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L'Uomo del Fuoco
L'Uomo del Fuoco
L'Uomo del Fuoco
E-book408 pagine5 ore

L'Uomo del Fuoco

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Info su questo ebook

Le cose non si mettono bene per Alaisa e gli altri apprendisti della maestra Skelribel, costretti a nascondere la loro magia e ad affrontare nuovi nemici, inaspettati e spaventosi: tra questi, vi sono gli adepti della misteriosa Setta del Fuoco, una congrega di maghi malvagi devoti a un potentissimo stregone dato per morto da anni…
Per combattere le oscure forze che cercano di distruggere Adaesha, saranno costretti a cercare un aiuto esterno, e a riportare indietro anche la fonte di passati amori e rancori. Ma le insidie possono arrivare anche dalle ombre celate nella propria anima...
Se, da un lato, nuovi maestri e alleati la rendono sempre più forte, dall’altro Alaisa dovrà lottare con tutta se stessa per non soccombere al suo stesso potere e alle proprie passioni. E le conseguenze da pagare potrebbero essere terribili.
In “L’Uomo del Fuoco”, il secondo capitolo della Saga di Alaisa, Sabrina Guaragno dipinge una Adaesha cupa e pericolosa, su cui si muovono nuovi e ambigui personaggi che combatteranno al fianco di Skelribel e i suoi apprendisti, o contro di loro. Riusciranno a rimanere uniti di fronte alle due guerre che minacciano il loro mondo?
LinguaItaliano
Data di uscita12 nov 2020
ISBN9788898754960
L'Uomo del Fuoco

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    Anteprima del libro

    L'Uomo del Fuoco - Sabrina Guaragno

    I edizione digitale: novembre 2020

    © tutti i diritti riservati

    Nativi Digitali Edizioni snc

    Via Francesco Primaticcio 10/2, Bologna

    ISBN: 978-88-98754-96-0

    www.natividigitaliedizioni.it

    info@natividigitaliedizioni.it

    Pagina Facebook: La Strega della Fonte - La saga di Alaisa di Sabrina Guaragno

    Copertina a cura di Valentina Marcone

    Mappa a cura di Simone Macellaio

    Agli uomini forti

    che non temono il potere.

    E a quelli che riconoscono le loro debolezze,

    e non temono la paura.

    Riepilogo

    La Strega della Fonte

    Alaisa è pronta per intraprendere il tragitto che la porterà alla dimora della Strega della Fonte insieme agli altri Candidati: Lill, Ethas, Edeny e Sayris. Ma la strega sceglierà solo uno di loro come suo nuovo apprendista.

    È così che inizia il viaggio, tra conoscenze, sospetti e ostacoli. Tra Ethas e Alaisa sembra nascere in poco tempo un sentimento, ma quando il loro viaggio giunge quasi al termine, lui decide di farsi da parte, promettendole che l’aspetterà.

    Alaisa giunge alla Fonte insieme all’ultima Candidata rimasta, Edeny, solo per scoprire che è proprio lei la Strega della Fonte. Il suo vero nome è Skelribel, e decide di offrirle un posto come sua allieva: la ragazza non può far altro che accettare.

    Qualche tempo dopo, Alaisa è nel pieno degli allenamenti presso la dimora della strega, il Diamante, una bellissima struttura che sembra fatta di cristallo lucente. Assieme a loro, ci sono anche le due figlie gemelle di Skelribel, Dorothy e Meredith, e un altro apprendista di nome Roran.

    Insieme, Alaisa e Roran affrontano l’iniziazione, trovano il loro drago speciale e attraversano la Prova del Bene e del Male. Ma è solo per caso che Alaisa scopre quanto Roran sia incredibilmente somigliante a un mago oscuro del passato; Skelribel le confessa che lui è figlio dell’Uomo del Fuoco, il mago fondatore di una Setta, i cui adepti avevano quasi raso al suolo Adaesha, numerosi anni prima. Solo che questo Roran non lo sa, e non lo deve sapere.

    Alaisa e Roran vengono messi davanti a una prova che li vedrà rivali, e questo rischia di distruggere il loro rapporto d’amicizia così faticosamente costruito. In seguito alla prova, però, i due si ritrovano, e insieme vanno a far visita alla famiglia di Alaisa, il premio concessogli dalla strega in seguito alla loro prova.

    Di ritorno, passano dalla città natale di Roran, solo per scoprire che è stata rasa al suolo. Roran chiede conto di ciò alla strega, che è costretta a rivelargli le sue vere origini; la città è stata distrutta dai membri residuali della Setta che suo padre aveva creato, nel tentativo di cercare proprio lui. Roran è turbato dalle nuove rivelazioni, e deluso da Alaisa per avergli taciuto la verità, ma decide di perdonarla.

    Qualche mese dopo, giungono al Diamante dei nuovi apprendisti: Dean, Ilan e Shyr. Quest’ultima porta con sé un oscuro segreto: sembra che in lei risieda un demone, e questo potrebbe complicare un po’ la convivenza al Diamante.

    Alaisa e Roran vengono inviati in un’altra regione, in soccorso della strega Athia, alle prese con un’epidemia di febbre misteriosa. Qui conoscono Drayn, un ragazzo ambiguo e fastidioso. Al loro ritorno, qualcuno cerca di rapire Alaisa, ma Roran riesce a salvarla.

    Una volta tornati al Diamante, appare evidente come tra Alaisa e Roran ci qualcosa di più di un’amicizia, anche se i due decidono di tenere nascosta la loro relazione.

    Mandati in un’altra città per delle commissioni, Alaisa e Roran vengono frettolosamente richiamati al Diamante. Ma qui vengono catturati, e scoprono che Drayn ha preso in ostaggio anche la strega e le sue due figlie gemelle: è un adepto della Setta.

    Drayn riesce a estorcere a Skelribel la verità: lei stessa è la madre di Roran, che aveva tenuto addormentato con la magia per circa vent’anni, pur di salvarlo dai membri della Setta che li cercavano.

    Alaisa e Roran riescono a liberarsi e a battere Drayn e gli altri membri della Setta che li tenevano in ostaggio, ma il Diamante non è più un luogo sicuro. Mentre Alaisa, Skelribel e le sue figlie cercano di riprendersi, Roran decide di andar via per non metterli ulteriormente in pericolo.

    Prima parte

    Un demone dentro

    Famiglia improvvisata

    A quest’ora la periferia è tutto un brulicare di faccende losche e brutti ceffi: l’oscurità è calata da poco su Merya. È una città ombrosa, i cui edifici, spesso alti e bitorzoluti, sembrano esser stati costruiti uno a ridosso dell’altro. Le strade, strette e labirintiche, sono come gole di un grande mostro serpentesco, che rischia spesso di soffocare.

    Cammino a ridosso delle pareti scrostate e sporche, cercando di non farmi notare, calandomi maggiormente il cappuccio sul volto. Indosso pantaloni scuri e un corpetto stretto sotto alla camicia larga, in modo da nascondere le mie fattezze femminili.

    Mi fermo al solito angolo, in attesa, nel buio della sera.

    Mi si avvicina un uomo grasso, dagli occhi piccoli. Cerca di scrutare sotto al cappuccio, con fare indagatorio.

    Non è lui.

    Sposto il mantello di lato, a scoprire la mia gamba tesa. L’uomo sembra incuriosito dal gesto. Solo quando nota che gli sto indicando il pugnale infilato nella mia cintura, sembra trasalire un attimo, e si volta dall’altra parte con uno scatto. In pochi secondi, si dilegua.

    Una figura incerta e tremante si avvicina. Poggia le spalle incassate alla parete, lanciandomi un’occhiata timorosa.

    Tossisce, tre volte.

    Mi avvicino.

    «Sono io» sussurro.

    L’uomo si volta a guardarmi, incerto. «Seguitemi, vi prego» mi dice. La testa calva leggermente sudata, negli occhi un’espressione dolorosa.

    Si fa strada in un dedalo di vie poco frequentate.

    Nonostante non sospetti dell’uomo che mi precede, le mie dita non si scostano mai dall’elsa del pugnale. Lo so usare a malapena, ma è pur sempre un’arma visibile, capace di intimorire al primo sguardo. Mostrare la magia, ultimamente, può rappresentare un pericolo.

    L’uomo apre la porta di legno scricchiolante di una baracca che si erge tra due palazzine malandate, mantenendola aperta finché non mi decido a entrare.

    L’interno è più accogliente dell’esterno: il camino acceso irradia un calore rassicurante, e un odore di zuppa mi giunge alle narici. Nonostante ciò, un mugolio indistinto rende l’atmosfera decisamente tesa e angosciosa. L’uomo mi conduce vicino a un letto.

    Un bambino dal colorito poco sano si confonde tra le lenzuola: al suo fianco una donna gli tiene la mano. Il piccolo mi guarda debolmente, incapace di fare di più. Ha i capelli scuri e umidi di sudore, gli occhi chiari arrossati, le labbra socchiuse.

    «Aiutatelo, per favore» mugugna la donna.

    «Quali sono i sintomi?» chiedo, abbassando il cappuccio e accovacciandomi lentamente vicino al ragazzino, per evitare di spaventarlo.

    L’uomo, suo padre, mi scruta, sorpreso.

    «Ha la febbre, una forte tosse, e non riusciamo a farlo mangiare. Per favore, fate qualcosa» ripete la donna, disperata.

    Poggio una mano sulla fronte del bambino. Scotta.

    «Ehi» dico, sorridendo appena. «Come ti chiami?». Prendo il panno bagnato dalla bacinella d’acqua, e glielo poggio sul capo per dargli sollievo.

    «Marinel» risponde lui debolmente, le labbra secche.

    «Piacere, Marinel. Il mio nome è Ria» dico, accarezzandogli la testa. «Qualcun altro di voi è stato male?» chiedo, voltandomi verso i genitori.

    Loro si guardano reciprocamente, una nota di acuto dolore nei volti.

    «Nostra figlia, è morta due settimane fa. Dello stesso male» mi informa il padre di Marinel, mentre la moglie scoppia in un pianto inconsolabile.

    «E poi ci sono queste» annuncia il padre, alzando una manica della camicia del bambino. Delle macchie rossastre, simili a bruciature, gli decorano il braccino altrimenti pallido.

    La febbre misteriosa. Rovisto nella mia sacca. Tiro fuori un paio di fiale, contenenti un siero che Athia, la curatrice di Nilen, mi ha insegnato a creare.

    Tolgo il tappo di una delle boccette, poi mantengo la testa del bimbo per aiutarlo a buttarla giù.

    «Ecco qui, Marinel, bevi questo. Ti farà sentire meglio» gli sussurro dolcemente. Lui beve, incerto, prima di sprofondare nuovamente nel cuscino. Lo guardo solo per un altro momento, prima di allontanarmi dal suo capezzale.

    «Questo invece è per voi» dico ai genitori, porgendo loro un’altra ampolla di siero. «Si tratta di un antidoto. Prendetene un po’ anche voi, per evitare il contagio».

    La donna annuisce, stringendosi l’ampolla al petto.

    Ha i capelli stretti in una crocchia disordinata e ampie occhiaie sotto gli occhi verde spento.

    Il mio pensiero va subito a mia madre, e l’apprensione s’impadronisce di me. E se lei e le mie sorelle venissero contagiate dalla malattia portata dagli adepti della Setta di Sangue?

    Sbatto le ciglia, cercando di ritrovare la concentrazione e di pensare solo a ciò che sto facendo.

    «Per favore, fate finta di non vedere quello che sto per fare» dico ai genitori del piccolo, che mi guardano senza capire.

    Quando mi vedono porre le mani sul petto del bambino, li sento trattenere il fiato.

    La magia. Significava salvezza, fino a qualche mese fa.

    Poi sono iniziati i saccheggi, gli incendi inestinguibili, la paura, la febbre. La Setta di Sangue, quella di cui tutti hanno sempre negato l’esistenza, come se il Secondo Periodo Oscuro della Magia non fosse mai esistito, è tornata a far parlare di sé. Gli adepti hanno incominciato a lanciare minacce, a spargere voci sulla resurrezione del loro padrone: sul riapparire di Epto, il Dio Supremo del Fuoco, ora reincarnatosi nel figlio dell’Uomo del Fuoco.

    La gente ha iniziato ad avere paura, a evitare streghe e stregoni, a isolarli e guardarli con timore e apprensione. La famiglia reale, incapace di sostenere una simile emergenza, ha interpellato le linee militari, molte delle quali sono impegnate sui confini occidentali a causa dei turbolenti movimenti dei Tirie. Se non ci si può più fidare dei maghi, come si può sperare di fronteggiare una possibile invasione?

    Ora la magia significa sospetto. Quanto altro odio e morte ci vorranno per farla diventare maledizione?

    Una luce leggera scaturisce dalle mie mani, espandendosi sul petto del bimbo. Dura solo un attimo. Poi mi alzo, continuando a guardare Marinel.

    Mi fissa di rimando. «Mi sento meglio» sussurra.

    I genitori tirano un sospiro di sollievo e sorridono. La madre abbraccia il piccolo, poi è il turno del padre di avvicinarsi a lui e scompigliargli i capelli.

    «La ringrazio» sussurra la donna, stringendomi un braccio, accorata. «Mi avevano detto di non fidarmi delle streghe, che ormai non ce ne sono più di disposte ad aiutare la povera gente. Dicono che siete voi a diffondere la malattia! Non so quale sia la verità, ma sono grata che mio marito sia riuscito a rintracciarla, signorina. Che gli Dei la benedicano!».

    Sorrido leggermente alla signora. Poi l’attenzione di entrambe viene attirata dalla voce del bambino.

    «Mamma, ho fame!».

    Lei sorride, tra le lacrime di gioia che le sono scese sul volto. «Piccolo mio, ti porto subito un po’ di zuppa!».

    «Ciao, Marinel» dico, rimettendomi il cappuccio sul capo.

    Mi incammino verso la porta, seguita dal padre.

    «Vi sono immensamente grato, signorina Ria». Mi porge un sacchetto di monete non troppo pesante. «Questo è tutto ciò che abbiamo».

    Apro il sacchetto, lo svuoto sul palmo della mano. Dieci monete d’oro.

    Sento lo sguardo nervoso dell’uomo addosso, preoccupato che non sia abbastanza.

    Rimetto nel sacchetto cinque monete e glielo porgo. «Mi bastano queste» dico, prima di voltarmi e sparire nel buio. Non voglio privare una famiglia di tutto il proprio oro, non in un momento simile.

    Se, fino a qualche mese fa, raccogliere soldi tramite gli spettacoli era un gioco, adesso guadagnarli tramite piccoli lavoretti magici fatti di nascosto è una necessità. Due mesi fa, gli adepti della Setta che ci hanno attaccato e che sono riusciti a fuggire non ci hanno solo privato della serenità, ma hanno anche distrutto parte delle proprietà del Diamante, dei beni della mia maestra, dilapidando ogni suo tesoro.

    Ora dobbiamo contare solo sulle nostre forze per sopravvivere.

    Attraverso nuovamente le strade tentacolari di Merya, cercando di confondermi con l’oscurità, senza attirare l’attenzione della gente poco raccomandabile che circola in giro.

    Degli uomini, torce alla mano, perlustrano le strade. Dovrebbero avere lo stesso ruolo delle guardie del Principe Didio Shalor, quasi interamente impegnate sul confine Tirie: proteggere la città. Ma ciò che fanno realmente è fermare le persone che sembrano loro sospette e interrogarle finché non trovano qualcosa che non va loro a genio, e il tutto spesso finisce in una rissa o, alla peggio, in un pestaggio. Se decidono, poi, di avere tra le mani una strega, la portano al Tempio, di fronte alla piazza della città, e tentano di esorcizzarla con un rito del culto anti-stregoneria dei Gemelli Lio e Ilo, sotto le statue guardinghe dei Cinque Dei di Adaesha. Anche se le statue rimaste sono solo quattro: quella di Moria, la Dea della Magia, è stata vandalizzata e distrutta.

    A quest’ora, la locanda è nel pieno della sua attività: ci sono uomini che brindano, fiumi di alcool e arrosti succulenti.

    Nonostante abbia lavorato tutto il giorno, il mio appetito è pressoché nullo, così cerco di ignorare gli schiamazzi, il profumo del cibo e i commenti allusivi, mentre attraverso la sala affollata, salgo le scale e imbocco il corridoio degli alloggi. Apro la porta con la chiave che ho in tasca.

    «Salve, Alaisa». Dory sta rinnovando gli incantesimi di protezione attorno alla locanda. È seduta sul pavimento di legno consunto, circondata dai quattro elementi: una candela accesa, della sabbia, un rametto e un recipiente d’acqua. Questi ultimi sono più importanti degli altri, visto che rappresentano i suoi elementi: l’acqua e la terra. Gli stessi di sua sorella Meredith, gli stessi di Skelribel.

    «Buonasera, Dory» dico, chiudendo la porta e togliendomi il mantello. «I ragazzi non sono ancora tornati?» chiedo, e lei scuote la testa.

    Si volta per riprendere il suo incantesimo, pronunciando parole in magiziano che possano darci un minimo di protezione contro gli adepti della Setta.

    Non sembra che siano davvero venuti a cercarci da queste parti, o almeno, non ancora. E non possiamo creare un incantesimo che impedisca loro di entrare nella locanda. Possiamo, però, crearne uno che ci avvisi non appena un mago, o una strega, vi si avvicina. Poco preavviso, è vero, ma meglio di nulla. Per fortuna, non ci sono molti maghi in giro, di questi tempi.

    Non sappiamo se Drayn abbia parlato ad altri dei suoi dubbi circa la vera identità di Skelribel, ma sappiamo che due adepti sono riusciti a scappare, la notte durante la quale tutto è andato a rotoli, e che sanno di noi. Per non contare che, in questi due mesi, non abbiamo potuto allontanarci molto dal Diamante, viste le condizioni di Skelribel e Meredith.

    L’abitazione affittata alla locanda è formata solo da due stanze e, mentre io, Shyr, Dean e Ilan dormiamo in soggiorno, arrangiandoci con materassi imbottiti di paglia, la camera da letto vera e propria è abitata da Skelribel, Meredith e Dorothy.

    Entro nella loro camera. È spoglia, le pareti sono formate da assi di legno e vi è appeso solo un quadro, rappresentante il mare e circondato da un’orribile cornice. Ci sono un grande e bitorzoluto letto matrimoniale, un comodino di legno grezzo e un cassettone. Skelribel è seduta sul letto, e cerca di ricamare un fazzoletto di stoffa bianco con le mani tremanti. Al suo fianco, Meredith le dà le spalle, raggomitolata su se stessa, chiusa al mondo.

    «Come stai, maestra?» chiedo.

    La strega dai capelli biondi alza il volto dalle sue mani, e mi rivolge un’espressione sofferente. «Vorrei poterti dire che sto meglio» sussurra, affranta. Abbassa il viso sulle sue mani, come se non le riconoscesse. «Ma tutto sembra diverso, in me».

    I capelli biondi e ricci sono placidi e scompigliati sulle sue spalle, che non sono mai sembrate così magre e deboli come adesso. Indossa un vestito bianco con rifiniture color cielo, ma il suo corpo è fiacco, piegato dalla sofferenza, privo di ogni magia.

    L’incantesimo che l’ha costretta a dire tutta la verità a Drayn l’ha lasciata debilitata, indebolendo i suoi poteri e le sue difese mentali. L’ha lasciata impotente.

    «Andrà meglio» sussurro, impassibile. Una roccia che non si scalfisce, non malleabile.

    «Grazie, Alaisa» bisbiglia lei, prima di voltarsi verso la figlia che le somiglia di più.

    Meredith non ha più parlato da quel giorno. Non un lamento, né un sorriso. Nessuna espressione sul bellissimo volto. Solo spalle voltate, incurvate sotto un peso troppo grande da sopportare. Solo sofferenza silenziosa, contro la quale ci sentiamo impotenti.

    La porta dell’abitazione si apre.

    «Buonasera!» esclama Dean, il torso nudo e i capelli castani sudaticci, portando in spalla fiaccole e altro materiale per lo spettacolo del mangiafuoco.

    Dietro di lui, ci sono Shyr e Ilan, agghindati per l’esibizione a cui hanno partecipato, nel centro di Merya.

    «Com’è andata?» chiedo, senza entusiasmo.

    «Tutto bene, maestra. Ecco qui cosa abbiamo raccolto» mi risponde Shyr, venendomi incontro e porgendomi un sacchetto.

    Shyr e Dean sorridono, almeno loro. Sono la gioia di questa piccola compagnia di sofferenze.

    La ragazza è bellissima nel suo vestito viola e nero, che la vede cantare sotto lo sguardo del suo pubblico in piazza quasi ogni giorno, mentre Ilan suona qualche strumento e Dean dà il meglio di sé con le torce infuocate. È molto bravo, ma mai quanto lo era Roran.

    «Benissimo. Domani passeremo dal mercato per fare provviste. Nel frattempo, tenete qualcosa per pagarvi la cena».

    «Possiamo mangiare alla locanda?» chiede Shyr, sorridente. Annuisco osservando, senza farmi notare, le pietre lilla che indossa. Per fortuna stanno reggendo bene.

    «Certo» dico, porgendole delle monete.

    «Vado anch’io, Alaisa. L’incantesimo mi ha sfiancato» m’informa Dory, alzandosi dal pavimento.

    Skelribel asserisce di non avere appetito, mentre Mery non risponde alla proposta della sorella di andare con lei. Alla fine, Dory sospira. «Porterò qualcosa per loro» mi assicura lei, mentre esce insieme agli altri ragazzi.

    «Tu non vieni?».

    «Non ho appetito» dico, richiudendo la porta.

    Quando il sogno di una convivenza idilliaca al Diamante è andato in frantumi, tutto è diventato confuso, sfumato.

    Cosa avremmo dovuto fare? Roran era andato via, Skelribel era esanime, Mery era muta e Dory sembrava in balia di un crollo emotivo che le impediva di prendere decisioni lucide.

    Dopo la battaglia, sono stata io a recuperare Shyr, Dean e Ilan, rimasti fuori città per allenarsi, per riportarli al Diamante. Ho spiegato loro la situazione, tra sguardi increduli e spaventati. Ho chiesto loro se non avessero preferito tornare dalle loro famiglie.

    «Alaisa» aveva iniziato a dire Dean, con aria grave. «Nessuno di noi ha una famiglia da cui tornare».

    La crudezza delle sue parole aveva rischiato di affondarmi ancor più nello sconforto. Come potevo occuparmi anche di loro?

    In realtà, Shyr aveva una nonna e Ilan era un nobile, padrone di un castello e di montagne di monete d’oro, ma tutto era troppo lontano, impossibile da raggiungere.

    «Non possiamo separarci» aveva concluso Ilan Lorenth, guardandomi intensamente. «Mai come adesso, Skelribel ha bisogno di una mano. E noi non ti abbandoneremo, Alaisa. Siamo gli apprendisti della strega, ma siamo anche tuoi compagni. Non saremo un peso per te, solo insieme possiamo farcela».

    «Ilan, la situazione è molto complicata» avevo detto, cercando di ricacciare indietro le lacrime. «La Setta di Sangue si sta ricostituendo. Non so come, ma non è mai stata del tutto sconfitta. E ora è sulle nostre tracce. I membri della Setta vogliono Roran, vogliono Skelribel. E, dopo quello che ho fatto, staranno cercando anche me».

    «Roran è andato via» aveva ribadito Dean, lanciandomi un’occhiataccia. Le sue parole erano state come uno schiaffo. Ero ancora incredula, davanti all’assenza di Roran.

    «Se cercano lui, a questo punto sapranno che non è con noi che possono trovarlo. E chi ha cercato di farti rapire ha perso il suo principale mercenario. Ci metterà un po’ prima di fare un nuovo tentativo».

    Ma le parole più profonde, quelle che mi avevano convinto, erano state pronunciate da Shyr. «Proprio per questo non possiamo lasciarti, Alaisa. Loro cercano anche te, non solo Roran e Skelribel. E se Roran è andato via, e tu sei impegnata a proteggere Skelribel, chi proteggerà te?». Si era avvicinata, mettendomi una mano su una spalla. «Sei l’unica di cui possiamo fidarci, e noi siamo gli unici su cui puoi contare. Non ti lasceremo sola».

    Sospiro, guardando la stanza vuota un po’ in disordine. Devo tenermi impegnata, in movimento, per non pensare. Raccolgo i vestiti e gli strumenti per gli spettacoli che i ragazzi hanno lasciato in giro. Riordino un po’ il tavolo, pieno di oggetti e piatti sporchi.

    Quando la stanza mi sembra leggermente più accettabile, apro la finestra sul cielo notturno, per far entrare una fresca brezza.

    Mi tolgo gli stivali, massaggiandomi le gambe fasciate nei pantaloni neri. Fino a un mese fa odiavo indossarli, mi sembrava qualcosa di sconveniente per una signorina. Ma adesso ne riconosco la comodità. Ci si rende conto dell’importanza dei dettagli quando ci sono altre cose più urgenti di cui occuparsi.

    Sciolgo i capelli dalla coda improvvisata, e per un attimo mi sento la me stessa di qualche tempo fa, quella a cui piaceva pettinarsi e intrecciarsi i lunghi capelli.

    Con gesti veloci, mi slaccio il corpetto che indosso sotto alla camicia, e lo getto sul pavimento.

    Mi siedo al tavolino, rimuginando.

    Vorrei andare al bancone e ordinare qualcosa di alcolico, giusto per annebbiarmi un po’ i sensi. Ma non posso sprecare il nostro denaro, e i miei sensi mi servono vigili, costantemente.

    «Sono stanca dei segreti». Quasi mi ero dimenticata della presenza di Skelribel e Meredith, nell’altra stanza. Ultimamente, sono così silenziose e assenti che ormai sono abituata a vederle un po’ come parte dell’arredamento.

    Non sono insensibile a quello che hanno passato. Skelribel non riesce ancora a riprendersi da quello che quel bastardo di Drayn le ha fatto. E pensiamo che Meredith, che durante l’attacco era nelle sue stanze, sia stata aggredita da un adepto e abbia dovuto affrontarlo da sola.

    Ma non posso concedermi di indugiare sul pensiero di lasciarmi andare al dolore. A me questo non è permesso.

    «Cosa vuoi dire?» chiedo, di riflesso.

    Skelribel chiude la porta della camera da letto, dove Meredith, probabilmente, sta ancora osservando il muro.

    Cammina a fatica, si avvicina e si siede al tavolo, di fronte a me.

    «Voglio raccontarti tutto. Tutto quello che so».

    «Pensavo che Drayn fosse riuscito a tirarti fuori tutto quello che c’era da dire col suo incantesimo» le dico, dura. Sento un certo rancore nei suoi confronti. Non ho voglia di manifestarlo, ma mi risulta difficile nasconderlo. A causa dei suoi segreti sono successe troppe cose.

    «Sono riuscita a salvare... il salvabile» sussurra lei, con amarezza. «Ho già perso un figlio a causa dei segreti, non voglio perderne altri».

    La guardo inarcando un sopracciglio e lei mi sorride lievemente. Nonostante abbia il volto di una giovane ragazza, mi sembra di avere davanti una donna anziana, piegata dagli anni, oltre che dalla sofferenza.

    «Sei libera di crederci o meno, Alaisa, ma per me, ormai, sei come una figlia. Anche Shyr, Ilan e Dean lo sono. Con la differenza che loro non potrebbero comprendere il peso di ciò che sto per dirti». Skelribel sospira.

    Rimango a guardarla, in silenzio.

    «Dorothy e Meredith... anche loro sono figlie dell’Uomo del Fuoco».

    Nonostante la sorpresa, il mio volto rimane inespressivo e mi concedo solo qualche secondo per rimuginare sulle sue parole. In cuor mio, avevo sperato non fosse così, anche se non considerare tale possibilità sarebbe stato da stupidi.

    «Come sei riuscita a non rivelarlo a Drayn?».

    «Beh, lui non mi ha fatto una domanda diretta su questo, e per fortuna sono riuscita ad aggirare l’incantesimo».

    «Cos’è successo?».

    Skelribel poggia la schiena alla sedia, pronta a raccontare.

    «Durante la mia fuga dagli adepti della Setta, sono riuscita ad affidare il piccolo Eshven a mio padre. Lui non voleva abbandonarmi, ma alla fine sono riuscita a convincerlo che fosse la cosa migliore per suo nipote. Non potevo permettere che trovassero il bambino, che Eshven andasse perduto, o che si ritrovasse solo al mondo. Non me lo sarei mai perdonato».

    «Lo so» mi sfugge. Mi sembra di aver vissuto questi momenti, nei miei sogni. Ma a Skelribel questo non posso dirlo. «Volevo dire, posso comprendere» puntualizzo.

    Lei continua a raccontare: «Venni catturata. L’Uomo del Fuoco era morto solo da un paio di mesi e i suoi luogotenenti superstiti erano allo sbando. Mi imposero un incantesimo per rendermi inoffensiva: non potevo più utilizzare i miei poteri. Persi me stessa, quell’incantesimo maldestro mi risucchiò tutte le energie, tanto da ridurmi in uno stato di incoscienza. Di quel periodo non ho alcun ricordo».

    Il dolore nelle parole di Skelribel è palpabile, lo vedo nei suoi occhi limpidi e nelle labbra strette nel tentativo di trattenere le lacrime.

    Non posso nemmeno immaginare come ci si possa sentire a perdere il controllo di se stessi per così tanto tempo.

    «Quando ripresi a comprendere ciò che accadeva attorno a me, erano passati quindici anni. Mi trovavo nella casa e sotto le cure di un’anziana signora, che mi raccontò che a salvarmi e a portarmi lì era stato suo figlio, Kelin, anche lui un adepto della Setta. Non era più tornato: probabilmente la sua punizione per avermi salvato era stata la morte. Non so perché lo fece, cosa fosse scattato in lui. Forse provava pena per me, o forse… No, davvero, non lo so. Ho continuato a chiedermelo per anni. So solo che decise di portarmi via da lì, anche a rischio della sua stessa vita. Se non fosse stato per lui, probabilmente sarei morta a breve: gli adepti della Setta non si erano accorti che ero incinta di pochi mesi».

    Skelribel si scioglie in pianto, premendosi gli occhi con due dita. Un pianto composto, quasi regale. Il cuore mi si stringe in una morsa, ma non riesco a far nulla per consolarla.

    «La donna che si occupava di me mi raccontò che avevo dato alla luce due gemelle, ma che non aveva potuto tenerle con sé: non aveva la possibilità economica di farlo, visto che viveva da sola e doveva mantenerci con i soli frutti della sua terra. Le aveva vendute. Non posso biasimarla: lei, per me, aveva perso il suo unico figlio. L’unica cosa che le era rimasta da fare per onorare la sua morte era stata continuare a tenermi in vita, affinché il suo sacrificio non fosse stato vano. Ma, probabilmente, mi detestava. Non avrebbe potuto anche occuparsi di due neonate».

    Skelribel si asciuga le lacrime con le dita, fissando un punto imprecisato dietro di me. Il dolore è riflesso nei suoi occhi come se lo stesse guardando in faccia in questo momento.

    «Sentii una fitta di sofferenza così forte al cuore che per poco non morii davvero, quel giorno. Ero bloccata in un corpo che non poteva ancora muoversi, e le mie bambine erano disperse, irraggiungibili».

    Skelribel abbassa lo sguardo, cercando di ricomporsi.

    «Mi ci vollero quasi due anni per ristabilirmi. Appena fui capace di mantenermi sulle mie gambe e di usare un minimo di magia, andai a cercarle. Meredith era diventata la dama di compagnia di una piccola riccona: aveva avuto la fortuna di finire in una famiglia di signorotti. Fui tentata di lasciarla lì. Viveva un’esistenza agiata e dignitosa».

    La donna sorride, triste. «Ma sono stata troppo egoista. Mi sono detta che era giusto che sapesse che la sua vera madre non l’aveva abbandonata. Le raccontai cos’era successo, che anche nelle sue vene scorreva la magia. Non poteva essere altrimenti, con due genitori come me e suo padre. Volle venir via con me a tutti i costi. Ripensandoci ora, sarebbe stato meglio se fosse rimasta lì» racconta, con una nota di amarezza nella voce.

    «Doveva sapere la verità. È stata una sua scelta, quella di venire via con te. Non c’è nulla di sbagliato in questo».

    «Lo so» dice Skelribel, rifuggendo dal mio sguardo. «Ma quello che è successo...».

    «Non è stata colpa tua» esclamo, perentoria.

    «So solo che lei non è abituata al dolore e, forse, è proprio questo che ha permesso alla sofferenza di colpirla così duramente» dice Skelribel, guardandomi negli occhi. «Fino a qualche giorno fa, non sapeva nemmeno tutta la storia. Ma sono sicura che, nonostante il suo mutismo, mi abbia ascoltato».

    Qualche secondo di gravoso silenzio ci permette di riprendere aria, osservando il cielo attraverso la finestra dal vetro consunto, prima che le chieda: «E Dorothy?».

    «Lei non è stata altrettanto fortunata» sospira Skelribel. «Era finita in una famiglia benestante che, purtroppo, cadde in rovina e che ha dovuto darla via qualche anno dopo. Fortunatamente, così si è temprata. È molto più forte di sua sorella. Molto più decisa, persino di me».

    Annuisco. So bene che Dory è una donna forte, e nei suoi occhi dolci e allegri è sempre stata presente una nota dolente, di un passato gravoso da portare sulle spalle.

    «Non ti nascondo che sono molto preoccupata per loro, Alaisa. Se gli adepti venissero a sapere che esistono altre due figlie dell’Uomo del Fuoco, Meredith e Dorothy sarebbero in serio pericolo».

    «Faremo in modo che non vengano a saperlo» dico, con una sicurezza che in realtà non sento.

    Skelribel annuisce, seria. Le lacrime sono sparite dal suo volto e, nonostante sia ancora sofferente, per un attimo colgo sul suo viso

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