Settanta Revisited: Guida sballata e verbosa per l’anziano rincattivito di questi anni millennovecentoduemili
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Carlo Crescitelli vive ed opera ad Avellino, e la sua attività autoriale spazia dall’ambito letterario a quello saggistico e artistico. Sue le fortunate cronache di viaggio pubblicate sotto le spoglie de “L’antiviaggiatore”.
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Settanta Revisited - Carlo Crescitelli
Carlo Crescitelli
Settanta Revisited
guida sballata e verbosa per l'anziano rincattivito di questi anni millenovecentoduemili
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Lo so che sono un tipo
un po’ nervoso
perciò il mio discorso
è un po’ confuso
le tue domande non mi danno più riposo
forse lo vedi, forse lo vedi
Sei diventato
come un controllore
non stai nemmeno ad ascoltare
l’unica cosa che ti dà piacere
è criticare criticare criticare
Non farò mai, no mai
quello che vuoi
non farò mai, no mai
quello che vuoi
Non farò mai quello che vuoi - Antoni, Setti, Dalla Valle, Ghezzi da Kinotto
, Skiantos, LATLANTIDE 2007
L’Anello di Congiunzione
...senza filo? ma vogliamo scherzare?!?
Questa è la storia mia, anzi no la storia del mondo, del cielo e del mondo in una stanza: la stanza mia. Dal Sessantotto all’Ottanta, che prima e dopo proprio non saprei.
Io? Io sono l’Anello di Congiunzione tra l’analogico e il digitale, e non mi dite di no che pensateci bene che è proprio così.
E lo so che sono un tipo un po’ nervoso, perciò il mio discorso è un po’ confuso, forse lo vedi, forse lo vedi… e non chiedermi di essere sintetico, ti prego.
Manchi di sintesi
. E certo che manco di sintesi, se è la sintesi che vuoi allora puoi anche risparmiarti la fatica di leggermi. Il dono della sintesi. Uà, il dono. E tienattéllo tu, allora. Tanto lo so che la invochi perché non hai voglia: che diamine vuoi capire nella sintesi, se non la banalizzazione di quello che dovresti, se pure ci riesci?
Senti, fai una cosa. Se non hai voglia squàgliati, che è meglio, che fai un favore a te e a me, caro il mio Mr. Synthetic. E mò zitto, che forse andiamo a incominciare. Forse.
Di sorti e destini meravigliosi
breaking the Wall in Berlin, 1989
I primi anni di questo ventunesimo secolo sono stati assai fortemente caratterizzati, a livello mondiale, dal fenomeno della riscoperta dei singoli patrimoni culturali tradizionali locali.
L’epoca immediatamente precedente li aveva, a partire dalla fine della guerra e fino a tutti i nostri anni Ottanta, drasticamente messi da parte a favore di valori ideologici e tecnologici decisamente globalisti, con il risultato unico e fulmineo di riuscire a cancellare quasi del tutto in pochi decenni, gabellandola come inattuale e perniciosa, buona parte dell’enciclopedia delle identità etniche preesistenti.
Quindi io, e come me praticamente ogni mio coetaneo ultracinquantenne di oggi, siamo cresciuti nel rifiuto della cultura locale e rurale, ai nostri occhi destinata inesorabilmente a soccombere a favore del modello uniforme di vita del nostro blocco, quello occidentale, cui solo poteva contrapporsi il parimenti tecnologico e conformizzante modello sovietico di oltre cortina, in un dualismo politico e sociale al quale nessuno di noi allora immaginava alternative.
Ma, a partire dalla fine del 1989, con il crollo materiale del Muro di Berlino, che simbolicamente prefigurava quello di tutto il sistema del socialismo reale causa sua drammatica implosione e sgretolamento dall’interno, i riferimenti e i valori incominciarono a cambiare. Perché ora non c’erano più due blocchi contrapposti l’uno all’altro, ma ne restava soltanto uno, quello capitalista neoliberista, al quale adesso intendeva conformarsi il postcomunismo: e la nuova stagione del capitalismo promuoveva la diversità e la diversificazione come leve di stimolo alla produttività e al benessere.
Questo è stato il nostro benvenuto nel Duemila delle mille lingue e culture, di nuovo autorizzate dall’alto ad esistere ed emergere, a patto che si muovessero nel quadro di integrazione per loro appositamente predisposto. Il che non è proprio il massimo, ma… è così che è andata ed andrà. E proprio in conseguenza di tale veloce rovesciamento di modelli, i localismi e la ruralità, lungi dall’essere perdenti e irrilevanti come sinora erano stati, improvvisamente diventavano di cruciale importanza per lo sviluppo sociale ed economico, ma attenzione! Dove erano frattanto finite tutte quelle tradizioni di cui ci eravamo frettolosamente disfatti e dimenticati?
E’ presto detto. Molte non c’erano più, annullate dall’oblio e dalla morte degli anziani loro ultimi detentori, altre sopravvivevano ancora nelle periferie culturali nel mondo. Si badi bene, non solo in quelle geograficamente estreme, ma anche nelle aree più remote e isolate d’Europa rimaste parzialmente immuni ai processi di modernizzazione del Novecento.
Come molta geografia interna d’Italia, tra cui in particolare il nostro Sud e la mia Irpinia, appunto.
Che adesso, riscontrato nuovo interesse e trovati nuovi interlocutori, possono finalmente tornare a raccontare la loro storia.
Attenzione anche qui però, a non commettere errori.
E l’abbaglio che tipicamente si prende in questi momenti ciclici di rivalutazione del passato è quello di guardare