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Storia dei servizi segreti
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E-book1.717 pagine22 ore

Storia dei servizi segreti

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Info su questo ebook

L’unico libro su tutte le agenzie di spionaggio del mondo

La verità su chi veramente governa il mondo

L’intelligence internazionale dalle prime organizzazioni di spionaggio alle sofisticate agenzie di oggi

Non è semplice rintracciare le origini dell’attività spionistica e cospirativa. Già tremila anni fa gli egizi catturarono spie ittite. L’antica Roma imparò dal nemico Annibale ad avvalersi di agenti, e gli imperatori ebbero una vera polizia segreta. Dal Medioevo al XVIII secolo potenze piccole e grandi, da Venezia all’Inghilterra, stesero reti di informatori che già celavano messaggi in crittografia. Nel 1800, da Napoleone in poi, ecco servizi informativi più strutturati. Bismarck si affidava a Stieber, mentre in Russia nasceva l’Ochrana. Ma fu il XX secolo a vedere agenzie permanenti, che al più cambiavano sigla. La russa CEKA, poi divenuta KGB, fu fondata da Lenin e Dzerzinskij fin dal 1917. L’America contava sull’FBI di Hoover per il controspionaggio interno, ma attese il 1947 per dotarsi della CIA per l’intelligence estera. Anche l’Italia fece la sua parte e nel dopoguerra si aggiunse il Mossad israeliano come libero battitore. Fra aerei-spia, satelliti e computer, il ruolo umano resta centrale. Questo libro, completo e ricchissimo di aneddoti, consente di comprendere i meccanismi che hanno governato e governano il mondo e di conoscere i protagonisti – a volte quasi leggendari – che hanno segretamente tirato i fili della storia.

Per la prima volta in un unico libro tutte le agenzie di spionaggio del mondo

Tra i temi trattati nel libro:
• Le spie di Scipione e quelle di Giulio Cesare
• Cina e Giappone: gli insegnamenti di Sun Tzu e i ninja giapponesi
• La setta degli Assassini, i sicari del “Veglio della Montagna” 
• 1588: Sir Walsingham contro i galeoni dell’Invencible Armada
• 1700: Defoe, Casanova, Cagliostro, scrittori, avventurieri, informatori
• Risorgimento italiano e Guerra civile americana
• 1917: Mata Hari, Lawrence d’Arabia e l’alpino Marchetti
• 1941: i codici Enigma, Ultra, l’eroismo di Sorge e le infiltrazioni del SOE
• I servizi segreti italiani, da SIM a SID e oltre
• Guerra Fredda e atomiche: 40 anni di duello fra CIA americana e KGB sovietico
• 2001: Bin Laden e il jihadismo, nuovi nemici delle intelligence mondiali
• L’ascesa al Cremlino dell’ex-KGB Putin e il mistero Litvinenko
• Manning, Assange, Snowden, “moschettieri” contro lo spionaggio informatico
Mirko Molteni
nato in Brianza nel 1974, è laureato in Scienze Politiche. Giornalista per «Libero» e per riviste di storia e argomenti militari e aeronautici, collaboratore del notiziario online «Analisi Difesa», ha al suo attivo sei libri: L’aviazione italiana 1940- 1945: azioni belliche e scelte operative; Un secolo di battaglie aeree: l’aviazione militare nel Novecento; Storia dei grandi esploratori: dagli Egizi a Magellano, Le ali di Icaro: storia delle origini del volo; Furia celtica: due secoli di lotte fra Galli Cisalpini e Romani, Dossier Caporetto: il centro di gravità dell’annata 1917. Storia dei servizi segreti è il suo primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2018
ISBN9788854199705
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    Offre una visione di insieme senza retorica nè stereotipi. Purtroppo il suo essere generico è punto di forza e di estrema debolezza, specie nel caso italiano

Anteprima del libro

Storia dei servizi segreti - Mirko Molteni

Prologo… ovvero, la leggenda del cosmonauta suicida del kgb…

Nell’autunno 1970, all’epoca della gara spaziale fra Stati Uniti d’America e Unione Sovietica, una stramba diceria cominciò a diffondersi, simbolo dell’apparente onnipotenza che veniva attribuita ai servizi segreti in generale, e al kgb in particolare. Gli americani avevano appena battuto i sovietici nella corsa alla Luna, avendo fatto sbarcare già due volte equipaggi umani fra i suoi desolati crateri, con le missioni Apollo 11 e Apollo 12, fra luglio e novembre del 1969. Un terzo sbarco, quello previsto dalla missione Apollo 13 nell’aprile 1970, era andato a monte per un’avaria che aveva costretto gli astronauti a ritornare sulla Terra, ma a parte questo episodio il primato statunitense pareva indiscusso. I russi, che pure erano stati, vari anni prima, gli iniziatori dell’era spaziale con il lancio del primo satellite artificiale Sputnik 1, il 4 ottobre 1957, e del primo cosmonauta in orbita, il sorridente Jurij Gagarin su navicella Vostok 1, il 12 aprile 1961, non riuscirono a eguagliare i rivali in fatto di missioni umane sulla Luna.

Ripiegarono comunque su un primato meno sensazionale, ma per molti aspetti non meno interessante, ossia quello del primo veicolo a ruote in movimento sulla superficie lunare, telecomandato dalla Terra. Questa specie di automobile-robot lunare si chiamava Lunokhod 1, ovvero Camminatore lunare in russo, e venne imbarcata sulla sonda Luna 17, decollata il 10 novembre 1970 dal poligono di Bajkonur con un colossale razzo vettore Proton a quattro stadi. La sonda si posò sulla Luna, nella regione detta Mare delle Piogge, il 17 novembre e da una rampa fece scivolare il Lunokhod sulla brulla pianura sassosa.

L’automobilina telecomandata cominciò, a fatica, a scorrazzare su quel mondo morto, d’un grigio spettrale, analizzando il suolo, riprendendo immagini e trasmettendo tutti i dati in Russia via radio. Il Lunokhod era un veicolo davvero bizzarro, una sorta di pentolone circolare del diametro poco superiore ai due metri, dello spessore di un metro, e munito di ben 8 piccole ruote metalliche, ciascuna dotata di un suo motore elettrico indipendente inserito nel mozzo. L’energia era fornita da grandi pannelli solari che ricoprivano il coperchio del pentolone, più un piccolo nocciolo radioattivo a isotopi di Polonio 210, per generare calore sufficiente a non far congelare gli strumenti elettronici. Due telecamere affiancate, per emulare la visione binoculare, trasmettevano in diretta alla Terra le immagini del paesaggio antistante e permettevano ai tecnici di guidarlo con impulsi radio. L’enorme distanza fra la Terra e la Luna, suppergiù 380.000 km, faceva sì che un impulso radio impiegasse 1,3 secondi a percorrere il tragitto. Perciò i tecnici a terra vedevano di volta in volta le immagini in ritardo di 1,3 secondi e a loro volta inviavano al Lunokhod un comando di guida, fosse esso per lo sterzo, la frenata o la sosta, che giungeva in ritardo di altri 1,3 secondi. Doveva essere teleguidato con cautela, a bassissima velocità, non più di 1 o 2 km/h, e cercando di anticipare intuitivamente le mosse. Peraltro, esisteva un sistema di freni automatici che s’azionavano prevalendo sui comandi da terra se un sensore di pendenza rilevava il rischio di un ribaltamento. Nonostante tutte queste difficoltà, il veicolo funzionò per quasi un anno, alternando fasi di sosta e di marcia, fino al 14 settembre 1971, percorrendo un totale di 10,5 km. Non molto, ma era pur sempre il primo veicolo ruotato mobile mai spedito dall’uomo su un globo extraterrestre.

L’impresa del Lunokhod 1 venne osannata dalla propaganda del regime comunista sovietico, ma non furono pochi a Mosca coloro che si mostrarono scettici sulla effettiva possibilità tecnologica di teleguidare un veicolo da una distanza, è il caso di dirlo, astronomica.

Si dice che cominciò così a circolare una vera e propria leggenda metropolitana, evidentemente falsa, secondo cui il Lunokhod alloggiava al suo interno un autista affatto singolare, cioè un piccolo cosmonauta, un vero e proprio nano, reclutato dal kgb per quella che in pratica era una missione suicida senza ritorno. Il veicolo infatti non poteva in alcun modo decollare dalla Luna per ritornare sulla Terra. Anzitutto non poteva volare di per sé, ma nemmeno poteva risalire in groppa al modulo Luna 17 e farsi riportare a casa, mancando la sonda di razzi e carburante sufficienti, nonché di qualsiasi scudo termico e paracadute per il rientro nell’atmosfera terrestre.

Ad alimentare l’incredibile diceria sul nano mandato in missione spaziale suicida dai servizi segreti congiurava anche il fatto che il corpo principale dell’automobile lunare russa era un voluminoso contenitore, il pentolone appunto, a tenuta stagna, che all’interno avrebbe potuto contenere un’atmosfera respirabile per un uomo. Il teorema era che lì dentro potesse rannicchiarsi un cosmonauta di piccola statura con una provvigione di cibo e ossigeno sufficiente a farlo campare per un certo periodo, dopodiché sarebbe sopraggiunta, inesorabile, la morte per esaurimento delle scorte, eventualmente aiutata da una pasticca di cianuro. Tanto fitto era l’alone di mistero e paura che circondava il kgb, in quei tempi diretto dal burbero Jurij Andropov, da dar adito a una siffatta leggenda, credendolo capace di una macchinazione così assurda, pur di nascondere una presunta incapacità sovietica di controllare a distanza l’automobilina-robot che avanzava fra le polveri seleniche. D’altronde, dovevano pensare migliaia di cittadini sovietici disillusi verso il sistema e per natura sospettosi verso il regime comunista, il kgb non era altro che la reincarnazione sotto altra sigla dell’nkvd e prima ancora della Ceka fondata da Felix Dzerzinskij nel 1917. Erano ancora i vecchi cekisti, che non si erano fatti scrupoli nel deportare e far giustiziare, magari dopo processi farsa, migliaia, anzi milioni di sventurati arrestati in piena notte, violando la sacralità della loro casa e della loro famiglia, per risucchiarli nel gorgo delle purghe e dei campi di prigionia in Siberia.

La leggenda si rinfocolò probabilmente anche quando sulla Luna venne spedito il veicolo gemello Lunokhod 2, disceso il 15 gennaio 1973 a bordo della sonda Luna 21 nel cratere Le Monnier e rimasto in funzione fino al 4 giugno dello stesso anno, con rammarico degli scienziati per il minor tempo di funzionamento, ma con la consolazione di aver percorso in totale 37 km. Era però ovvio che un piano del genere sarebbe risultato impossibile, prima di tutto perché il kgb non avrebbe, ragionevolmente, potuto costringere qualcuno, forse addirittura due persone, a sacrificarsi in modo così atroce, morendo solo, lontano da tutti, su un mondo lontano, per di più dopo una lunga agonia passata prigioniero dentro un angusto veicolo. Il presunto kamikaze del kgb, peraltro, non avrebbe nemmeno avuto la ricompensa psicologica, se così la vogliamo chiamare, di essere glorificato dopo la morte come un eroe, essendo tacita la sua condanna all’oblio. Nessuno doveva sapere nulla di lui, perché mai accettare d’infilarsi in un simile budello? E del resto, non era nemmeno plausibile che un individuo potesse essere spinto con la forza o il ricatto ad assolvere un così drammatico compito, anche perché una missione del genere avrebbe presupposto un addestramento complesso e una notevole dose di sangue freddo, inconciliabili con una persona preda della disperazione.

La prova definitiva dell’infondatezza della storia era però di ordine assai più pratico. Il primo Lunokhod funzionò per ben 10 mesi, il secondo molto meno, ma pur sempre 4 mesi e mezzo. Troppo tempo perché un essere umano, anche di corporatura piccina, potesse sopravvivere chiuso in un marchingegno che avrebbe offerto pochissimo spazio per stipare bombole d’ossigeno, cibo e acqua bastanti per mesi.

L’assurda leggenda del Lunokhod pilotato da un kamikaze del kgb era destinata a ispirare una ventina d’anni più tardi lo scrittore russo Viktor Pelevin, che nel 1992 scrisse il romanzo fantastico Omon Ra immaginando una missione spaziale sovietica sulla Luna con impiego di cosmonauti suicidi, rigorosamente segreti, destinati a far funzionare a mano sistemi che in teoria avrebbero dovuto essere automatici. Nell’immaginazione di Pelevin, era proprio nei sotterranei della sede del kgb a Mosca, sotto il celebre palazzo della Lubjanka, che avveniva l’addestramento di questi cosmonauti a perdere, il cui unico scopo era fare da meccanismi viventi prima di morire.

Al di là dei suoi riflessi letterari, la leggenda del Lunokhod pilotato è uno dei tanti esempi delle voci incontrollate da sempre fiorite attorno ai servizi segreti, alle spie e in genere alla guerra dell’informazione e della disinformazione che attraversa un po’ tutte le epoche della storia umana. Sul kgb se ne sono raccontate tante, anche prendendo spunto da bizzarrie realmente accadute, come la fabbricazione degli ombrelli dalla punta spara-veleno sul tipo di quello effettivamente ceduto agli agenti bulgari perché uccidessero a Londra il dissidente Georgij Markov nel settembre 1978. Anche gli altri storici servizi, a cominciare dalla cia americana, hanno sbizzarrito la fantasia, vedendosi attribuite possibilità e capacità incredibili. Nel caso della cia, peraltro, l’effettivo coinvolgimento in numerose azioni di eversione durante la Guerra Fredda, in Sudamerica come in Asia e in Europa, è stato preso spesso a paradigma della sua onnipresenza e onniscienza, tutt’altro che plausibili, come se metà del mondo fosse davvero orchestrata a partire dal quartier generale dell’agenzia a Langley, in Virginia.

In realtà i servizi segreti sono fatti da uomini e donne, pertanto sono imperfetti e sbagliano, anche di grosso. Basterà ricordare le negligenze emerse nella gestione della sicurezza nazionale americana alla vigilia degli epocali attentati dell’11 settembre 2001, dovuti alla mancata o insufficiente coordinazione e condivisione dei dati fra la cia, l’agenzia di intercettazioni delle comunicazioni nsa e la polizia federale fbi, quest’ultima da sempre in competizione con la Central Intelligence Agency poiché reclamante a sé il primato del controspionaggio interno al territorio nazionale statunitense. Restando in tema di errori madornali, l’agenzia americana, ad esempio, sopravvalutò molto la potenza militare sovietica fra gli anni Cinquanta e Sessanta, prima con la paura del bomber gap, un ipotetico svantaggio abissale degli usa verso l’urss nel numero dei bombardieri strategici, poi con un similare missile gap nel campo dei razzi intercontinentali. Ciò allarmò ancor più del previsto gli Stati Uniti e il presidente John Kennedy, quando nell’ottobre 1962 scoprirono di avere a due passi da casa, nella vicina isola di Cuba, rampe di missili sovietici a medio raggio capaci di lanciare testate atomiche su gran parte dell’America. La crisi che ne seguì portò il mondo sull’orlo della guerra nucleare, ma se tutto si risolse lo si dovette al fatto che a un certo punto gli americani si resero conto che lo schieramento di missili a Cuba non era tanto una dimostrazione della prepotenza dei sovietici, quanto piuttosto un tentativo di mascherarne la debolezza. E fu grazie alle informazioni passate all’Occidente dalla spia sovietica Oleg Penkovskij, colonnello del gru, il servizio informazioni delle forze armate, grande rivale del kgb, che a Washington capirono quanto le forze missilistiche di Mosca fossero ancora sparute, il che incoraggiò Kennedy a non cedere finché Krushev sgomberò i vettori da Cuba.

Spostandosi ancora più indietro nel tempo, nei lunghi secoli in cui non esistevano servizi segreti istituzionalizzati nell’accezione moderna, l’aleatorietà delle fonti d’informazione poteva moltiplicare ancor più la possibilità di errori di azione e valutazione, favorendo il compito ai disinformatori.

Nel 480 a.C., all’ammiraglio ateniese Temistocle bastò inviare un suo schiavo, Sicinno, presso il sovrano persiano Serse, per propinargli false informazioni che lo inducessero ad attaccare la flotta greca nel momento che più a Temistocle aggradava. L’imperatore persiano andò così incontro alla propria sconfitta nelle acque di Salamina, abboccando al tranello, secondo il nostro metro piuttosto ingenuamente, per quanto si debba tener conto del fatto che 2500 anni fa le possibilità tecniche e organizzative dello spionaggio erano talmente rudimentali che bisognava spessissimo fidarsi sulla parola, senza possibilità di una seria verifica.

Nella loro fallibilità, comunque, lo spionaggio e i servizi segreti in genere hanno sempre compreso tutta la gamma di accezioni che ancora li contraddistinguono. Alla base c’era sempre l’acquisizione di informazioni, ossia lo spionaggio classico, effettuato da agenti sul campo, la cosiddetta Human Intelligence, o Humint, secondo la classificazione cara agli anglo-americani. Ma era già presente, in forma embrionale, la Comint, o Communication Intelligence, riferita all’intercettazione di comunicazioni nemiche, la quale in tempi antichi poteva comportare semplicemente l’osservazione e la copia di una lettera o di un dispaccio. Doveva poi aggiungersi la Sigint, o Signal Intelligence, ossia l’intercettazione e l’analisi dei segnali emessi dal nemico, che in antico potevano essere segnali di fumo, luminosi o acustici, in seguito segnali elettrici o elettromagnetici via cavo o via etere. Si è anche parlato di Elint, ovvero Electronic Intelligence, cioè l’intercettazione di dati nemici con mezzi elettronici, oppure Imint, da Imagery Intelligence, ovvero tramite fotografie, video, in genere immagini.

Oltre a ciò gli spioni, o agenti segreti che dir si vogliano, si sono anche dedicati al sabotaggio, all’uccisione mirata in veste di sicari, all’inganno tramite diffusione di false informazioni o al tentativo di influenzare l’opinione di personalità cruciali in senso favorevole al proprio paese, il che tutto sommato può essere definita una versione del sabotaggio applicata al mondo dell’informazione pura e delle considerazioni mentali dell’avversario. A corollario, non sono mai state da meno l’organizzazione di complotti e colpi di stato, le forniture clandestine di armi e materiali o l’attività di analisi e supporto dei governi con ampi rapporti, spesso non veritieri, come nel caso delle inesistenti armi di distruzione di massa irachene, pretesto per l’attacco americano contro Saddam Hussein nel marzo 2003. Per converso, lo spionaggio britannico, ovvero il celebre servizio mi6, aveva fatto l’errore opposto durante la seconda guerra mondiale, accorgendosi troppo tardi che le voci sulle armi segrete tedesche, rimbalzate a Londra fin dal 1939, erano autentiche e non fantasticherie. Fin dallo scoppio del conflitto arrivò all’intelligence inglese il cosiddetto Rapporto Oslo, inoltrato via Norvegia da uno scienziato tedesco antinazista, in cui si accennava a ricerche ed esperimenti in fatto di non meglio specificate bombe volanti. Entro il 1942 giunsero a Londra anche testimonianze frammentarie di marinai e pescatori scandinavi che osservavano sovente nei cieli del Mar Baltico misteriosi oggetti volanti dalla coda infuocata. Fu però solo nel 1943 che gli inglesi, grazie a un’attenta analisi delle fotografie aeree dei loro ricognitori e all’aiuto prezioso dello spionaggio della resistenza polacca, si resero davvero conto che Hitler stava per sfoderare i missili da crociera V-1 e i missili balistici V-2. Per inciso, le V-2 erano dovute al genio dell’allora trentunenne Wernher von Braun, che vent’anni dopo la guerra creò per gli americani il razzo Saturno v che rese possibili le missioni lunari Apollo di cui parlavamo poc’anzi.

L’evoluzione dello spionaggio attraverso i secoli rappresenta una delle sfaccettature più complesse e intricate della storia umana, anche perché alcuni dei protagonisti, per loro stessa natura, possono aver dato versioni distorte, di comodo, degli avvenimenti. È una storia scritta nell’ombra, dai contorni non sempre netti, che si è snodata, a partire dai primi esempi noti, dall’epoca dei faraoni egiziani, lungo più di tremila anni, ma generalmente il grande pubblico ne ignora la maggior parte. L’attenzione viene spesso catturata da pochi personaggi dai nomi a effetto come la conturbante danzatrice olandese Mata Hari, accusata dai francesi di spiare per i tedeschi e fucilata nel 1917, o come, un secolo e mezzo prima, il maestro di seduzione per eccellenza, Giacomo Casanova, che fu informatore della Repubblica di Venezia, in forma più o meno regolare, dal 1772 al 1782.

Le figure note al grande pubblico sono spesso singolari per le loro caratteristiche personali, ma non sempre la loro fama è proporzionale alla effettiva influenza da esse esercitata sugli eventi storici. Mata Hari restò nella memoria collettiva come la spia per eccellenza, sebbene in realtà sia perfino dubbio che sia stata un vero e capace agente segreto, venendo coinvolta suo malgrado in avvenimenti più grandi di lei. Meno conosciuto, ma certamente molto più titolato di Mata a rappresentare il prototipo della spia, il giornalista Richard Sorge: infiltrato sovietico presso l’ambasciata tedesca in Giappone ai tempi di Stalin, fu per molti aspetti uno dei più vicini all’immagine letteraria della spia. Bel tenebroso, spregiudicato con le donne, astuto come una volpe, ma anche talvolta spericolato e sbruffone, nell’accezione più simpatica del termine, Sorge avrebbe potuto davvero cambiare le sorti della seconda guerra mondiale se nella primavera del 1941 Stalin avesse creduto ai suoi avvertimenti sull’imminente attacco tedesco a sorpresa all’Unione Sovietica. Ma il diffidente dittatore georgiano aveva una pessima opinione del suo agente e ne liquidò i rapporti. Con afflizione, lo spione apprese la notizia dell’invasione, ma almeno si rifece alcuni mesi dopo. Nell’ottobre 1941 riuscì finalmente a farsi ascoltare da Mosca, garantendo che il Giappone, pur alleato della Germania, non aveva intenzione di attaccare i russi da est, il che permise a Stalin di sguarnire la Siberia e mandare preziose truppe di rinforzo a fare muro contro i tedeschi. Questo successo di Sorge giunse appena prima che venisse arrestato dai nipponici, finendo in seguito impiccato.

Furono i tipi alla Sorge, di quella particolare pasta d’uomo con cui fu plasmato anche il Lawrence d’Arabia, agente segreto, ma anche consigliere militare e guerrigliero con gli arabi fra il 1916 e il 1918, a fare da modello per il James Bond, alias agente 007, partorito dalla fantasia dello scrittore britannico Ian Fleming. Reduce da una lunga esperienza nell’intelligence della Royal Navy, Fleming scrisse fra il 1953 e il 1964, anno della sua morte, una dozzina di romanzi con protagonista 007, ripetutamente portati sullo schermo a partire dal primo mitico film Agente 007, licenza di uccidere del 1962, con l’attore scozzese Sean Connery nei panni di Bond. L’immaginario popolare fu profondamente influenzato da queste e altre produzioni letterarie e cinematografiche, che volevano l’agente segreto come una sorta di eroe sovrumano e superaccessoriato, devoto a Sua Maestà, almeno nel caso degli inglesi, mentre nella realtà si è trattato spesso di tranquilli funzionari o impiegati, o perfino squallidi personaggi, che passavano documenti al nemico per soldi o dietro ricatto, ma anche per ideologia.

Del resto, l’infiltrato più famoso di sempre, il britannico Harold Philby, meglio noto come Kim, che lavorava per i sovietici per fedeltà all’ideale comunista, non corrispondeva al ritratto di un muscoloso acrobata come Bond. Philby fu all’inizio un abile giornalista e poi, per ben un ventennio, un alto funzionario degli stessi servizi segreti britannici, prima della sua fuga in Unione Sovietica nel 1963, quando stava ormai per essere smascherato. Si rivelò il più brillante dei cinque ragazzi comunisti dell’università di Cambridge, i cosiddetti magnifici cinque, che fin dal 1930 l’intelligence sovietica aveva agganciato e spronato perché infiltrassero pazientemente i gangli principali del sistema politico e mediatico britannico.

Un panorama spesso frammentato, dove un eccessivo accento sulle vicende personali di pochi singoli ha spesso rischiato di far perdere di vista le linee generali, tattiche e strategiche, ha contribuito a far sì che il pubblico non specialistico conoscesse soltanto sprazzi di storia dello spionaggio, isole sperdute in un mare altrimenti ignoto, o al più illuminato da suggestioni romanzesche. È stato quindi con l’ambizione di raggruppare in un unico ponderoso libro divulgativo quanti più eventi e dettagli possibili di una storia mondiale dei servizi segreti che abbiamo deciso di cimentarci in quest’opera. Soprattutto per restituire al pubblico un quadro esauriente e organico del ruolo dell’intelligence nella storia. Si può dire, anzi, che l’intreccio fra le vicende puramente spionistiche e lo sfondo degli eventi geopolitici possa far definire questo libro anche come una sorta di storia del mondo letta attraverso la lente dei servizi segreti. Sebbene la maggior porzione del libro riguardi comunque il xx secolo, abbiamo descritto gli albori dello spionaggio fin dall’antichità, documentando la notevole crescita in complessità delle operazioni segrete.

Già in epoca romana gli imperatori contavano su personale specialistico del calibro degli speculatores e dei frumentarii, che oltre a raccogliere informazioni sui popoli confinanti si occupavano di fare da polizia segreta interna, per sventare complotti veri o presunti. Peraltro fa una certa impressione, leggendo gli antichi autori latini, osservare come la delazione fosse divenuta in certe fasi della storia romana pane quotidiano, preludio alla disintegrazione anche morale dell’Impero dei Cesari. Abbiamo ricordato inoltre il contributo notevole delle civiltà orientali, a cominciare dalla Cina dell’epoca degli stati combattenti, in cui il ruolo della spia si ritrova rimarcato già nel celebre trattato L’arte della guerra di Sun Zi, ma senza dimenticare il Giappone medievale, culla dei ninja, i supremi maestri dell’arte dello shinobi, ovvero l’insinuarsi. Per quanto non ancora istituzionalizzati, i servizi segreti degli stati europei cominciarono ad assumere caratteristiche sorprendentemente moderne fin dal 1400, sia nelle nascenti monarchie nazionali di Gran Bretagna, Francia e Russia, sia in stati più piccoli, ma non meno importanti, come la Repubblica di Venezia, i cui ambasciatori sparsi per il mondo redigevano regolari rapporti di intelligence a beneficio del proprio governo. Un notevole spazio è stato dedicato, per ovvie ragioni, a eventi e personaggi italiani, per rendere giustizia alla storia dei servizi segreti nazionali, assai poco conosciuta a livello di grande divulgazione. Quanti italiani, per fare un solo esempio, hanno una vaga idea delle missioni di spionaggio che il capitano dei bersaglieri Eugenio De Rossi compì dal 1893 al 1912 oltre le nostre frontiere, soprattutto rivolgendosi alla Francia e all’Austria, che tra fine Ottocento e inizio Novecento si alternavano la palma di nemico numero uno dell’Italia? Non potevano mancare peraltro ampi cenni alla difficile stagione degli anni di piombo, partendo dal Piano Solo del 1964, attraverso la lotta al terrorismo eversivo, fin oltre il fatale rapimento di Aldo Moro nel 1978.

Il libro arriva fino all’odierna stagione della lotta al terrorismo islamico e del riemergere della Guerra Fredda fra America e Russia, in questi primi anni del xxi secolo che sembravano aver messo in secondo piano il ruolo degli esseri umani, travolti dall’apparente strapotere dei computer, con la loro diabolica capacità di acquisire nella rete internet tutte le informazioni basilari della vita di ognuno di noi. Salvo poi scoprire da un lato che l’accumulazione di una mole immensa di dati perde significato se non si è in grado di capire quali analizzare e quali tralasciare, facoltà che, insieme alle decisioni ultime sul da farsi, spetta ancora all’uomo. E senza contare che vicende come quella di Edward Snowden, l’ex collaboratore della cia e della nsa rifugiatosi in Russia nel 2013 dopo aver denunciato il programma di spionaggio informatico di massa Prism, allestito dagli usa, dimostrano come l’imprevedibilità e i continui colpi di scena restino parte inalienabile della storia umana, che è prima di tutto storia di persone, del modo in cui l’animo loro reagisce agli avvenimenti e alle situazioni circostanti. Il computer, per quanto complesso, resta sempre una macchina, per definizione uno strumento creato dagli esseri umani per scopi stabiliti dagli esseri umani stessi. E anche nel mondo dell’intelligence, in ultima analisi, la risorsa fondamentale, irrinunciabile, sarà sempre quella umana.

L’opera, nonostante l’indubbia mole, non poteva comprensibilmente contenere tutto ciò che è successo nella storia dello spionaggio globale nell’arco di vari secoli. Se moltissime vicende sono state debitamente approfondite, altre sono state necessariamente riassunte per motivi di spazio e non poteva essere altrimenti, a meno di non voler dare alle stampe un tedioso scritto di svariate migliaia di pagine, che sarebbe quindi risultato illeggibile. Ci piace pensare di essere riusciti a raggiungere un buon compromesso fra completezza, precisione e agilità narrativa. Ma il giudizio finale spetterà al lettore, chiedendogli sinceramente venia se avrà opinioni differenti dalle nostre circa l’importanza di questo o quell’episodio, ma altrettanto sinceramente garantendogli che abbiamo profuso in quest’opera enciclopedica il nostro massimo impegno.

Mirko Molteni, autunno 2018

1. Alle origini delle spie

Kadesh, Troia, Gerico

È dalle nebbie dell’Età del Bronzo, risalendo a circa 3500 anni fa, che emergono alcuni fra i più antichi atti di spionaggio della storia, spesso trasposti su di un piano leggendario. In generale, l’importanza dell’intelligence, del sapere cosa stesse facendo il nemico e del cercare di ingannarlo con false informazioni doveva essere riconosciuta fin dalla notte dei tempi da tutti i primordiali eserciti. Specie considerando che la guerra e la politica erano diventate lotte senza esclusione di colpi, non più sportive prove di valore fra tribù primitive che conducevano, magari a cadenza stagionale, una forma di lotta ritualizzata con pochissimi morti e feriti, quasi considerati vittime di incidenti. Con la nascita degli stati organizzati non ci si poteva più permettere il lusso di essere leali con l’avversario, o perlomeno non troppo, poiché la posta in gioco diventava sempre più alta, man mano che dalla volontà e dagli obiettivi strategici di singoli re, attorniati comunque dai loro più o meno sagaci consiglieri e ufficiali, dipendevano i destini di interi popoli su vasti spazi geografici.

Una superiore opera informativa, insieme a una certa dose di coraggio, fu certamente alla base della vittoria egizia conseguita nella battaglia di Megiddo, combattutasi fra il 1479 e il 1468 a.C., a seconda delle incerte datazioni dell’arcaica cronologia dell’Egitto faraonico. Era l’epoca in cui gli egiziani, allora guidati dai sovrani della xviii dinastia, stavano costruendo un forte impero coloniale in terre straniere, proiettando per la prima volta la loro potenza militare al di fuori dell’Africa Settentrionale. L’egemonia dell’Egitto si era estesa fino alla Palestina e alla Siria, ma cozzava contro il dominio del Regno di Mitanni, che disputava ai faraoni la fedeltà delle tribù locali. Una coalizione di ben 330 capitribù siriani sotto la guida del principe di Kadesh si rivoltò contro il faraone Tutmosi iii, contando anche sull’aiuto dei guerrieri del re mitannico Barattarna. Siriani e mitanni aggregarono un grosso esercito che scese fino alla città di Megiddo, in Palestina, vicino al monte Carmelo, in modo da sbarrare il passo alla prevedibile offensiva egiziana. Tutmosi iii era appena salito al trono, il 1° febbraio di un anno che per facilità fissiamo al 1468 a.C., e già entro il 15 aprile aveva approntato un’armata di almeno 20.000 uomini, preparandosi a marciare al di là del Sinai e risalire in Palestina, terra che gli egizi chiamavano Zahi.

Narrano le cronache egiziane: «Sua Maestà non ha esitato a invadere il Paese di Zahi, per liquidare i traditori che vi si trovavano e per recare doni a quelli che gli erano rimasti fedeli»¹. Avanzando verso nordest, l’armata del faraone si portò alle colline di Megiddo, dove il principe di Kadesh e i suoi alleati avevano dislocato le loro truppe a guardia di due ampi valichi che conducevano alla città. Avevano lasciato però sguarnita una terza via, l’angusta gola di Aruna, da cui si poteva passare solo in fila indiana. I siriani ritenevano che un grosso esercito non avrebbe potuto passare di lì, ma si sbagliavano. Tutmosi iii, grazie alla probabile opera di informatori inviati in ricognizione, quando non di traditori in campo nemico, scelse senza indugio di passare dalla stretta gola, come dichiarò egli stesso ai suoi generali: «La Mia Maestà è decisa a percorrere questa strada di Aruna, chi di voi vuole intraprenda queste altre strade di cui parlate, ma si compia anche il desiderio di chi vuole venire al seguito della Mia Maestà!»².

L’opera di spie non è menzionata, ma è impossibile che il faraone non se ne fosse avvalso, altrimenti non avrebbe ostentato tanta sicurezza nel proporre una via di transito così pericolosa. Anche il minimo dubbio avrebbe potuto far abortire questo piano tattico ambizioso, poiché nella stretta gola da cui gli uomini potevano passare solo uno alla volta, poche sentinelle nemiche sarebbero bastate per massacrare gli egiziani. Una notte, probabilmente quella fra il 14 e il 15 maggio, ma altre cronologie la anticipano di un mese, l’armata egiziana passò dalla gola, nell’arco di circa 12 ore, sfruttando l’oscurità e avendo anche l’accortezza di fasciare gli zoccoli dei cavalli per non fare chiasso. Sbucati dalla gola in un punto in cui non erano attesi, gli egizi attaccarono a sorpresa le truppe nemiche, travolgendole con una valanga di carri da guerra, fra i quali brillava la biga dorata del faraone coi suoi cavalli ornati di creste colorate. I guerrieri nemici si rifugiarono entro le mura di Megiddo. Tutmosi imbastì allora un assedio durato sette mesi, fino a dicembre inoltrato, con l’aiuto di una fortificazione campale che circondava la città, anticipando di 14 secoli la futura circonvallazione di Giulio Cesare attorno alla città gallica di Alesia. Alla fine la roccaforte si arrese, anche se il principe di Kadesh riuscì a fuggire. Sulla battaglia di Megiddo sono molto scarni i dettagli, ma si può arguire che gli egiziani abbiano sfruttato le loro risorse di intelligence assai più dei siriani. Una serie di informatori assicurarono al faraone che il passaggio dalla gola sarebbe stato relativamente sicuro e può anche darsi che una piccola aliquota di sentinelle nemiche poste a guardia della gola sia stata o neutralizzata da un assalto preventivo, oppure semplicemente comprata e convinta a tradire e a non intervenire. Ipotesi avvalorata dal fatto che l’egemonia egiziana sulla Palestina si era affermata da tempo e che fra la popolazione locale non dovevano essere pochi coloro che ritenevano conveniente restar fedeli ai faraoni.

Pochi anni dopo la battaglia di Megiddo, verso il 1450 a.C., un altro esempio di astuzia da servizi segreti venne sfoderato dagli egiziani per conquistare la piazzaforte di Joppa, ossia l’attuale Giaffa israeliana. Il comandante locale dell’armata incaricata da Tutmosi iii di prendere la città, il generale Gehuty, invitò il principe di Joppa nell’accampamento egizio col pretesto di intavolare trattative. Ma lo uccise a tradimento. Subito dopo fece nascondere duecento guerrieri egizi scelti in altrettante ceste di vimini, caricate sul dorso di asini. Gehuty mandò quella che sembrava una innocua carovana fino alle porte di Joppa, dove si fece credere al nemico che si trattava di tributi la cui consegna era stata concordata fra il generale egizio e il principe di Joppa come segno di pace. Invece, non appena furono introdotti nella città, i soldati egizi saltarono fuori dalle ceste e si impadronirono delle porte facendovi entrare i loro commilitoni. Con la caduta di Joppa in mano egiziana si era così assistito a una singolare anticipazione della tattica del cavallo di Troia.

Il dominio egizio sulla fascia di territorio siro-palestinese continuò per altri due secoli e portò allo scontro diretto con un’altra potenza dell’epoca, l’Impero Ittita, che dalle sue sedi originarie in Anatolia si era espanso verso sud inglobando il vecchio reame mitannico con gran parte della Siria e del Libano. In un anno compreso fra il 1296 e il 1274 a.C., sempre tenendo conto dell’incertezza cronologica degli annali antichi, il faraone Ramses ii scese in guerra contro gli ittiti, detti dagli egizi genti di Hatti. Si spinse verso la città di Kadesh, vicino al fiume Oronte, con un esercito articolato in quattro divisioni chiamate, con nomi di divinità, Amon, Ra, Ptah e Sutekh. L’esercito ittita, guidato dal re Muwatallis, si tenne abilmente nascosto sfruttando come copertura la sagoma del centro abitato e attirò il faraone in trappola infliggendo agli egizi una sconfitta che solo per un pelo non si trasformò in un tracollo totale. In quella che passò alla storia come battaglia di Kadesh, Ramses ii, a differenza di Tutmosi iii, si dimostrò più avventato e meno attento alla validità delle informazioni tattiche. S’accampò a sud di Kadesh non sapendo che l’armata ittita distava pochi chilometri da lui. Muwatallis gli inviò due spie che dovevano fargli credere di essere disertori, per diffondere false notizie fra i nemici. Gli agenti segreti, portati alla presenza del faraone, gli raccontarono che l’armata ittita, spaventata dalla forza degli egiziani, si era ritirata molto più a nord, fino ad Aleppo. Ramses, che non aveva mandato ancora esploratori in perlustrazione, si fidò ingenuamente della loro parola e decise di avanzare personalmente in avanscoperta alla guida della divisione Amon, passando il fiume Oronte e arrivando fino al lato nordoccidentale della cittadella di Kadesh, mentre l’esercito ittita si manteneva occultato sul versante opposto. Dietro la divisione Amon avanzava poco distante la Ra, mentre le divisioni Ptah e Sutekh erano molto indietro, ancora attardate sui guadi dell’Oronte. Il re Muwatallis ordinò allora di attaccare con un rapido avvolgimento di carri da guerra la divisione Ra, in pratica chiudendo una trappola alle spalle della Amon, come narrano le fonti egizie: «Essi attaccarono l’esercito di Ra al centro, mentre marciava nulla sospettando e non pronto alla lotta. L’esercito e i guerrieri sul carro di Sua Maestà furono deboli di fronte ad essi»³. In quello stesso momento, però, la divisione avanzata del faraone catturò due altre spie ittite spintesi troppo vicino alle linee egiziane. Questi agenti ittiti vennero sottoposti a una furibonda bastonatura finché vuotarono il sacco. Raccontarono tutta la verità sul piano del loro sovrano e Ramses ebbe così il quadro completo della situazione, seppur tardivamente. Poté se non altro tamponare il disastro e resistere all’accerchiamento ittita finché non gli arrivò un distaccamento di truppe di rinforzo proveniente dalla costa libanese. Il faraone e le sue truppe poterono così sganciarsi dal nemico e salvarsi dal massacro.

Il valore con cui il faraone sfuggì alla trappola ittita venne esaltato dagli annali egiziani come una vittoria, anche se in realtà la battaglia di Kadesh segnò il trionfo degli ittiti, pur non completo. Gli scribi, anzi, per calcare la mano sulla propaganda, contrapposero il coraggio di Ramses alla vigliaccheria di Muwatallis, che si era avvalso di spie e tranelli: «Il miserabile sovrano di Hatti stava in mezzo all’esercito che aveva con sé e per paura di Sua Maestà non veniva fuori a battersi»⁴. La dabbenaggine egiziana in fatto di intelligence veniva in un certo senso fatta passare per correttezza e lealtà, mentre se il nemico era stato a un passo dall’annientare totalmente l’esercito egiziano, anche catturando o uccidendo il faraone, ciò era stato possibile, secondo i cortigiani egizi, solo perché gli ittiti si erano comportati da vili. Un modo di rigirare la frittata per coprire le negligenze dell’armata di Ramses. Non solo gli egiziani avevano in quella regione un servizio informazioni scadente, trovandosi lontani dalle più consuete zone in cui il loro dominio durava da più tempo, ma si fidarono della parola dei due falsi disertori inviati dagli ittiti alla vigilia della battaglia, senza preoccuparsi di verificarne le affermazioni mandando in ricognizione piccoli gruppetti di soldati, magari camuffati da beduini. Invece Ramses, preso dalla foga e dalla vanità di aver fatto scappare fino ad Aleppo gli ittiti, stando a quanto gli avevano raccontato gli agenti nemici, era avanzato precipitosamente, esponendo a inutili rischi sia se stesso, sia le divisioni del suo esercito, che per di più venivano tenute troppo scaglionate e quindi non potevano portarsi facilmente reciproco soccorso.

Non molti anni dopo lo scontro di Kadesh, una messe di esempi di operazioni spionistiche e di infiltrazione la si riscontra, pur sotto l’alone di mito, nel conflitto combattutosi sotto le mura di Troia, l’assedio più celebre della storia antica. Secondo la tradizione raccolta soprattutto da Omero, la guerra di Troia oppose per una decina d’anni gli assedianti dei regni achei che si spartivano la Grecia e i troiani asserragliati nella loro turrita città, da cui sovente mandavano spedizioni militari a molestare il campo greco. Gli esperti dibattono da sempre sul livello di attendibilità del poema omerico, ma ritengono plausibile che in una data imprecisata fra il 1280 e il 1194 a.C. la roccaforte di Troia possa essere stata davvero assalita da un esercito proveniente dalla Grecia. Le rovine dell’antica città, scoperte nel 1870 dal famoso archeologo tedesco Heinrich Schliemann sulla collina turca di Hissarlik, dimostrano che nel corso dei secoli si susseguirono numerose distruzioni, e successive ricostruzioni dell’abitato. Su un totale di nove strati di rovine, a partire dalla più antica, la cosiddetta Troia i, che era una cittadella neolitica, quella identificabile con la Troia omerica dovrebbe essere la Troia vii, effettivamente databile al xiii secolo prima di Cristo e che mostra segni di saccheggio e incendio. La plausibilità di questa antica guerra si basa anche sul fatto che da secoli le genti dell’Egeo aprivano vie marittime commerciali, specie per rifornirsi di grano e metalli, dirette verso il Mar Nero, il cui accesso, dallo Stretto dei Dardanelli, era però controllato proprio da Troia, arricchitasi e divenuta forte a cagione della sua posizione strategica.

Che a far scoppiare il conflitto tra la coalizione achea guidata dal re di Micene Agamennone e la Troia, o Ilio, del re Priamo, coi suoi alleati, sia stato il rapimento della regina di Sparta Elena da parte di Paride è ovviamente un pretesto letterario. Per gli antichi eserciti dell’Età del Bronzo non si può, beninteso, parlare, di servizi segreti istituzionalizzati. Lo spionaggio era ancora arte approssimativa a cui si prestavano di volta in volta il guerriero, il servo, il mercante, la prostituta, il pastore. Era perfino difficile dire dove finisse la ricognizione armata, magari di gruppi di cavalieri, e dove iniziasse lo spionaggio vero e proprio. Prendendo i racconti mitici non tanto come testimonianza realistica, quanto come simbolica rappresentazione della figura del guerriero-spia inviato a ficcanasare oltre le linee nemiche, possiamo ricordare il celebre episodio narrato dall’immortale Omero nel canto x della sua Iliade.

Si era allora nel decimo anno della guerra di Troia, il che potrebbe equivalere, molto a spanne, al 1270 a.C. se si accetta una datazione approssimativa proposta dagli archeologi, oppure il 1184 a.C. a tener fede a una cronologia tradizionale risalente agli autori classici, specie Eratostene. Giunti all’ennesimo momento di stallo, dopo aver subìto un’incursione troiana fino alla propria base costiera, i capi della coalizione achea, riunitisi appena fuori della palizzata che proteggeva il loro accampamento, decisero di inviare di soppiatto una spia a raccogliere informazioni nel campo troiano. Fu l’anziano Nestore, re di Pilo, ad avere l’idea, esortando così gli altri monarchi:

Amici, havvi alcuna tra voi anima ardita e in sé sicura, che furtiva ir voglia de’ fier troiani al campo, onde qualcuno de’ nemici vaganti alle trincere far prigioniero? O tanto andar vicino, che alcun discorso de’ troiani ascolti, e ne scopra il pensier? Se sia lor mente qui rimanersi ad assediar le navi, o alla città tornarsi, or che domata han l’achiva possanza? Ei forse tutte potria raccor tai cose e ritornarne salvo e illeso⁵.

In sostanza, il buon vecchio Nestore chiedeva un volontario che arrivando fino al campo dei troiani riuscisse o a far prigioniero un nemico e interrogarlo, o comunque a udire nell’ombra i discorsi degli avversari per comprendere le loro intenzioni future, specialmente se fossero in procinto di ritirarsi verso la città, lasciando respiro agli achei che avevano stabilito le loro fortificazioni campali a ridosso della spiaggia su cui erano sbarcati con la loro flotta. Subito fu Diomede a offrirsi come infiltrato, purché gli fosse assicurato un gregario nella pericolosa impresa:

Quell’audace sono io, me la fidanza, me l’ardir persuade al gran periglio d’insinuarmi nel dardanio campo. Ma se meco verranne altro guerriero, sicurtà crescerammi ed ardimento. Se due vanno di conserva, l’uno fa l’altro accorto del miglior partito. Ma d’un solo, sebbene veggente e prode, tardo è il coraggio e debole il consiglio⁶.

Numerosi furono i soldati e nobili achei che si offrirono di accompagnare Diomede, ma lui fu irremovibile nello scegliere il fido Ulisse, re di Itaca, di cui era ampiamente dimostrata l’astuzia e la prudenza.

Dopo essersi armati di tutto punto, col favore della notte i due greci si incamminarono sul campo di battaglia, ora silente e deserto, diretti al campo troiano. Mentre Diomede e Ulisse avanzavano nella pianura tra cadaveri insepolti, al campo troiano, per ironia, si progettò una missione identica. Il principe Ettore, figlio del re Priamo, offrì in dono un cocchio tirato da due destrieri a chi avesse tentato la fortuna avvicinandosi alla testa di sbarco achea: «Questo dono otterrà chiunque ardisca appressarsi alle navi e cauto esplori se sian, qual pria, guardate, o pur se, domo da nostre forze, l’inimico or segga a consulta di fuga, e le notturne veglie trascuri affaticato e stanco»⁷. Si fece avanti un tal Dolone, descritto come un brutto ceffo, che in seguito si sarebbe rivelato traditore e così si assunse l’incarico: «Nell’acheo steccato penetrerò, mi spingerò fin dentro l’agamennonia nave, ove a consulta forse i duci si stan di pugna o fuga»⁸. Dolone prese così la direzione opposta rispetto a Ulisse e Diomede, andando loro incontro senza saperlo. I due guerrieri achei non potevano vederlo, ma udirono bene il rumore dei suoi passi. Diomede subito gli lanciò un giavellotto per spaventarlo e ingiungergli la resa. Non durò fatica poiché Dolone alzò le mani lasciandosi catturare dai due avversari e implorando pietà. Sperando di aver salva la vita, il troiano parlò anche troppo, praticamente tradendo i compagni. Non solo rivelò a Ulisse e Diomede lo scopo della sua missione, ossia spiare le sentinelle greche presso le navi, per notare segni di rafforzata sorveglianza oppure di preparativi di ritirata. Dolone raccontò come nel proprio campo solo alcune vedette troiane vegliassero, mentre i contingenti di alleati erano abbandonati al sonno. I greci non ebbero però pietà, come motivò Diomede: «Se per riscatto o per pietà disciolto ti mandiam, tu per certo ancor di nuovo alle navi verresti esploratore, o inimico palese in campo aperto»⁹. Non diede a Dolone nemmeno il tempo di esprimere una supplica che già Diomede gli calò un fendente di spada talmente guizzante sul collo da fargli rotolare a terra la testa che ancora parlava, o meglio doveva agitare le labbra negli estremi spasmi. Misero le armi e lo scudo di Dolone su un alberello di tamarisco, a mo’ di segnale per ritrovare la strada del ritorno nella notte, e si diressero al campo troiano, avvicinandosi alla zona dove dormivano i guerrieri traci, alleati di Priamo. Mentre Diomede scannava una dozzina di traci, più il loro sovrano Reso, inermi e impastati di sonno, Ulisse si occupava di rubarne i cavalli. Proprio mentre stavano per riprendere la direzione del campo greco, un guerriero tracio, Ipocoonte, si svegliò e diede l’allarme, ma invano. Diomede e Ulisse fecero a Nestore un preciso rapporto sulla loro missione.

Fin qui l’Iliade, che come noto ha per oggetto centrale la furia di Achille e la morte di Ettore, non l’intera narrazione del conflitto. Ma altri episodi successivi della guerra di Troia, desunti da frammenti di opere minori, come la Piccola Iliade e l’Iliou Persis, nonché la grande Eneide di Virgilio, permettono di ricostruire, a grandi linee, altre imprese spionistiche che videro ancora come figure centrali gli affiatatissimi Ulisse e Diomede. Dopo che il re di Itaca ebbe catturato Eleno, un principe della casa reale troiana che aveva il dono della profezia, questi gli rivelò che la città non sarebbe mai caduta finché fosse stata protetta da una sacra statua di Atena, il cosiddetto Palladio. I greci organizzarono perciò una missione per rubare il Palladio. All’inizio si mosse il solo Ulisse, camuffato da mendicante. Per rendere perfetto il suo mascheramento, il re di Itaca si fece prestare gli stracci puzzolenti indossati da un vero vagabondo, Dette, che era solito chiedere l’elemosina presso l’accampamento acheo. Poi ordinò all’amico Toante di riempirlo di botte perché con tutti quei lividi paresse davvero un malconcio reietto. Ostentando condizioni disperate si avvicinò alle Porte Scee dove muovendo a pietà i troiani ce la fece a intrufolarsi nella città. Girovagando per le strade si imbatté in Elena, alla quale garantì la salvezza in caso di espugnazione della città da parte dei greci. Lei gli rivelò l’esatta ubicazione del Palladio nel tempio di Atena che sovrastava l’acropoli della città. L’eroe itacense non poteva farcela da solo, uscì da Troia nel cuore della notte, dopo aver ucciso due sentinelle troiane, e lo riferì a Diomede, organizzando con lui il furto del Palladio. In una notte senza luna si avvicinarono alle mura di Troia arrivando a un punto in cui la cinta era notevolmente più bassa. Diomede riuscì a scavalcare il muro salendo sulle spalle di Ulisse, al che si può immaginare che in quel punto le mura fossero alte non più di tre o quattro metri. Ma con grande irritazione di Ulisse, quello lo lasciò fuori ad aspettare per arrogarsi la gloria dell’azione. Diomede si avventurò fino al tempio, impadronendosi del Palladio e fuggendo. Quando ridiscese le mura ritrovò Ulisse e insieme fuggirono verso il campo acheo. Si dice che durante il ritorno Ulisse, geloso di Diomede, avesse minacciato di ucciderlo a tradimento con un colpo di spada, fallendo perché il compagno si era accorto, pur nel buio della notte, del baluginare della lama fuori dal fodero. I due eroi però si riconciliarono e si divisero il merito del furto del Palladio.

Poco dopo Ulisse, si dice ispirato dalla dea Atena, ebbe la famosa idea del cavallo di legno, con cui infiltrare nella città un manipolo di guerrieri destinati ad aprire le porte all’esercito greco. Emblema eterno dell’inganno, la vicenda è arcinota, ma non è fuor di luogo ricordarne le linee principali. Materialmente la costruzione del cavallo venne attribuita al carpentiere Epeo. Dopo aver ingannato i troiani sgomberando il campo e reimbarcandosi sulle navi, gli achei anziché ritornare in Grecia diressero le navi a nascondersi dietro l’isola di Tenedo. Priamo e la sua corte, pur ammoniti dalla profetessa Cassandra, credettero veramente che il nemico si fosse arreso, dopo ben dieci anni di snervante assedio. Non si insospettirono per la presenza sulla spiaggia di un colossale cavallo di legno, considerato una sorta di tributo alla dea Atena perché perdonasse il furto del Palladio e rendesse placido e tranquillo il rientro in patria degli invasori. Riversatisi increduli fino al litorale, i troiani e il re Priamo trovarono e catturarono uno spaesato greco, Sinone, che supplicò pietà sostenendo di esser stato scelto come vittima sacrificale in quanto nemico di Ulisse, ma di essersi salvato fuggendo nella notte. Ora, abbandonato dai compatrioti, non gli restava che chiedere asilo a Troia. Stando alla Eneide di Virgilio, così disse Sinone: «Da morte, confesso, mi sottrassi e i nodi ruppi e, non visto, fra i giunchi della palude di notte mi nascosi fin quando ai venti dessero le vele»¹⁰. Sinone impietosì Priamo e la sua corte, che non immaginavano si trattasse di un agente segreto. I troiani, ammaliati dalla visione, decisero di portare il cavallo di legno entro le mura, ignorando che il ventre del fantoccio era farcito di guerrieri greci. Secondo la tradizione erano 13 i guerrieri celati nel grande simulacro, fra i quali Ulisse stesso, Diomede e Menelao. Il cavallo fu trasportato all’interno della città, dove gli abitanti si diedero a folli festeggiamenti per la vittoria. Ma non sapevano di essere al centro di una delle più antiche, e anche più riuscite, operazioni di inganno strategico della storia. Il piano di Ulisse era diabolico. Sinone avrebbe dovuto vegliare attendendo che la città fosse immersa nel sonno, per andare ad aprire la botola del cavallo facendo uscire i commilitoni. Poi tutti insieme avrebbero aperto le porte della roccaforte alle truppe greche, sbarcate di nuovo nelle tenebre.

Calata la notte, mentre i troiani dormivano sonni pesanti dopo i bagordi, la flotta greca rispuntò da Tenedo e approdò di nuovo sulla costa troiana. Per segnalare l’inizio dell’operazione, dalla nave di Agamennone fu lanciata in cielo una freccia infuocata, che dava a Sinone il segnale di agire, come dall’opera di Virgilio: «E già l’argiva flotta con le schierate navi andava tacita da Tenedo volgendo ai noti lidi per il silenzio dell’amica luna, quando la regia nave un fuoco al cielo alto lanciò»¹¹. Il greco si portò sotto il ventre del cavallo di legno e aprì un portello ben camuffato. I greci si calarono a terra con una fune di canapa, spostandosi poi verso le porte. Frattanto l’esercito di Agamennone era sbarcato e s’avvicinava. Quando il drappello di infiltrati segnalò di aver aperto le porte della cinta muraria, per Troia poté dirsi finita. Fu saccheggiata e distrutta e ne scamparono in pochi fra cui Enea e i suoi seguaci, andati a finire in Italia dopo molte peripezie. Negli eventi in seguito narrati da Omero nell’Odissea, ossia il decennale, travagliato rientro a Itaca di Ulisse, l’astuto eroe ebbe ancora una sorta di appendice da agente segreto, se così possiamo definire il suo sbarco in incognito sulle coste patrie, per non farsi riconoscere dai proci, i pretendenti della moglie Penelope. Mascherato da mendicante, si recò dal fedele pastore Eumeo, facendosi narrare come stavano le cose nella reggia. Il camuffamento, nel poema, viene presentato come un artifizio magico della dea Atena, ma ciò non toglie che nel suo nucleo, la vicenda sia un perfetto esempio di infiltrazione spionistica in un ambiente ostile. Scrisse Omero:

S’inaridisce la molle cute, e si rincrespa. Rari spuntano, e bianchi, sulla testa i crini. Tutta d’un vecchio la persona e prende, rotto dagli anni e stanco. E foschi, estinti son gli occhi, in che un divin fuoco brillava. Tunica triste e mala cappa in dosso l’amica dea cacciogli, ambo, squarciate, discolorate, affumicate e sozze sopra gli vestì ancor di ratto cervo un gran cuoio spelato, e nella destra pose bastone. Ed una vil bisaccia che in più luoghi s’aprìa, per una tòrta correggia antica agli omeri sospese¹².

Rivelatosi a Eumeo e Telemaco, ma non ancora a Penelope, si presentò a corte come un viandante proveniente da Creta e preparò con calma la vendetta contro i proci, sterminandoli dopo averli intrappolati.

Gli episodi omerici sono certamente un indizio importante, ancorché letterario, della propensione degli antichi per le operazioni segrete, sia per acquisire informazioni, sia per ingannare il nemico o agire dietro le quinte. In Diomede e Ulisse si riscontrano già i prototipi simbolici degli agenti segreti futuri. E sempre tenuto conto del fatto che, al di fuori delle incrostazioni mitiche, non è improbabile che le vicende omeriche siano il ricordo deformato di avvenimenti realmente accaduti i cui protagonisti reali potevano anche portare i medesimi nomi, o nomi molto simili, tramandati dai poemi.

Più a oriente, nella Palestina allora al centro di sommovimenti di popoli migratori, storia e leggenda si fondevano parimenti nel tratteggiare le prime imprese di intelligence del popolo ebraico, curiosamente contemporanee, all’incirca, della guerra di Troia, quindi collocabili attorno al 1200 a.C. Per quanto la Bibbia possa aver validità più spirituale e mitica che storica, nondimeno i numerosi accenni all’uso di spie nella protostoria degli ebrei costituiscono un ulteriore sguardo sulle semplici tattiche informative e occulte di tremila anni fa. Tra gli impieghi più noti di agenti segreti ebrei ci sono senz’altro i dodici esploratori mandati in ricognizione da Mosè nella terra promessa, la terra di Canaan, ossia la Palestina, sul cui limitare era finalmente giunto il popolo d’Israele dopo 40 anni di peregrinazioni nel deserto seguiti all’esodo dall’Egitto dei faraoni. È narrato nel libro dei Numeri, laddove si dice che Mosè scelse i dodici esploratori, uno per ogni tribù d’Israele, perché verificassero che la Palestina fosse davvero una terra fertile e accogliente. Le tribù israelitiche si erano accampate ai margini del deserto di Faran e agognavano buone notizie dopo tanto vagabondare. Il testo nomina una per una le spie (ne tralasciamo almeno il patronimico per brevità). Erano Sammua della tribù di Ruben, Safat della tribù di Simeone, Caleb della tribù di Giuda, Igal della tribù d’Issachar, Osea della tribù di Efraim, Falti della tribù di Beniamino, Gaddiel della tribù di Zabulon, Gaddi della tribù di Manasse, Ammiel della tribù di Dan, Setur della tribù di Aser, Nahabi della tribù di Neftali, Gued della tribù di Gad. Mosè pose però a Osea di Efraim il nome di Giosuè, col quale sarebbe divenuto sempre più celebre. Istruendoli sulla missione, Mosè parlò loro in tal modo:

Andate verso Sud e quando sarete giunti alle montagne considerate la qualità della terra e il popolo che la abita, se sia forte o debole, se pochi di numero o molti. Se la terra sia buona o cattiva, quali le città, se murate o senza mura. Se il terreno sia grasso o sterile, selvoso o senz’alberi. Fatevi cuore e portateci de’ frutti della terra¹³.

Gli esploratori si avventurarono nella regione, probabilmente avanzando non in gruppo, ma separandosi per non dare nell’occhio e la percorsero per 40 giorni, prima di tornare presso l’accampamento israelitico. Portarono con sé frutti in quantità, come melagrane, fichi e soprattutto dei grappoli d’uva enormi. Ma anche la notizia che la terra di Canaan era disseminata di potenti città murate, indizio di notevole forza militare delle popolazioni semitiche già stanziate nella zona. Il rapporto degli esploratori era insieme allettante e scoraggiante:

Giungemmo nella terra dove tu ci mandasti e in questa veramente scorre latte e miele, ecco i suoi frutti. Però il popolo che abita quel paese è potente e le città sono molto forti e murate. Vi abbiamo veduto la stirpe di Enac. Gli amaleciti abitano la parte meridionale del paese, gli etei, i gebusei, gli amorrei la regione montuosa, i cananei abitano presso il mare e lungo il fiume Giordano¹⁴.

Temendo che questi popoli si potessero dimostrare troppo forti da sconfiggere, la maggior parte del popolo iniziò a disperarsi, influenzato da alcuni degli esploratori, che insinuarono addirittura che gli abitanti della Palestina dovevano essere dei giganti. Più sinceri e fiduciosi si rivelarono invece Caleb e Giosuè, che, di concerto con Mosè, spronarono gli ebrei a non perdersi d’animo e a procedere all’invasione della terra promessa.

In seguito, proprio Giosuè divenne il primo dei successori di Mosè alla testa di Israele, annoverando fra le sue imprese la conquista della città di Gerico, famosa per le sue possenti mura turrite e rinomata inespugnabile. Prima di attaccare la città, situata circa 10 km al di là del Giordano, Giosuè vi inviò una notte due spie, sotto spoglie di viandanti, che trovarono ospitalità nella casa della prostituta Rahab, che era addossata al lato interno delle mura. Non è dato sapere fino a che livello la prostituta si sia dimostrata ospitale con quegli stranieri, ma stando al racconto biblico, il re di Gerico venne a sapere dell’arrivo dei due ebrei e subito mandò un suo emissario a Rahab con questo messaggio: «Conduci fuori gli uomini che sono venuti da te e sono dentro la tua casa, poiché sono spioni venuti ad osservare il paese»¹⁵. La prostituta nascose i due agenti ebrei sul terrazzo di casa sua, sotto mucchi di stoppie di lino e alle autorità rispose che effettivamente erano stati a casa sua due forestieri, ma che non si erano trattenuti e che erano già usciti da Gerico. Il re mandò alcune guardie nelle campagne, fino al guado sul Giordano, per cercare gli intrusi, mentre la donna rassicurò le spie e raccontò loro che gli abitanti di Gerico erano molto impauriti dalla forza di Israele, essendo giunte le notizie prodigiose sul passaggio del Mar Rosso e su varie vittorie già ottenute dagli ebrei sul popolo degli amorrei. Poi li fece sgattaiolare dalla città di nascosto. Poiché una finestra della casa di Rahab si apriva nella muraglia, da lì fece calare con una corda i due agenti, col favore delle tenebre. Chiese però in cambio che fosse risparmiata la vita a lei e alla sua famiglia al momento della presa della città: «Ora dunque, giurate a me nel nome di Dio che siccome io ho usata misericordia con voi, così voi la userete verso la casa del padre mio e mi darete un segno di sicurezza. Onde salviate il padre mio e la madre e i fratelli miei e le sorelle e tutto quello che a questi appartiene, e ci liberiate dalla morte»¹⁶. I due israeliti giurarono e consigliarono a Rahab di radunare a casa sua tutti i suoi parenti al momento opportuno, poi di legare un nastro rosso sulla finestra, perché indicasse ai soldati ebrei di risparmiare tutti coloro che si trovavano nella casa. A sua volta, la donna suggerì alle spie di scappare verso le montagne, per eludere le ricerche dei soldati di Gerico, i quali setacciavano invece le rive del Giordano. Scesi dalle mura, i due esploratori presero lesti la direzione dei monti, fra le cui aride rocce si nascosero per tre giorni. Quando immaginarono che le guardie del re nemico dovessero essere infine rientrate in città a mani vuote, ridiscesero verso il fiume e si riunirono alle loro tribù. Gli spioni riferirono a Giosuè tutto ciò che avevano visto e sentito in città, in particolare l’amicizia di Rahab e il fatto che gli abitanti di Gerico, pur protetti da alte muraglie, erano indeboliti nell’animo da una grande paura.

È ben noto che secondo la Bibbia gli ebrei espugnarono la roccaforte con l’aiuto di Dio, sfilando per sette giorni attorno alle fortificazioni e portando in processione l’arca dell’alleanza preceduta dal suono delle fatidiche sette trombe. Il settimo giorno il suono delle trombe fece alfine sbriciolare i bastioni, lasciando via libera all’irruzione dell’esercito di Israele. Il dettaglio, evidentemente sovrannaturale, ha portato qualcuno ad azzardare un uso di frequenze soniche tali da far entrare in risonanza muri di pietre malferme. In effetti, poco o nulla sappiamo di quanto i popoli antichi potessero eventualmente sfruttare le onde sonore in modi poi dimenticati, come potrebbe lasciar pensare l’abbondanza di leggende, in tutto il mondo antico, che parlano di energia sonora per muovere i sassi con vibrazioni più o meno calibrate. Tuttavia, la spiegazione più semplice e più plausibile per le trombe di Gerico potrebbe essere il banale scavo di gallerie di mina sotto la cinta della città, fino a farne crollare dei tratti. Scavo la cui rumorosità fu magari nascosta appositamente dal chiasso e dal frastuono della processione degli ebrei, che distraeva l’attenzione degli abitanti della città. Di certo venne sterminata l’intera popolazione di Gerico, esclusi Rahab e i suoi parenti. Al momento del saccheggio Giosuè convocò le due spie che erano state mandate in città e ordinò: «Andate a casa di quella donna meretrice e conducetela fuori con tutto quello che ad essa appartiene, come voi le prometteste con giuramento»¹⁷. Rahab e la sua famiglia vennero accolti fra gli ebrei e, singolarmente, la prostituta-spia entrò a far parte del novero degli antenati di Gesù Cristo, poiché stando alla Bibbia e al Vangelo di Matteo, venne sposata da Salmon della tribù di Giuda, avo del re Davide e quindi dello stesso Gesù. I primi passi del libro di Matteo, enumeranti le 42 generazioni dell’albero genealogico del Salvatore a partire da Abramo, non lasciano dubbi in proposito, laddove al versetto 1:5 l’evangelista dice: «Salmon generò Booz da Rahab»¹⁸. Booz, bisnonno di Davide, ebbe una discendenza ancora più lunga, che si spinse nel futuro per una trentina di generazioni, coprendo un intero millennio fino a circa l’anno 6 a.C., considerata la più probabile data di nascita di Gesù, dato che il computo dell’anno Zero calcolato dal monaco medievale Dionigi il Piccolo nel vi secolo d.C. viene considerato sbagliato dagli storici.

Greci e persiani

Discendenti degli achei che avevano preso Troia e dei loro cugini dori calati nella penisola ellenica dopo il 1200 a.C., i greci dell’età classica non furono da meno di Ulisse nello sviluppare stratagemmi che ponessero al centro l’acquisto e la trasmissione di informazioni, la diffusione di messaggi ingannevoli, l’influenza occulta sugli eventi: insomma tutto ciò che qualifica operazioni da servizio segreto, per quanto mancassero sempre istituzioni specifiche a tale scopo. Si sa che fin dal 700 a.C. nella bellicosa Sparta si usava un sistema per codificare messaggi assai semplici, mediante strisce di pelle intaccate che davano un senso compiuto se avvolte strettamente attorno a un particolare bastone dalla conformazione uguale a quello del mittente. In genere, però, lo spionaggio vero e proprio restò poco incentivato nelle contese fra gli stati greci a causa della persistente abitudine di ricorrere alla tipica battaglia leale in campo aperto, tra due formazioni contrapposte e ben serrate di opliti, i noti soldati di fanteria pesante. Una tendenza che, avendo influenzato alla lontana le tecniche di combattimento dei romani, avrebbe poi contribuito anche nell’antico Lazio a far affermare con molta fatica la propensione all’inganno, al sotterfugio e in genere all’approccio indiretto. Fu soprattutto dal v secolo a.C. che aumentò nel mondo ellenico il ricorso a operazioni occulte, soprattutto grazie al contatto, e al contrasto, fra l’Ellade e il vicinissimo Impero Persiano, che aspirava a dominare anche l’Europa. Lo scontro coi persiani si fece man mano più palpabile dopo che costoro ebbero sottomesso le numerose colonie greche fondate sulle coste dell’Asia Minore, l’odierna Turchia.

Nel 499 a.C., Istieo, il tiranno di Mileto, città greca della costa anatolica, la altresì detta Ionia assorbita dall’Impero Persiano, era trattenuto in ostaggio a Susa dall’imperatore Dario della dinastia degli Achemenidi. Istieo volle dare al governatore locale Aristagora, in quel momento alla guida della città, il segnale per far scattare la rivolta contro i persiani ma doveva ingegnarsi per far giungere il messaggio fin sul litorale asiatico dell’Egeo. Lo fece tatuare

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