solo perché capisco che a lui devono piacere parecchio. Lo sento nell’agitazione con cui mi chiede se ho voglia di una lettura, e nella trepidazione con cui sfoglia le pagine.

    Quel soffio di carta croccante è un suono rassicurante, e anche se io odio quei libri per il solo fatto che sono un dono di chi mi ha rapita, lo assecondo.

    Lo lascio fare perché il tempo in sua compagnia scorre più in fretta, anche se la maggior parte degli argomenti di cui io vorrei parlare sono tabù, e lui non è un gran oratore.

    «Dove siamo?» chiedo piena di speranze, in fin dei conti, a chi mi ha rapita cosa importerebbe se lo venissi a sapere? Conoscerlo non mi faciliterebbe la fuga.

    Anche da bendata i miei sensi super sviluppati percepiscono che il suo volto si è adombrato. Credo abbia perfino indietreggiato, non sento più la sua presenza davanti a me.

    «Siamo dai Blackmore, non è così? Quel labirinto di siepi a forma di B, sta per Blackmore?» incalzo sperando di riuscire a farlo cedere, sottolineo tutta la mia determinazione a scoprire la verità affondando un passo lungo nella direzione in cui immagino abbia indietreggiato.

    Ci ho visto giusto, avverto un respiro basso ma vicino.

    Allungo un braccio e a tentoni lo trovo, è rigido come se tutti i muscoli gli dovessero schizzare fuori, subito indietreggia e mi ritrovo di nuovo a tastare il vuoto.

    «Ti prego» mormoro a mezza voce, «non mi lasciare sola.»

    «Avresti voglia di uscire?» la sua voce è tutt’altro che rilassata, ma almeno non ha in programma di andarsene.

    Scuoto la testa e mi ci darei volentieri qualche colpo in fronte se non temessi di risultare troppo svitata, «Ho capito bene?»

    «Non fartelo ripetere, cambio idea in fretta» replica con una serietà che non mi convince.

    «Potrò togliere la benda?» azzardo, mentre sento l’ansia battermi nelle orecchie e inarco un sopracciglio, imitando un finto sguardo che lo dovrebbe squadrare da testa a piedi.

    Una risata leggera mi arriva più chiara di qualsiasi risposta avrebbe potuto darmi.

    Non si fida di me.

    O teme di infrangere un ordine.

    Oppure per qualche motivo non vuole essere guardato in faccia?

    Raddrizzo la schiena e divento un blocchetto di marmo, abbandono le braccia lungo i fianchi e sfogo tutta la mia frustrazione stringendo i pugni fino a non sentire più le dita.

    «No, resterai bendata» risponde con una risolutezza che non accetterebbe obiezioni. «Ma sono certo ti piacerà lo stesso» aggiunge addolcendo il tono, mentre lo sento prendermi un braccio e appoggiarlo sul suo perché mi possa lasciar guidare.

    Dentro di me sto ribollendo dalla rabbia, mi sembra di avere un drago pronto a spaccarmi il corpo per uscire; e quando uscirà non dubito che staccherà la testa al primo che gli si parerà davanti.

    Ma per ora faccio del mio meglio per non ascoltarlo.

    Il nero davanti ai miei occhi è più luminoso e il profumo dell’erba bagnata dalla pioggia della scorsa notte mi fa scoppiare il cuore di gioia. Gli uccelli sono in concerto e magari qualche drago adesso sta volando sopra alle nostre teste: abbiamo varcato il portone del castello, è come assaggiare una fettina di libertà.

    Respiro con avidità, lui si ferma lasciandomi il tempo che mi serve mentre sfila il braccio, cerca la mia mano e intreccia le dita alle mie.

    «Dovrò prenderti in braccio adesso, se me lo permetti» dice con una nota

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