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Intorno alla Luna: Ediz. integrale con note
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Intorno alla Luna: Ediz. integrale con note
E-book243 pagine3 ore

Intorno alla Luna: Ediz. integrale con note

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Info su questo ebook

“Intorno alla Luna” è un romanzo scritto da Jules Verne nel 1870, che narra le vicende successive a quelle accadute nel precedente “Dalla Terra alla Luna”. Entrambe sono considerate tra le più famose opere precorritrici della moderna fantascienza. Un romanzo ricco di suspense e di ironia. Il presidente Barbicane, il capitano Nicholl e l’avventuriero francese Michel Ardan ci sono riusciti! I tre intrepidi viaggiatori sono partiti per il viaggio più importante della storia. La monumentale Columbiad ha sparato il proiettile dentro cui si trovano e li ha spinti fin nello spazio. La destinazione è una sola: l’astro delle notti, la Luna. Sulla Terra, però, sono tutti in ansia perché qualcosa sembra non essere andato secondo i piani e gli amici rimasti coi piedi ben piantati a terra non possono fare altro che sperare. Ma cosa sta succedendo in realtà all’interno del proiettile-navicella? Qual è la sorte che attende i tre ardimentosi? L’ossigeno che producono chimicamente sarà sufficiente? Riusciranno davvero a sbarcare sulla Luna?
LinguaItaliano
EditoreCrescere
Data di uscita1 set 2018
ISBN9788883378119
Intorno alla Luna: Ediz. integrale con note
Autore

Jules Verne

Jules Verne (1828-1905) was a French novelist, poet and playwright. Verne is considered a major French and European author, as he has a wide influence on avant-garde and surrealist literary movements, and is also credited as one of the primary inspirations for the steampunk genre. However, his influence does not stop in the literary sphere. Verne’s work has also provided invaluable impact on scientific fields as well. Verne is best known for his series of bestselling adventure novels, which earned him such an immense popularity that he is one of the world’s most translated authors.

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    Anteprima del libro

    Intorno alla Luna - Jules Verne

    Note

    CAPITOLO PRELIMINARE

    In cui si riassume la prima parte di quest'opera, affinché serva da prefazione alla seconda

    Durante dell’anno 186… il mondo fu profondamente scosso da un esperimento scientifico che non aveva precedenti nella storia della scienza. I soci del Gun Club, un circolo di artiglieri fondato a Baltimora dopo la guerra di Secessione americana, avevano avuto l’idea di mettersi in contatto con la Luna (già, proprio con la Luna), inviandole un proiettile. Il loro presidente Barbicane, ideatore dell’impresa, dopo essersi confrontato con gli astronomi dell’osservatorio di Cambridge, pensò a tutto ciò che era necessario per assicurare un risultato positivo allo straordinario tentativo, dichiarato possibile dalla grande maggioranza dei competenti. Ottenne persino, tramite una sottoscrizione pubblica, la cospicua somma di quasi trenta milioni di franchi, che gli permise di dare inizio ai colossali lavori.

    Secondo la nota redatta dai membri dell’osservatorio, il cannone destinato a lanciare il proiettile doveva essere collocato in una zona situata tra gli 0° e i 28° di latitudine nord o sud, allo scopo di poter mirare alla Luna allo zenit, e il proiettile stesso doveva essere mosso da una velocità iniziale di dodicimila yard al secondo. Lanciato il 1° dicembre alle ore undici meno tredici minuti e venti secondi di sera, avrebbe dovuto incontrare la Luna quattro giorni dopo la partenza, cioè il 5 dicembre a mezzanotte precisa, nell’istante esatto in cui il satellite si sarebbe trovato al perigeo, vale a dire alla distanza più vicina dalla Terra, equivalente a 86.410 leghe.

    I soci più importanti del Gun Club, e precisamente il presidente Barbicane, il maggiore Elphiston, il segretario J. T. Maston e altri scienziati, tennero varie riunioni durante le quali furono discusse la forma e la composizione del proiettile, la collocazione e la natura del cannone, e la qualità e la quantità della polvere che doveva essere impiegata. Dopodiché fu deciso:

    Il proiettile sarebbe stato una granata di alluminio del diametro di cento pollici e dello spessore di dodici pollici alle pareti, pesante 19.250 libbre;

    Il cannone sarebbe stato una Columbiad in ghisa di ferro, lunga novecento piedi e colata direttamente nel suolo;

    La carica avrebbe richiesto quattrocentomila libbre di fulmicotone, le quali, sviluppando alla base del proiettile sei miliardi di litri di gas, avrebbero facilmente trasportato l’ordigno verso l’astro delle notti.

    Dopo aver risolto tali questioni, il presidente Barbicane, assistito dall’ingegner Murchison, scelse un punto situato nella Florida tra i 27° 7’ di latitudine nord e i 5° 7’ di longitudine ovest. Fu dunque in questo punto, al termine di lavori monumentali, che la Columbiad venne colata, con esito strepitoso.

    Così stavano le cose, quando incapparono in un incidente che centuplicò l’interesse del pubblico per il già tanto atteso tentativo.

    Un francese, un parigino singolare, artista traboccante di spirito e di audacia, chiese di essere rinchiuso nel proiettile, per poter raggiungere dentro di esso la Luna e compiere così una ricognizione del satellite terrestre. L’intrepido avventuriero si chiamava Michel Ardan. Arrivato in America, fu accolto con entusiasmo, tenne comizi, fu portato in trionfo, riconciliò il presidente Barbicane col suo grande nemico, il capitano Nicholl, e per sancire tale riconciliazione convinse i due a imbarcarsi con lui a bordo del proiettile.

    La proposta fu accettata. Si modificò quindi la forma del proiettile, che divenne cilindroconico, e questa specie di vagone aereo fu munito di potenti molle e di tramezze ammortizzanti, che avrebbero dovuto attutire il contraccolpo della partenza. Esso fu anche provvisto di viveri per un anno, di acqua per alcuni mesi, di gas per qualche giorno: un apparecchio automatico fabbricava e forniva l’aria necessaria alla respirazione dei tre viaggiatori. Frattanto, il Gun Club faceva costruire sulla più alta cima delle Montagne Rocciose un immenso telescopio, che avrebbe consentito di seguire il proiettile nel suo viaggio attraverso lo spazio.

    Tutto era pronto.

    Il 30 novembre, all’ora stabilita, davanti a milioni di spettatori, avvenne la partenza, e per la prima volta nella storia tre esseri umani, abbandonando il globo terrestre, si lanciarono verso gli spazi interplanetari, con la quasi certezza di raggiungere la meta.

    Gli audaci viaggiatori, Michel Ardan, Barbicane e Nicholl, avrebbero dovuto compiere il tragitto in novantasette ore, tredici minuti e venti secondi: di conseguenza, il loro arrivo sulla superficie del disco lunare doveva avvenire il 5 dicembre a mezzanotte, cioè nel momento preciso in cui la Luna sarebbe stata al suo colmo, e non il 4, come avevano annunciato alcuni giornali male informati.

    Purtroppo, circostanza imprevista, la detonazione prodotta dalla Columbiad ebbe come effetto immediato di turbare l’atmosfera terrestre, accumulandovi una quantità enorme di vapori. Tale fenomeno suscitò l’irritazione generale, perché la Luna rimase per varie notti velata agli occhi dei suoi osservatori.

    Il degno Maston, il più valoroso amico dei tre viaggiatori, partì subito per le Montagne Rocciose accompagnato da Belfast, direttore dell’osservatorio di Cambridge, e raggiunse il posto di osservazione sul Long’s Peak, dove si alzava verso il cielo il telescopio che avvicinava la Luna a due leghe. Il segretario del Gun Club, infatti, voleva poter seguire di persona il viaggio dei suoi coraggiosi amici.

    L’accumularsi delle nubi nell’atmosfera impedì qualsiasi osservazione nei giorni 5, 6, 7, 8, 9 e 10 dicembre. Si credette persino, ad un certo punto, che tale osservazione si sarebbe dovuta rimandare al 3 gennaio dell’anno successivo. La Luna, infatti, entrando nel suo ultimo quarto l’11, avrebbe presentato solo una parte decrescente del suo disco, del tutto insufficiente per consentire di seguirvi la traccia del proiettile.

    Infine, però, tra la soddisfazione di tutti, una violenta tempesta spazzò l’atmosfera nella notte tra l’11 e il 12 dicembre, e la Luna, parzialmente illuminata, si stagliò nettamente sullo sfondo nero del cielo.

    Quella stessa notte veniva lanciato da Maston e Belfast un telegramma, dal posto di osservazione del Long’s Peak, indirizzato ai membri della direzione dell’osservatorio di Cambridge.

    Ebbene, che cosa c’era scritto in quel telegramma?

    Annunciava che l’11 dicembre, alle ore otto e quarantasette di sera, il proiettile lanciato dalla Columbiad di Stone’s Hill era stato avvistato da Belfast e Maston. Esso, deviato per cause sconosciute, non era giunto a destinazione, passando tuttavia abbastanza vicino alla meta da essere trattenuto dall’attrazione lunare. Infine, il suo movimento rettilineo si era trasformato in movimento circolare, e che esso pertanto, trascinato intorno all’astro delle notti secondo un’orbita ellittica, ne era divenuto il satellite.

    Il telegramma aggiungeva che i dati del nuovo astro non avevano ancora potuto essere calcolati, e infatti occorrevano, per determinarli, tre osservazioni che prendessero il proiettile in tre posizioni diverse. Il dispaccio rendeva anche noto che la distanza tra il proiettile e la superficie lunare poteva essere valutata in circa 2.833 miglia.

    Concludeva, infine, formulando due ipotesi: o l’attrazione della Luna avrebbe avuto il sopravvento e i viaggiatori avrebbero raggiunto la meta, oppure il proiettile, confinato in un’orbita immutabile, avrebbe gravitato intorno al disco lunare sino alla fine dei secoli.

    Considerate tali alternative, quale sarebbe stata la sorte dei viaggiatori? Era pur vero che avevano viveri per un certo tempo, ma anche ammesso che la loro temeraria impresa riuscisse, come sarebbero tornati? E ci sarebbero riusciti? Si sarebbero avute loro notizie? Questi quesiti, dibattuti da dottissime penne del tempo, appassionarono il pubblico.

    Occorre qui fare un’osservazione che dev’essere ponderata dai ricercatori troppo frettolosi. Quando uno scienziato annuncia al pubblico una scoperta di carattere puramente speculativo, la prudenza non è mai troppa. Nessuno è costretto a scoprire un pianeta, una cometa, un satellite, e chi s’inganna in simili casi si espone giustamente al ridicolo della folla. Perciò sarebbe stato meglio attendere. Ed è quanto avrebbe dovuto fare l’impaziente Maston prima di lanciare attraverso l’etere quel telegramma che a parer suo rappresentava l’ultima parola sull’impresa.

    Esso conteneva infatti due gravi errori, come fu appurato in seguito:

    un errore di osservazione circa la distanza del proiettile dalla superficie della Luna, dato che alla data dell’11 dicembre era impossibile scorgerlo, e quello che Maston aveva visto o creduto di vedere non poteva essere il proiettile della Columbiad;

    un errore di teoria sulla sorte serbata al proiettile, in quanto farne un satellite della Luna significava contraddire le leggi della meccanica razionale.

    Una sola ipotesi degli osservatori del Long’s Peak poteva avverarsi, quella cioè che prevedeva il caso in cui i viaggiatori (ammesso che fossero ancora vivi) avrebbero combinato i propri sforzi con l’attrazione lunare in modo da raggiungere la superficie del disco.

    Ebbene, questi uomini intelligenti, oltre che arditi, erano sopravvissuti allo spaventoso contraccolpo della partenza, ed è del loro viaggio nel vagone-proiettile che racconteremo in queste pagine sin nei più minuti oltre che drammatici particolari. Il racconto in questione distruggerà molte illusioni e previsioni, ma darà un’idea esatta delle disavventure cui è destinata un’impresa del genere, enfatizzando l’intuito scientifico di Barbicane, lo spirito di risorsa dell’industrioso Nicholl e la disinvolta audacia di Michel Ardan.

    Esso dimostrerà, inoltre, che il loro degno amico Maston perdeva il proprio tempo, allorché piegato sul gigantesco telescopio si ostinava a studiare il cammino della Luna attraverso gli spazi stellari.

    CAPITOLO I

    Dalle dieci e venti alle dieci e quarantasette di sera

    Allo scoccare delle dieci Michel Ardan, Barbicane e Nicholl si allontanarono dai numerosi amici che avrebbero lasciato sulla Terra. I due cani destinati a perpetuare la razza sui continenti lunari erano già chiusi nel proiettile. I tre viaggiatori si avvicinarono all’apertura dell’enorme tubo di ghisa, e una gru volante li calò sino alla calotta conica del proiettile.

    Qui un’apertura fatta a questo scopo diede loro accesso nel vagone di alluminio. Non appena i paranchi della gru furono ritirati dall’esterno, la bocca della Columbiad venne immediatamente liberata delle sue ultime impalcature.

    Nicholl, una volta entrato nel proiettile coi compagni, si occupò per prima cosa di chiuderne l’entrata mediante una robusta piastra assicurata dall’interno da possenti viti a pressione. Altre piastre, solidamente inchiavardate, ricoprivano le finestre a lente degli oblò. I viaggiatori, chiusi ermeticamente nella loro prigione di metallo, si trovarono così sprofondati in un’oscurità totale.

    «E adesso, cari compagni», disse Michel Ardan, «comportiamoci come se fossimo a casa nostra. Io sono un uomo di casa, e quanto a faccende domestiche non mi batte nessuno. Ora si tratta di trarre ogni possibile vantaggio dal nostro nuovo alloggio, e di metterci comodi. Prima di tutto cerchiamo di vederci un po’ meglio. Diamine! Il gas non è mica stato inventato per le talpe!»

    Così dicendo, con l’abituale spensieratezza che lo distingueva, accese uno zolfanello sfregandolo contro la suola della scarpa, quindi lo avvicinò al becco fissato al recipiente nel quale l’acetilene, immagazzinato ad alta pressione, poteva bastare a illuminare e riscaldare il proiettile per la durata di centoquarantaquattro ore, vale a dire sei giorni e sei notti.

    Il gas si accese. Il proiettile, così illuminato, apparve come una comoda stanza dalle pareti imbottite, arredata di divani circolari, e dalla volta arrotondata a forma di cupola.

    Gli oggetti che si portavano dietro come le armi, gli strumenti, gli utensili, erano saldamente assicurati alle rotondità dell’imbottitura, perché dovevano affrontare senza danno lo scossone della partenza. Erano state prese, insomma, tutte le precauzioni umanamente possibili per condurre a buon fine un tentativo tanto temerario.

    Michel Ardan, dopo avere esaminato attentamente ogni cosa, si dichiarò molto soddisfatto della propria sistemazione.

    «È una prigione, è vero, ma una prigione viaggiante, e che per giunta dà il diritto di avvicinare il naso alla finestra. Io sarei pronto a firmare un contratto di cento anni di affitto! Ma tu sorridi, Barbicane. A che cosa stai pensando? Credi forse che questa prigione potrebbe diventare la nostra tomba? D’accordo, però io non la cambierei nemmeno con quella di Maometto, che fluttua nello spazio ma non si muove!»

    Mentre Michel Ardan era impegnato a parlare, Barbicane e Nicholl si occupavano degli ultimi preparativi.

    Quando i tre viaggiatori si furono definitivamente rinchiusi nel proiettile, il cronometro di Nicholl segnava le dieci e venti di sera. Lo aveva regolato a un decimo di secondo su quello dell’ingegner Murchison e, dopo averlo consultato, Barbicane annunciò: «Amici miei, sono le dieci e venti. Alle dieci e quarantasette Murchison farà scoccare la scintilla elettrica sul filo collegato alla carica della Columbiad. In quel preciso momento noi abbandoneremo il nostro sferoide. Perciò ci restano da passare sulla Terra ancora ventisette minuti».

    «Ventisei minuti e tredici secondi», precisò Nicholl, pignolo come sempre.

    «Benissimo!», esclamò Michel Ardan col suo tono più entusiasta, «Pensate quante cose si possono fare in ventisei minuti! Si possono discutere problemi altissimi di morale o di politica, e persino risolverli. Ventisei minuti spesi bene valgono molto più di ventisei anni d’inattività. Pochi secondi di un Pascal o di un Newton sono più preziosi che non tutta l’esistenza di milioni d’imbecilli…»

    «E da questo che cosa ne deduci, eterno parlatore?», gli domandò il presidente Barbicane.

    «Ne deduco che ci restano ventisei minuti», rispose Ardan.

    «Ventiquattro», precisò Nicholl.

    «E va bene, ventiquattro, se proprio ci tiene, mio valoroso capitano», ribatté Ardan, «Ventiquattro minuti durante i quali si potrebbero approfondire…»

    «Michel», lo interruppe Barbicane, «durante la nostra traversata avremo tutto il tempo che vorremo per approfondire qualsiasi problema, anche il più arduo. Per il momento, però, pensiamo alla partenza».

    «Ma non siamo già pronti?»

    «Senza dubbio, tuttavia dobbiamo ancora prendere qualche precauzione per ridurre il più possibile il primo urto».

    «Ma non ci sono quegli strati d’acqua sistemati tra le tramezze ammortizzatrici? La loro elasticità non basta a proteggerci in modo sufficiente?»

    «Lo spero, Michel», rispose flemmatico Barbicane, «ma non ne sono assolutamente sicuro…»

    «Ah, il burlone!», esclamò Michel Ardan, «Lui spera, non ne è sicuro… E aspetta il momento in cui siamo rinchiusi qui dentro per farci questa bella confessione! Io voglio uscire!»

    «E in che modo?», domandò Barbicane.

    «Già, non è facile. Ormai siamo sul treno e il fischio del capostazione risuonerà tra meno di ventiquattro minuti».

    «Venti», lo corresse Nicholl.

    I tre viaggiatori si fissarono per alcuni interminabili secondi, quindi passarono a esaminare gli oggetti imprigionati con loro.

    «È tutto a posto», annunciò Barbicane, «Ora si tratta di decidere come ci disporremo per meglio sostenere l’urto della partenza. Bisogna impedire per quanto possibile che il sangue ci affluisca alla testa con troppo impeto».

    «Esatto», convenne Nicholl.

    «In tal caso», incalzò Michel Ardan, pronto a unire l’esempio alla parola, «mettiamoci con la testa in basso e i piedi in alto come fanno i pagliacci da circo equestre!»

    «Questo no», disse Barbicane, «Ma se ci stenderemo sul fianco, resisteremo meglio al colpo. Tenete presente che, al momento della partenza del proiettile, esservi dentro o esservi davanti è pressoché la stessa cosa».

    «Se si tratta soltanto di un pressoché, mi sento più sicuro», disse Michel.

    «Approvi la mia idea, Nicholl?», domandò Barbicane.

    «Decisamente sì», rispose il capitano, «Mancano tredici minuti e mezzo».

    «Ma questo non è un uomo», esclamò Michel, «è un cronometro a secondi, a scappamento, a otto fori…»

    I suoi compagni, però, già non lo ascoltavano più: stavano prendendo le loro ultime disposizioni con incredibile sangue freddo. Parevano due viaggiatori metodici che, saliti su un vagone normale, cercassero di sistemarsi nel modo più confortevole possibile. Ci si domanda a volte di che sostanza siano fatti i cuori americani che non aggiunge una sola pulsazione con l’avvicinarsi del più spaventoso dei pericoli!

    Nel proiettile erano state preparate tre cuccette morbide e al tempo stesso solidamente costruite. Nicholl e Barbicane le trasportarono al centro del disco che formava l’impiantito mobile. Su queste si sarebbero stesi i tre viaggiatori qualche secondo prima della partenza.

    Intanto Ardan, incapace di starsene fermo, si rigirava nella sua stretta prigione come una belva in gabbia, un po’ chiacchierando con gli amici, un po’ parlando ai cani, Diana e Satellite, ai quali, come si vede, aveva dato nomi ad hoc .

    «Ehi, Diana! Ehi, Satellite!», gridava incitandoli, «Spero bene che insegnerete ai cani seleniti le buone maniere dei cani terrestri, e che farete onore alla razza canina. Perdiana, se dovessimo mai tornare in questo mondo, voglio portare in patria un esemplare incrociato di cane-luna che farà furore!»

    «Ammesso che esistano cani sulla Luna», osservò Barbicane.

    «Certo che ci sono», assicurò Michel Ardan, «Ce ne sono come ci sono cavalli, mucche, asini, galline. Scommetto che di galline ne troveremo di certo».

    «Cento dollari che non le troveremo», interloquì Nicholl.

    «Accettato, capitano», rispose Ardan stringendogli la mano, «Ma, a proposito, ha già perso tre scommesse col nostro presidente, dato che i fondi necessari all’impresa sono stati raccolti, che l’operazione di fusione è riuscita e che alla fine la Columbiad è stata caricata senza incidenti… in tutto fa seimila dollari, se non mi sbaglio».

    «Giusto», confermò Nicholl, «Sono le ore dieci, trentasette minuti e sei secondi».

    «D’accordo, d’accordo! E va bene, tra un quarto

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