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The Rainbow Maker: Il tirasomma della felicità
The Rainbow Maker: Il tirasomma della felicità
The Rainbow Maker: Il tirasomma della felicità
E-book605 pagine8 ore

The Rainbow Maker: Il tirasomma della felicità

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Info su questo ebook

Il romanzo è in forma di diario e svela rocambolesche disavventure, battibecchi, situazioni al limite del grottesco ma anche pungenti: una carrellata di buoni propositi e sentimenti segreti, di una donna comune mettendola completamente a nudo. 
Chetty ha un compagno di cui si è innamorata quando entrambi erano molto giovani e adesso è tanto inserito nella routine della vita a due quanto affondato tra i cuscini del divano. Lei forse ha perso il lavoro e non riuscire a capirlo è ancora più stressante di doversi rimboccare le maniche per cercarne un altro.
Vede il suo mondo sbriciolarsi, ma quando si tocca il fondo poi bisogna per forza iniziare a risalire... non può essere tutto nero. È così che inizia la sua ricerca della felicità, ogni giornata dovrà essere dominata da un colore e lei ce lo racconta come se fossimo nella sua testa in ogni istante. 
Insicura e sognatrice si trova a dover fare i conti con i desideri e la realtà, una madre troppo invadente, vicine di casa strampalate, rivalità forse infondate forse no, la proposta di un amore illegale... 
E poi ha un’età da febbrone, nella quale non si riconosce, e questa forse è tra tutte la sua problematica peggiore.
Sarà facile ritrovarsi nei suoi panni alla ricerca di un arcobaleno che ci piova addosso… a cuor leggero… 
LinguaItaliano
Data di uscita15 nov 2017
ISBN9788827581742
The Rainbow Maker: Il tirasomma della felicità

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    Anteprima del libro

    The Rainbow Maker - Elena Sombre

    GRAZIE

    The Rainbow Maker

    Copyright © Elena Sombre

    Immagine di copertina: Alphaspirit, Fotolia Progetto grafico: Silvia Ottaviano

    Questo libro contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, licenziato, noleggiato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in nessun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificatamente autorizzato dall’autrice, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto

    esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).

    I Edizione Ottobre 2017

    Nota dell'autrice

    NOTA DELL’AUTRICE

    Cari lettori, questa è un’opera di fantasia quindi nomi, persone, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della mia fantasia.

    Qualsiasi somiglianza con persone reali, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Una coincidenza causata dall’arcobaleno.

    Mi sono comunque trovata ad affrontare argomenti, in questo romanzo, in cui ho dovuto attingere alla mia esperienza personale: quindi leggete in fretta tutta quella parte in cui la mia protagonista cerca di disgorgare il lavandino della sua cucina, sorridete, ridetene pure, ma non fatemi troppe domande.

    Buona lettura!

    Elena Sombre

    The rainbow maker

    Il tirasomma della felicità

    La vita è un pezzo di cristallo colpito da un raggio di sole.

    Di tutti i colori in cui dividerà la luce, non si può mai indovinare quanti e quali ci toccheranno; lì dove ce ne stiamo.

    Possiamo osservare in disparte, e guardarli mentre ballano addosso a chi ci sta attorno, magari senza accorgerci che anche noi ci stiamo colorando.

    Oppure possiamo distendere una gamba, fare un passo lungo, e finire in una pozza arcobaleno.

    Se piangerai perchè il sole è¨ fuggito dalla tua vita,

    le tue lacrime ti impediranno di vedere le stelle.

    Rabindranath Tagore

    1 NERO #000000

    Le 22:30, è una notte d’inverno e sono seduta sotto ai neon della sala d’attesa. Dondolo da un ischio all’altro con la testa china sul petto, devo sembrare un essere allampanato, uno di quelli con gambe d’uccello e un colorito smorto, scivolato dalle pagine di qualche romanzetto fantasy fin sul pavimento sbavato.

    L’aria è irrespirabile, il lezzo di animali e malattia mi stringe ancor di più la gola, ma sono già uscita almeno una decina di volte; la temperatura in questa campagna senza luci deve essere vicina allo zero. Non ho preso con me né sciarpa né guanti, mi assale un dubbio, trattengo il respiro e abbasso lo sguardo sulle mie gambe scivolando fino ai piedi: non indosso il pigiama e neppure le ciabatte, per fortuna mi sono cambiata. Un po’ di fiato mi scivola tra le labbra, dovrei sentirmi più rilassata?

    Me lo chiedo e un nodo mi sale in gola.

    Questa è la clinica veterinaria in cui avevo giurato non avrei più rimesso piede.

    L’ultima volta ci avevo portato la mia gatta Nina, è stato quando per un semplice esame del sangue, tra le mani di questi medici l’ho vista trasformarsi in un bamboccio per riti voodoo.

    Ma adesso c’è stata un’emergenza.

    Il mio sguardo non mette a fuoco nessun punto: è così che mi allontano dalla realtà. Se avessi pensato prima a trovare un altro posto, adesso sarei lì dove sono più competenti, e non qui. Ma non avevo previsto che potesse accadere qualcosa di grave.

    Eppure è successo.

    Le cose nere accadono sempre quando non si è preparati; io mi stringo tra le spalle come una fisarmonica chiusa, forse se riuscissi a rendermi invisibile potrei farla franca; ingannare la realtà.

    Strizzo le palpebre e buco il nero attorno a me immaginando una luce giallo-pilsner-tedesca che mi avvolge; è l’unico colore capace di tranquillizzarmi.

    È il colore di casa, della mia infanzia, della vita in famiglia e delle feste a sedici anni. Anche a venti.

    Anche dopo.

    Da dove vengo io, una località affacciata sull’Adriatico nel nord-est, ex dominio austroungarico, frequentata da svizzeri, tedeschi, austriaci, olandesi e danesi più che da italiani, l’october fest dura da maggio ad ottobre.

    Con la birra lì si fa tutto, si trascorrono le afose serate estive sulla terrazza di casa con la propria famiglia, si prendono le prime sbornie, si cucina, si prendono altre sbornie, si fanno i falò in spiaggia e ci si mangia la pizza in qualche giardinetto con il fidanzatino estivo.

    È per questo che il giallo-pilsner-tedesca mi riesce a calmare.

    È il colore di casa mia.

    È il colore di sempre, e sapere che un sempre esiste riesce a farmi sentire più sicura di me stessa.

    È il colore della mia infanzia, di mio padre quando aveva i baffi, i capelli ancora neri e riempiva il frigorifero di Moretti. È il colore di mia madre, quando d’estate la andavamo a prendere a lavoro e poi mangiavamo la pizza con la Warsteiner.

    È il colore della Corona delle prime serate in discoteca, e della Ceres dei falò sulla spiaggia.

    Ma anche il giallo-pilsner-tedesca dura poco, è subito nero. Di nuovo.

    Di quelle come me è pieno il mondo, io sono quella che quando non ha bisogno di fare qualcosa, la rimanda a data da definirsi.

    Io temporeggio con la vita, fino a che, prima o poi, finisco col sbatterci contro il muso.

    Quindi non ho avuto alternative.

    Dovevo fare in fretta, e sono venuta nell’unico posto da cui mi sarei dovuta tenere alla larga.

    Le luci sul soffitto mi gocciolano addosso un’aria da epatite, e dietro di me, oltre la porta chiusa, c’è il mio coniglio.

    La mia coniglia.

    Insomma, c’è Celeste.

    Gli occhi mi si gonfiano, se non mi calmo tracimeranno. Non mi va, prima o poi arriverà qualcuno, non voglio piangergli davanti, io ho trentotto anni, un’età da febbrone.

    «Chetty?»

    «Uhm? Ghghghgh uhm?»

    Chetty sono io, come tanti altri ragazzi e ragazze, uomini e donne, mi porto addosso da una vita l’errore delle mode. Mi chiamo così perché a mia madre piaceva la canzone dei Pooh, Piccola Katy.

    È chiaro a tutti che, se mio padre le avesse almeno regalato la musicassetta che lei voleva, avrebbe saputo anche come scrivere il mio nome.

    Gli uomini sono tutti uguali.

    Ma per me non è un problema.

    Sono i segni particolari a renderci speciali.

    Almeno, quando un prof. mi chiamava per interrogarmi, non mi voltavo con il cuore in gola e la speranza negli occhi, verso una mia omonima.

    Nella mia classe c’erano tre Silvia, due Chiara, due Andrea. Se chiamavano Anna alzava lo sguardo impietrito anche Rosanna; ma di Chetty c’ero solo io.

    Abbassavo la testa e affrontavo la realtà dei fatti.

    È così che ho imparato ad affrontare le responsabilità.

    Grazie al mio nome ho capito come essere concreta, senza farmi illusioni. Quando bisogna eliminare, licenziare, disfarsi di qualcuno, e dicono Chetty, quella sono io e basta.

    Il rompicoglioni di turno mi capita spesso tra i piedi, quello che chiede spiegazioni, domande che sembrano quasi insinuare ci sia stato un errore, magari una colpa dell’ufficio anagrafe.

    Si scrive anche così, non lo sai? No? Strano… dico allo stalker che vedo ancora davanti a me, e in qualche modo me la cavo sempre.

    La gente annuisce con aria saccente, a nessuno piace fare la figura di chi ignora, e io me la rido alla grande.

    Ma a volte capita l’ossessivo tenace, quello che non si rassegna, quello deciso a spalancare tutte le ante del tuo armadio finché non avrà trovato almeno uno scheletro.

    «Chetty è il diminutivo di CatherineParr.» sbotto con il tono di chi non si aspetta una risposta.

    Qualcuno recupera frammenti di storia inglese, gli occhi diventano vaghi, annuiscono tutti con cenni del capo non troppo convinti, la maggior parte borbotta parole come Tudors, certo, come no?, sei mogli. Le donne più spesso mormorano Jonathan Rhys-Meyers.

    Solo i più veraci hanno la sfrontatezza di chiedere spiegazioni.

    «L’unica donna sopravvissuta ad uno stronzo all’ottava potenza» dico tutto d’un fiato.

    Di solito qui la gente ride, e poi cambia argomento, mentre il dubbio che io gli abbia con garbo dato del seccatore si insinua al punto che, difficilmente mi riceverò altre domande.

    Anzi, di solito divento una di quelle da evitare.

    A me piace il mio nome, e poi con un cognome italianissimo, io sono Chetty Russo, mi dà l’aria di essere un’americana almeno di terza generazione.

    Potrei dare del filo da torcere perfino a Louise Veronica Ciccone e Jane Fonda.

    «Chetty?»

    «Ghghghgh uhm?»

    Qualcuno mi chiama, il tono della voce è basso e dolce, flautato.

    Mia madre non c’è e quindi, se un’estranea mi si rivolge con tanta cautela mentre un occhio del mio coniglio è schizzato quasi del tutto fuori dall’orbita, o sono davanti a una madre Teresa di Calcutta, o può solo voler dire che non ci sono buone notizie.

    Alzo lo sguardo da terra e attraverso un muro d’acqua salata più del Mar Morto, prima di riuscire a distingue la sagoma della dottoressa.

    «Ghghghg?»

    Samantha mi guarda con un sorriso che mi fa sentire storpia, o deve almeno essermi comparsa qualche grave malformazione tutta d’un tratto.

    Controllo il respiro, sento la schiena irrigidirsi e non posso evitare che la stessa sensazione dilaghi fino ai muscoli del viso, mentre un’onda di rabbia sta spazzando via anche la voglia di piangere.

    Rimangono solo mille dubbi ad accalcarsi nella mia testa, senza freni, come teenager indiavolate al concerto di Justin Bieber.

    Uno rintrona coprendo tutti gli altri: quando la dottoressa mi ha confidato il suo terribile progetto, spingere dentro l’occhio senza indagare il motivo di ciò che lo sta facendo uscire, perché non ho afferrato il trasportino e non sono scappata?

    Eppure scappare è la mia specialità.

    Davanti alle difficoltà, davanti all’inaffrontabile, io scappo sempre.

    Sento una forza improvvisa invadermi con la stessa prepotenza della rabbia che ancora non mi ha abbandonata, e il mio mento scatta verso l’alto.

    I nostri sguardi si incrociano, lei mi guarda ancora con quel suo sguardo da Monna Lisa, io le incollo gli occhi addosso.

    I medical drama americani hanno lanciato la moda di indossare un completo di cotone che sembra un pigiama, anche lei ne ha uno.

    Tutti ormai ne hanno uno. Però il suo è macchiato da tanti piccoli puntini che prima non c’erano.

    Prima era solo ciclamino e affollato da gattini e cagnolini sorridenti e scodinzolanti.

    Nonostante il suo abbigliamento da Dottor clown non mi suscita nessun sorriso, per me lei è nera come la notte.

    Deve pensare che non riesca a reagire, perché mi chiama di nuovo. Alzo le sopracciglia sperando che così si sollevino di più anche le palpebre e mormoro un «Si?» che inaspettatamente sibila come il rumore della corrente quando c’è una dispersione.

    Come quando un filo elettrico è rosicchiato ma non tranciato.

    Io lo conosco bene questo suono, in casa mia non c’è un cavo che si sia salvato dal passaggio di Celeste: li ha assaggiati tutti.

    Dove potevamo li abbiamo fatti passare dentro ai rivestimenti protettivi, ma non ci si riesce sempre. Non lo si può fare al cavo dell’aspirapolvere, e anche quello a casa mia ha il segno dei suoi denti, come le mie ciabatte da giardino, il foulard copridivano, la tracolla della borsa, e un centinaio di altri oggetti.

    In pochi secondi riusciva a farmi perdere le staffe, e a farmi sentire in colpa se non mi fossi scusata all’istante.

    In quel momento diventava Celestina-amore-mio-perdonami.

    La dottoressa è ancora davanti a me, se non parla allora vuol dire che sta assemblando una frase che non vorrebbe dover dire. Spero che sia solo una rimbambita incapace di fare lo spelling, eppure ho la sensazione che stia temporeggiando.

    Un atteggiamento che io conosco fin troppo bene.

    Brancola nel buio.

    Sembra me quando cerco di decifrare il foglio di istruzioni per montare un mobile dell’Ikea.

    Spero che non sia quello che penso, e sono felice di vedere tutto attraverso una gran quantità di acqua.

    Ha i capelli arruffati e uno sguardo che, se va d’accordo con la tristezza della sua voce, sono fortunata a non cogliere nei particolari; sott’acqua c’è meno luce.

    «La situazione è grave» mi dice, e io non vedo più niente.

    Mi inabisso di metri e metri.

    Mi parla lentamente, scandendo ogni sillaba.

    Mi chiedo come faccia già a considerarmi un’idiota.

    Eppure non ci siamo scambiate che qualche parola, in questa clinica lavorano troppi medici perché si possa ricordare di tutte le altre volte in cui ci siamo incrociate: lei di fretta mentre entrava in un ambulatorio e usciva da un altro, io seduta con il gatto di turno nel trasportino tra i piedi.

    Poi mi viene in mente che deve aver letto il mio nome sul libretto medico di Celeste.

    Si, deve pensare che una Chetty Russo deve per forza essere un’americana.

    La mia pronuncia disperata, con il dolore nel cuore sembra che ho una patata in bocca, gliene avrà dato la conferma.

    Forse una traccia di tutti gli anni trascorsi in Inghilterra, come una vagabonda pur di stare lontana da casa e sentirmi un’adulta indipendente, deve essere evidente nel mio sguardo almeno quanto le lentiggini sulla faccia very English di Eddie Redmayne.

    Tra me e me parlo ancora come una ragazzina, perché è così che mi sento: una quindicenne con tante più cose da raccontare di una quindicenne.

    Quando quindici anni li avevo davvero, guardavo le donne più grandi, quelle di trent’anni, e mi domandavo quand’è che la trasformazione si attui.

    Ci deve essere un momento in cui, inconsapevolmente, qualcosa cambia, come accade per le farfalle, perché la maturità di certe ragazze trasformate in donne traspira da ogni poro della loro pelle. La avverto nei movimenti della camminata, la scorgo negli sguardi e perfino la tecnica di leccare il gelato cambia.

    Non c’è niente da fare, a volte guardo delle donne capaci di portare talmente bene la loro età, che le invidio e non vedo l’ora di arrivarci pure io.

    E poi mi accorgo che io, quell’età, l’ho addirittura superata.

    Io ne ho trentotto, come una febbre che ti lascia distesa a letto a suon di legnate in testa.

    Ma continuo a sentirmi la leggerezza dei miei quindici anni, e non è giusto che una quindicenne soffra così.

    Io sono una di quelle persone che preferisce fare finta non sia mai accaduto nulla, scrollo le spalle e riparto con un nuovo inizio.

    Guido per le strade deserte e buie mentre sembra che fuori diluvi, ma gli unici tergicristalli che devo azionare sono le mie mani da un occhio all’altro.

    Sul sedile accanto a me c’è il trasportino rosa, e dentro la mia Celeste.

    I conigli sono delicati, lo dicono tutto, ma il dolore che provo è feroce.

    Non sono una vera quindicenne perché dico certe parolacce, che una ragazzina, se le dicesse, si vedrebbe sbriciolare anche l’anima dai genitori.

    Però a mia giustificazione le dico solo tra me e me. Certe espressioni, quando escono dalla bocca di un uomo, sono solo frasi colorite.

    Un arcobaleno di irriverenze.

    Fuori dalla bocca di una donna invece perdono colore e puzzano di bile.

    Per questo motivo almeno da più di dieci anni ho il buon senso, se proprio qualcosa mi scappa a voce alta, di dirlo in russo: così nessuno capisce.

    Di solito dico блядь, che suona più o meno come una smorfia disgustata… bljad’.

    E invece ho detto qualcosa che significa meretrice, ma che farebbe impallidire anche Ivan Drago.

    Telefono a Davide, mio marito.

    Lui adesso è in Sicilia, sta lavorando lì e ne avrà ancora per una settimana. Guardo l’ora, le 23:30, dovrebbe essere nella sua stanza d’albergo. La strada è sempre deserta e il telefono squilla, poi tace.

    Bljad’!

    Abbasso le spalle mentre con le dita arpiono il volante, sono da sola e non ho bisogno di nascondere il senso di abbandono in cui sto sprofondando. Per risollevarmi scarico uno scroscio di espressioni colorite e giro lo sguardo verso il trasportino.

    Non avrei dovuto farlo.

    Siamo sole, io e lei.

    E io da sola ci sto bene, anche se ogni tanto mi piace la compagnia e spesso attraverso certi momenti in cui, se non avessi Davide a sorreggermi, cadrei.

    Forse sono perfino felice che non mi abbia risposto, così non devo dire quelle due parole: è morta.

    E se non le dico mi posso ancora illudere che non sia accaduto.

    Poi penso che sarò da sola anche a scavare la buca, la terra ghiacciata dell’inverno è maledettamente dura, a casa non ho più neppure mezzo sacco di calce viva.

    Inanello un pensiero dietro l’altro fino a infilare il peggiore: devo darmi una mossa e avvolgerla prima possibile in un lenzuolo - dopo tre ore i morti iniziano ad irrigidirsi.

    È Deborah a dirmelo. Io non ci avevo pensato.

    Lei è la fata madrina di Celeste, l’ha allattata quando è stata recuperata, e cresciuta finché non è diventata la peste che io e Davide abbiamo adottato. L’ho chiamata perché da sola, in questo momento, non ce la faccio proprio a stare, e anche se è tardi, lei mi risponde al secondo squillo.

    «Non ho mai toccato un animale morto, qualcun altro ha sempre fatto il lavoro sporco per me. » mi si forma una bolla in gola, forse la tiroide mi sta per scoppiare.

    «Pensa a tutte le volte che l’hai tenuta in braccio» dice Deborah per darmi coraggio, «È sempre lei, non mi puoi dire che non ci riesci».

    Si sbaglia, non è sempre lei.

    Questo è un pupazzo che non sta più in forma, con gli occhi sbarrati, uno sguardo fuori dal bulbo oculare e la linguetta di traverso. Storta.

    Alla fine lo faccio, solo perché sono costretta, mentre mi sento terribilmente in colpa per i miei occhi chiusi e la testa girata.

    Ingoiare, respirare, parlare, andare avanti, è tutto maledettamente difficile.

    Solo il fiume salato che mi trabocca dalle ciglia è maledettamente facile.

    2 PIOMBO

    «Cominciamo!»

    Il gran respiro preso appena un attimo prima, non è servito a tenere in equilibrio la mia voce: si è rotta neppure a metà parola. Stringo le dita attorno al manico della pala fino a farmi sbiancare le nocche, dicono che quando si tocca il fondo poi si deve per forza risalire.

    Non sono mica un sasso, penso, e aspetto di sentire il momento in cui mi staccherò dal fondo dell’abisso. So già che il dolore durerà per un bel pezzo, ma almeno non sono da sola a seppellire Celeste; la buca, quella sì ero da sola a scavarla.

    Ma poco importa.

    C’è il dolore che va pianto in solitudine, e quello in cui si ha bisogno di una persona vicina.

    Per il primo ci sono già passata, adesso sono decisamente in fase due: ho già quasi terminato i mille minuti di traffico voce mensili della mia tariffa telefonica, e con me c’è Emma, la mia vicina di casa.

    Ecco, i vicini servono anche a questo, a spolverare i colori.

    Così il mio nero #000000 è aggredito dalla luce come un virus dai globuli bianchi, e adesso sembra un paio di vecchi jeans neri che hanno fatto troppi giri in lavatrice.

    Nessuno sarebbe salito in macchina per venire a seppellire la mia coniglia, ma lei adesso è qui con me. E non importa se lo sta facendo solo perché abita nella casa accanto alla mia.

    Quello che conta è che lei è qui, e io non sono da sola.

    Emma impugna la pala esattamente come me, ricopriamo la mia Orecchie Lunghe una volta a testa, affondiamo nel fango fino alle caviglie, e non ho ancora terminato di guardare il mondo con uno sguardo acquoso.

    La casa è silenziosa in maniera irritante.

    Senza Celeste c’è una mancanza di suono che mi frastorna, eppure mi restano sempre sei gatti e un altro coniglio.

    È la mia voce quella che manca.

    «Celeste smettila!»

    «Cosa stai facendo?»

    «Celeste! In lettiera!»

    «Celeste vuoi?»

    «Di chi è questa pipì?»

    «Celeste dai vieni sul divano, solo tu mi puoi capire.»

    E senza di lei non c’è più nulla di celeste. Il cielo è un ammasso cotonato fumo di Londra, il sole è sparito da giorni sia in casa che fuori, ma in casa un po’ di più.

    Tutto è opaco.

    In questi giorni sto correggendo il mio libro, quello che dovrei pubblicare. Un romanzo.

    Sono al capitolo del giorno di Natale, e io non mi sento solo triste come chi ha subito un lutto.

    Sono disperata come a chi è morto qualcuno in un giorno di festa.

    Natale non sarà più Natale.

    Chiudo tutti i documenti aperti nel mio pc, non ce la faccio. Ho un vuoto dentro che mi divora a piccoli morsi.

    Mi sembra di aver letto un romanzo lunghissimo, scritto tanto in piccolo da riuscire a starci tutto dietro al prologo. Adesso è finito, giro pagina, e una storia nuova inizia mentre quella vecchia non è lontana, è proprio sotto al foglio di carta che tengo ancora tra le dita per un angolo. Eppure non la posso più avere, perché questo è il libro della vita, e una volta voltata pagina, non è più possibile tornare in dietro.

    La nuova storia è inchiostro nero su un foglio bianco; anche se non li vedo tra le mie mani ci sono tutti i colori. Dipende da me come usarli.

    Certo me ne manca uno e dovrò fare a meno del celeste.

    Forse se un giorno capirò come raggirare il dolore e vivere solo eventi felici, magari ritroverò anche quella sfumatura che adesso mi manca.

    Credo che se riuscissi ad avere tutti i colori, li potrei usare per essere più felice.

    Fluttuo dal letto al divano con un’espressione spenta e abbracciando sacchetti di cibo-spazzatura, ma chi è quell’idiota ostinato ad insistere su quanto tutto ciò che si trova in tubo, pacchetto o buste faccia male?

    Se non esistesse la cioccolata, sarei seriamente costretta a prendere in considerazione l’eventualità di rivolgermi ad un terapeuta.

    Accartoccio il sacchetto vuoto di patatine e lancio uno sguardo tutto attorno al campo di battaglia; dovrei alzarmi, darmi da fare, scopare le briciole a terra e ripiegare la copertina sul divano come se non servisse più.

    Mi sento già meglio, adesso ho un piccolo planning di buoni propositi da mettere in atto: domani avrò degli obiettivi da raggiungere.

    Domani.

    Oggi voglio scivolare ancora un po’ in tutte queste sfumature di grigio, sono in lutto, capiate il mio dolore.

    3 ARANCIONE

    Sono una persona fagogitata da un divano.

    Se fossi un piatto, il menù del giorno proporrebbe pesce lesso al cartoccio di pigiama di flanella.

    Sono affranta, la mia coniglia è morta, non ho un lavoro, sto perdendo un mucchio di ore scrivendo un libro che forse nessuno vorrà mai leggere.

    Passo le giornate sul divano, non mi spazzolo neppure i capelli, indosso la solita tuta da ginnastica ricamata da peli di gatto e mi sposto da lì solo per compiere il tragitto frigo-divano, o frigo-dispensa-delle-schifezze, e ritorno.

    Non mi sto lasciando andare, ho solo bisogno di tempo per capire dove devo andare.

    Trillo di Messanger.

    Sono finiti i tempi in cui rischiavo di sfracellarmi addosso a qualche mobile, quando captavo l’arrivo di un messaggio.

    Ormai gli unici sms che ricevo sono la tua promozione sarà rinnovata a partire dalle ore 24, assicurati di avere credito sufficiente, …a soli 129,00€ al mese con tre anni di manutenzione gratuita…, e più raramente è stato accreditato un bonifico a vostro favore….

    Ma il suono di Messanger mi defibrilla: qualcuno che conosco mi sta cercando.

    Telefono in una mano, telecomando nell’altra, sono ancora sul divano dove ho passato gli ultimi giorni a metabolizzare il mio lutto.

    - Ciao cara, tutto ok? …ti scrivo perché volevo chiederti… dovrei girare un video su una giostra – montagne russe - … da te magari? Mi dai una mano?

    È Sabrina, e non importa che non ci sentiamo mai, o che si ricordi di me solo quando le serve un aiuto. Va bene lo stesso.

    La sua è una mano che si immerge in una pozza di petrolio dopo un disastro ambientale, e afferra quel cormorano spennacchiato in cui mi sono trasformata.

    Certo lei non sa cosa stia facendo per me adesso, non può sapere di essersi impiastricciata di petrolio fino alla spalla afferrandomi per una piuma; ma io capisco che è arrivato il momento di alzare il culo, e spazzare via tutto il nero in cui mi sono avvolta.

    Sono stufa di quelli che mi chiedono come mi sento, e zitti se la ridono perché sto ancora piangendo per era-solo-un-coniglio.

    Chi invece capita nei paraggi per caso, non sa cosa mi sia accaduto, quanto mi senta di merda, non ha la minima idea del fatto che il mio divano abbia ormai preso la mia forma…, ecco la persona che si trasforma in un angelo.

    Le dico di chiamarmi, e quando lo fa il mio pomeriggio si tinge di arancione.

    Sabrina è arancione perché quando mi contatta, vuol dire che ha qualche idea e cerca una mano per realizzarla.

    Magari poi non concludiamo nulla, ma il solo fatto che abbia pensato di rivolgersi a me, mi gratifica quanto una tavoletta di cioccolato.

    L’arancione è un colore che riesce a stimolare l’appetito, come le sue idee, e mi trascina in una fame da lupi.

    Ho già voglia di creare qualcosa di grandioso, perché è questo che dovrei fare nel mio lavoro.

    Anche se non lavoro più da settembre.

    Il mio lavoro si svolge in uno di quei luoghi che potrebbe esistere solo nella fantasia. Da noi il fantastico diventa un’esperienza che chiunque può toccare con mano: è questo la Rainbow Amusement Corporation.

    Un’esperienza di puro consumismo occidentale racchiuso in un recinto di centri commerciali, divertimento, cinema, attrazioni, spettacoli, adrenalina e il piacere di trascorrere una giornata che si trasforma in un’avventura appena varcati i nostri cancelli.

    Noi vendiamo sogni.

    Io lì non ho una mansione definita, nel mio contratto sono classificata con un generico addetta settore artistico, ma di quelli come me, non ce ne sono tanti.

    Io sono quella che, quando le si domanda un parere, ha sempre un consiglio pronto. Quando faccio notare un problema, ho già la soluzione.

    Sono la persona da cui ci si aspetta l’idea brillante per il nome di uno show, o a cui si chiede di scrivere lo storyboard di uno spettacolo, realizzare il progetto grafico di una locandina, assistere a un’audizione, studiare la tematizzazione di un’attrazione, realizzare interi servizi fotografici e promo video, e a volte anche impugnare il microfono e presentare uno spettacolo.

    Chetty Russo non figura mai da nessuna parte, ma tutti la vogliono quando sono nei guai.

    Io sono quella che al modico costo del mio stipendio, viene definita Jolly.

    Una carta del genere illumina lo sguardo di chi la pesca, ma alla carta in sé, non fa poi tanta differenza ritrovarsi nelle mani di uno o l’altro dei giocatori.

    Basta che il banco paghi.

    Ecco, sento già il mio sguardo brillare, mentre penso alla Rainbow Amusement Corporation, anche se sono a casa da quasi sei mesi.

    Non mi serve a nulla avere delle capacità se non ho modo di utilizzarle, quindi affondo nel divano e mi crogiolo nel dolore.

    «Chetty? Sei ancora in linea?»

    «Cielo! Sabrina, scusa!» farfuglio spazzolandomi la felpa dalle briciole di patatine. «Davvero ti ho dato l’impressione di non starti ad ascoltare?»

    Inizia chiedendomi come sto, e continuiamo sparlando del fotografo con cui abbiamo lavorato diversi anni fa.

    In qualche modo bisogna pur rompere il ghiaccio, e sbriciolare a parole quell’uomo è tutto ciò che possiamo fare insieme; non abbiamo altri argomenti in comune.

    «Vorrei girare un corto, due soli attori, e pensavo di farli salire su…»

    «Un’attrazione, certo. Il nostro launch coaster che sarebbe perfetto, abbiamo già fatto riprese lì» la interrompo prima di sentirla di nuovo dire parole come giostra e montagne russe.

    Così nel mio abbagliante momento di distorsione professionale, evito di dirle che non sto lavorando.

    Conto di ricominciare presto, a dire il vero.

    Ho già contattato il Direttore Generale e per ben due volte mi ha risposto che mi avrebbe richiamata entro un paio di giorni.

    Questo è accaduto sia due settimane che quattro giorni fa, ma non me ne preoccupo.

    Avete presente la barchetta di carta che beccheggia, e affronta coraggiosa i gorghi limacciosi di Witcham Street in It di Stephen King?

    Ecco, la Rainbow Amusement Corporation, per gli amici R.A.C., in questo periodo non naviga in buona acque.

    Quindi aspetto, e tra l’assicurazione di essere richiamata tra due giorni di uno, e il progetto dell’altra, io mi sento già al lavoro.

    «Okay, l’idea mi piace» squillo, ed è vero, però ci sono dei punti che dovrà rispettare per avere una minima probabilità che le lascino realizzare le riprese.

    Cose del genere le abbiamo già fatte per canali nazionali, o programmi condotti da presentatori ben noti.

    Lei è la Signora Nessuno.

    Ci penso un attimo e Sabrina respira in attesa dall’altro lato del telefono: aspetta che le dia gli ingredienti.

    «Okay, dovrai mandarmi una richiesta via email che io poi girerò al Direttore Generale. Scrivila come se noi non ci conoscessimo.»

    «Certo, è ovvio!» sbotta ostentando una voce offesa a cui non credo.

    La sua risposta è troppo rapida, non sono certa ne abbia davvero compreso il motivo.

    «Se io ti presento come una mia amica, sembrerà che ti porto a trascorrere una giornata di giochi. Sarà questa l’impressione che daremo. Diremo invece che hai trovato i miei contatti, e mi hai inviato una richiesta. Mi è già capitato quindi a nessuno suonerà strano.»

    Sabrina rimane in silenzio e io me la immagino come se stesse prendendo appunti mentalmente.

    «Che cosa pensi di farci poi con questo documentario?»

    Nessuno le darebbe mai il permesso di girare nel nostro fantastico regno, se volesse realizzare uno spot sulla globalizzazione, il consumismo, il lavoro perso dagli italiani con la delocalizzazione delle imprese in Cina, o la fame nel sud del mondo e lo spreco in Occidente.

    «Pensavo di proporlo a qualche concorso.»

    «Bene, tanto prima di metà aprile non se ne parla, l’area divertimento e spettacoli del parco commerciale è chiusa fino a quella data. Prenditi il tempo che ti serve per sfogliarti i bandi, specifica la visibilità che avrà il tuo video: social network, YouTube, proiezioni… fai un progetto e descrivilo.»

    Mi dice che ho ragione, ma questo io già lo so.

    Quello che è importante è che mi sento affamata, d’altronde a mangiare viene fame, e oggi ci siamo date entrambe un po’ di arancione.

    Decido che è il momento di insegnarle qualcos’altro: a farsi furba.

    «Ovviamente tu chiedi di venire a interrompere la fila per salire sull’attrazione senza pagare un soldo…» la sento sospirare, e mi chiedo se avesse sperato che nessuno se ne accorgesse. «Quindi dovrai trovare un modo per renderti appetibile. Altrimenti non vedo perché ti dovrebbero dare il permesso di realizzare il corto proprio lì. Pensi di portare una Go Pro?»

    «Magari due» mormora, e capisco che ancora non sa dove voglio andare a parare.

    «Perfetto, offriti di realizzare su un paio di attrazioni qualche spezzone di video da regalare all’azienda.»

    «Magari potrei proporre di ritornare il giorno dopo» squilla in un esagerato scoppio di euforia.

    «Sabrina!»

    «Chetty?»

    «Così non va bene, lo capisci che mi hai appena proposto di venire a lavorare gratis un giorno? Più il giorno che ti servirà per preparare il materiale video da inviarci…»

    Sento un suono che assomiglia molto a quello di una ventosa in azione sullo scarico intasato di un lavandino, e capisco che non ha bisogno di altre spiegazioni.

    Dare consigli mi piace, chissà magari potrei inventarmi una professione per persone bisognose di essere indirizzate da una presenza amica.

    Mi viene in mente il personal shopper e conio il lavoro che vorrei: personal friend.

    Il personal friend dovrebbe essere di certo vestito con almeno un capo arancione, l’arancione mette fame, e a tavola è più facile essere amici perché prima di tutto viene sempre portato il vino.

    «Farai tutto in giornata, se ti proponi di tornare sembrerai poco professionale» la avviso.

    Ci lasciamo con una carica che prima non avevamo: non mi dispiace la prospettiva di rivedere Sabrina, e neppure di far regalare alla mia azienda un paio di filmati realizzati sulle attrazioni con la Go Pro. Se l’arancione avesse anche un gusto, non so di cosa saprebbe, ma sono certa che sarebbe delizioso.

    Sull’onda di tutto questo arancione, mi viene fame di un po’ di fatti degli altri. Ho ancora tra le mani il cellulare con cui ho appena finito di parlare con Sabrina, tocco l’icona di Facebook e spero di fare uno spuntino.

    Dopo qualche vignetta sui gatti che presto conquisteranno l’intero universo, e qualche annuncio di coniglietti in cerca di casa, ecco il mio spuntino.

    Il bacio di Svetlana e del suo ragazzo, un mordicchiarsi di labbra dentro a quello che ha tutta l’aria di essere un Mac: Mangiatoia-assettica-consumaschifezze.

    Ho un sussulto al cuore, come se ne avessi appena subito un trapianto e fossi in piena fase di rigetto.

    Non mi piace, a quindici anni forse si potrebbe fare (se vuoi correre il rischio di non arrivare ai sedici), ma a trentasette non mi piace.

    Lei non ha ancora un’età da febbre, sono i suoi ultimi mesi per fare una lista di tutto ciò che dai trentotto in poi è out, e questo bacio postato su Facebook con il suo baby fidanzato di ventinove anni forse è già out.

    Aveva detto, prima di tornare in Ucraina, che con gli italiani aveva chiuso. Poi è andata a lavorare in Polonia e ha conosciuto un italiano.

    E adesso è ancora qui.

    Quando penso a lei sono due i ricordi che fanno a pugni per aggiudicarsi il primo posto:

    1) È riuscita a farmi da testimone di matrimonio mentre il suo permesso di soggiorno era scaduto da più di due anni.

    Quando siamo riusciti a convincerla che nessun circo le avrebbe preparato nuovi documenti, che a trentacinque anni è ora di smetterla con l’idea di lavorare appesa per aria, che non si può fare l’acrobata per tutta la vita, e a riorganizzarle il viaggio di ritorno in Ucraina, sono stata per ore con le dita incrociate e lo stomaco sotto sopra.

    Ma alla fine non si è sporcata con nessun timbro sul passaporto, una di quelle macchie nere che le avrebbe impedito di ritornare per almeno cinque anni.

    2) Al mio matrimonio, la mia testimone era vestita con un paio di jeans e un gatto nero stampato dal collo alla vita della sua maglietta bianca.

    Io e Davide siamo ancora sposati. Non è vero che i gatti neri portano sfortuna.

    Certo, mi aveva fatto mille promesse quando mi aveva proposto di seguirlo a Roma, di venire qui a vivere con lui. Il tempo è passato coprendole con la polvere dei ricordi, e anche la magia, la scintilla, un po’ si è spenta.

    Sposarsi non è prendersi cura di qualcuno che dovrebbe essere autosufficiente per badare a sé stesso, ma almeno ci vogliamo bene.

    Il mio sguardo abbandona le punte delle mie scarpe per tornare a fissare la foto nel telefono, i colori della bandiera ucraina le stanno bene, l’ho sempre pensato. L’azzurro è quello rilassante dei suoi occhi, e il giallo ne rappresenta in tutto l’umore solare, ma anche la tinta dei suoi capelli.

    La faccia di Svetlana è una perfetta bandiera ucraina, anche se poi lei si veste spesso di bianco, che si perde un po’ con la sfumatura latte della carnagione, e la fa sembrare un disegno ad acquarello.

    Forse è proprio per questo che con i suoi colori liquidi è riuscita a schizzare anche me. Gli altri, quelli che lavoravano con noi sotto l’arcobaleno, non sono mai riusciti a comprenderlo.

    Eppure non è difficile capire che Svetlana, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, è una che ti colora la vita.

    Tutti preferiscono circondarsi con chi li può illuminare, o lasciar sopravvivere all’ombra della loro luce.

    Io scelgo le persone che mi sanno dare un colore, perché a volte, se non ci sono loro, tendo a sbiadirmi.

    Svetlana può essere considerata bizzarra, se lei fosse un romanzo allora sarebbe Me and my cats before You, ma è buona e sincera.

    Per questo l’ho scelta come testimone.

    La persona più limpida che gravitasse attorno a me in quel periodo.

    E lei è ancora così, solo che adesso gravita un po’ meno attorno a me perché, sebbene sia tornata in Italia, ci dividono settecentodieci chilometri di autostrada.

    4 CASTAGNO

    Mi guardo allo specchio, la mia pelle è ancora abbastanza fresca, ma non è questo che sono venuta qui a controllare.

    La gente, specie le Più-giovane-di-te o le Miss-capelli-perfetti, ma anche le Cellulite-non-ti-conosco, rimangono sorprese quando svelo la mia età.

    Tutti quei ma davvero?, beh, però non li dimostri, ma scherzi, dai? …Ops mi fanno salire il sangue alla testa.

    Come se avere un’età da febbrone ti equipaggiasse del passaporto marziano.

    Sono quelli i momenti in cui mi convinco che è arrivata l’ora di cambiare look.

    Non di certo per assomigliare a nonna Abelarda, su di lei c’è già il copyright.

    Forse riuscire a dipingermi un velo di maturità, o darmi un contegno, un’aria, una puzza sotto al naso… mi eviterebbe di dover affrontare tutta quella odiosa sorpresa.

    Mi guardo ancora, rigiro un fianco e allargo le spalle.

    Ho perso quel paio di chiletti che mi si erano accumulati sul giro vita, adesso entro di nuovo nella mia taglia senza strabordare dalla cintura.

    Il mio problema sono i capelli.

    Castani.

    Lunghi. Sempre avuti così e se ci fossi riuscita, li avrei voluti ancor più lunghi.

    Lunghi perché a quindici anni pensavo di essere la reincarnazione di una principessa indiana, quindi i centimetri di capelli mi servivano per dimostrarlo.

    Ora però lo specchio mi rimanda l’immagine di una donna europea di trentotto anni e mezzo, un’età quasi da febbrone, e con una capigliatura da figlia dei fiori.

    Con la mia carnagione olivastra potrei passare per gitana, e prima di vedere le altre donne stringersi la borsa sotto al braccio mentre cammino attraversando il mercato, mi chiedo se non sia il caso di dargli un’accorciata.

    Non sono mai stata un’accanita frequentatrice dei saloni di bellezza, l’ultima volta che ho permesso a qualcuno di toccarmi i capelli è stato un anno fa.

    Che il mio amore per l’estetica sia pari a zero? No, ho solo la psoriasi.

    Per fortuna quasi tutta concentrata sul cuoio capelluto, ben nascosta dai capelli.

    Lo shampoo dei parrucchieri mi brucia la pelle come ammoniaca, mi gratto a sangue, neanche avessi una colonia di pulci trai capelli, e non trovo pace finché non li lavo. Per questo giro alla larga da parrucchieri, hair stylist e tutti quelli che mi vogliono mettere le mani tra i capelli.

    Finché posso.

    Qualsiasi shampoo mi scortica la testa, io a casa adopero solo farina di ceci. I parrucchieri invece ogni volta scambiano la psoriasi per forfora e cercano di regalarmi campioncini di shampoo che non userò mai, e che tanto meno tornerò da loro per comprare.

    Quello è sempre il momento più imbarazzante, perché finché mi lavano i capelli, li pettinano o li tagliano, posso immaginare che cosa stiano vedendo.

    Ma penso anche che forse sono tutte paranoie.

    Quando se ne escono con un «Hai parecchia forfora, vuoi provare uno shampoo?», penso solo che vorrei essere un personaggio de La storia infinita, uno qualsiasi.

    Tanto, presto o tardi, finiscono tutti per essere inghiottiti dal nulla.

    Mi guardo ancora, mi sorrido lasciandomi distrarre da quello che è il mio vero obiettivo, e poi mi rendo conto che lo specchio non è magico, e non mi parlerà mai.

    Per questo c’è il telefono.

    Chiamo Lory, la mia amica delle sbronze a diciassette anni. Quella che mentre vomitava birra in giardino, io le reggevo la testa tenendola per i capelli.

    Con chi, meglio di lei, parlare di capelli?

    «Ho trentotto anni e mezzo» esordisco.

    Silenzio.

    Lei ne compirà trentanove tra dieci giorni, quello che a me sembra silenzio forse è solo il tempo che a lei serve per cercare qualcosa di adatto da lanciarmi addosso.

    «Devi aiutarmi» ritento, «alla mia età, capelli come i miei sono fuori luogo?»

    Ride, forse si aspettava di affrontare un argomento più spiacevole. Ma adesso la mia croce è questa.

    «Ma no, tu sei stata sempre bene con i capelli così» si oppone salendo di un tono.

    «Ho qualche capello bianco.»

    Lo dico tutto d’un fiato, come si potrebbe confessare un misfatto.

    «Li copro con l’henné, però ogni tanto ne spunta qualcuno di nuovo: capelli lunghi e fili bianchi insieme non mi sono mai piaciuti» confesso.

    «Sei sempre stata bene così» insiste, in evidente carenza di sostantivi, aggettivi e predicati.

    «Aspetta i quaranta, e poi li tagli» esclama senza darmi il tempo di controbattere, e con un tono da intuizione geniale.

    «Lory» sbuffo, «trentotto, trentanove… non c’è differenza con quaranta. Il numero perfetto davanti a un otto o a un nove, è solo un’illusione.»

    «Ma i quarant’anni sono un traguardo!» ci riprova, e mi sembra perfetta per una televendita.

    Infatti non riesce a convincermi.

    La sento prendere un respiro come se stesse per darmi una rivelazione mariana, e io mi metto seduta comoda, pronta ad ascoltare una cazzata epica.

    Immagino le sue spalle alzarsi, la schiena che si raddrizza e la pelle del viso mentre si illumina: assetto da lancio.

    «Beh» esclama con un sospiro concitato, «Se ci hai pensato vuol dire che forse hai voglia di un cambiamento!»

    Questa volta sono io a creare un effetto pianeta Terra disabitato dopo la fine del mondo.

    Ma anche se da me non esce nessun suono, gli ingranaggi nella mia testa continuano a funzionare.

    Grazie Lory, ma che cazzo significa? vorrei dirle.

    Parliamo ad esempio del viagra.

    Il principio attivo era stato sintetizzato per curare pazienti cardiopatici, rilassare i vasi sanguigni e far passare più sangue; e il resto lo sappiamo.

    Quando Constantine Fahlburg studiava il carbone, avrebbe solo voluto trovarne nuovi utilizzi energetici, e non pensava certo a un metodo per zuccherarsi il caffè. Quella della saccarina è stata una scoperta del tutto casuale.

    Gli alchimisti medievali cinesi, non avevano in mente di ammazzare qualcuno quando inventarono la polvere da sparo. Al massimo stavano cercando la formula della vita eterna!

    Si chiama serendipità, ed è la capacità di arrivare a rilevanti scoperte scientifiche seguendo il percorso della casualità.

    Ecco, l’idea di tagliarmi i capelli, non mi è baluginata perché ho voglia di cambiare, sto solo cercando una risposta.

    La soluzione a qualcosa.

    Sì, ma a cosa?

    Nel frattempo Lory sta continuando a parlare, non so perché adesso mi stia raccontando qualcosa riguardo al suo ultimo viaggio in Canada sulla rotta delle balene. Per me la telefonata è già conclusa, ed è di nuovo

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