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Misteriosa morte di una monaca
Misteriosa morte di una monaca
Misteriosa morte di una monaca
E-book189 pagine3 ore

Misteriosa morte di una monaca

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Info su questo ebook

Il vicequestore Luca Montessoro viene incaricato di indagare su tre fatti criminosi, collegati fra loro: un incendio doloso in un lussuoso albergo; la devastazione - per mano di ignoti vandali - dell’appartamento di un ex notaio dalla dubbia reputazione; l’omicidio di una monaca novantenne, ritrovata con la testa sfondata da una pesante statua della Madonna. Le indagini condurranno l’investigatore - coadiuvato da un variegato gruppo di pittoreschi collaboratori non ufficiali - attraverso un labirintico intreccio di storie, risalenti ad un lontano passato, fino allo scioglimento inatteso dell’enigma.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mag 2020
ISBN9788831673969
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    Anteprima del libro

    Misteriosa morte di una monaca - Grazia Tanzi

    Indice

    UNO

    DUE

    TRE

    QUATTRO

    CINQUE

    SEI

    SETTE

    OTTO

    NOVE

    Grazia Tanzi

    Misteriosa morte di una monaca

    Youcanprint

    Titolo | Misteriosa morte di una monaca

    Autore | Grazia Tanzi

    ISBN | 978-88-31673-96-9

    Prima edizione digitale: 2020

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Marco Biagi, 6 - 73100 - Lecce

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.

    UNO

    Delitto: azione criminale perpetrata con dolo o colpa.

    Nel nostro elegante quartiere, la notte del 30 maggio, mentre la città era in festa, venivano commessi, quasi simultaneamente, tre delitti. Un incendio doloso, un omicidio, un furto con scasso.

    La notte tiepida e serena già anticipava l'estate, una folla esultante per la promozione del Proteo, la squadra di calcio cittadina, si era riversata per le strade: a piedi, dietro lo stendardo vittorioso, scandendo la marcia a colpi di slogan; in auto, manifestando il giubilo con una fanfara di clacson e trombe con i drappi che garrivano fuori dai finestrini. Anche gli artisti erano al lavoro, muniti di secchi e pennelli si impegnavano a decorare muri, saracinesche, marciapiedi, con gli amati colori.

    Stefano e il suo cane, un gigantesco pastore maremmano, se ne stavano nella fascia sulle alture, seduto l'uno e sdraiato l'altro, sotto un ulivo.  C'era la luna piena, il prato era bagnato di luce fredda, gli schiamazzi arrivavano attutiti. «È la festa dei belinoni Platone, lasciamoli divertire.» Il bestione appoggiò la testa sulle zampe e chiuse gli occhi a significare il suo assenso. «Ma perché poi ti ho chiamato Platone? Aristotele mi è sempre piaciuto di più, da domani ti chiamerò Aristotele!» Il cane ringhiò sommessamente, Stefano rise e si voltò verso il mare. A ponente si levava un chiarore intermittente e irregolare, sembrava un falò. Obbelin il Mare brucia! Mare è il termine colloquiale con il quale la gente chiama il Grand Hotel Mare Nostrum, orgoglio del quartiere, reliquia decadente del tempo in cui questo era una vera città, autonoma e indipendente, testimone del passaggio di turisti illustri, ed ora in preda alle fiamme.

    I vigili del fuoco si erano aperti a fatica un varco nelle strade intasate dalle auto dei tifosi; le sirene, sovrastate dalla cacofonia assordante dei clacson, si sentivano appena. Al loro arrivo la cosiddetta Suite delle due Marchese, situata all'ultimo piano dell’ala ovest, era distrutta. Gli idranti erano riusciti a smorzare gli ultimi focolai impedendo che l'incendio si propagasse al resto dell'edificio. Il portiere di notte, al primo divampare delle fiamme, aveva radunato i clienti e il personale sulla terrazza al piano terra, e da qui li aveva condotti al sicuro sul Lungomare. Dopo un convulso appello aveva potuto rassicurare il Direttore che non vi erano state vittime. Al momento dello scoppio dell'incendio due dei tre clienti registrati, un'anziana coppia di svizzeri, si trovavano nella saletta del televisore al pianterreno; assorti nella visione di un vecchio film in bianco e nero, e non si erano neppure accorti di quanto stava accadendo: avevano attribuito il trambusto ai festeggiamenti sportivi e si erano docilmente lasciati condurre in salvo. Il terzo, o meglio, la terza cliente, la signora Luisa Bisso Perego, era fuori a cena con una bella signorina, come aveva detto ironicamente il ragazzo addetto ai bagagli. Tutti erano a conoscenza delle inclinazioni saffiche della signora, la quale quando non trovava di meglio ingaggiava una dama di compagnia, – la chiamava proprio così –, fra le inserzioniste del Lungomare o del viale della stazione.

    La dama di quella sera, che aspettava la signora Bisso Perego nella hall, era una bruna, non più molto giovane, appollaiata su un paio di scarpe da gran sera, dorate col tacco altissimo, fasciata in un abito nero, con inserti leopardati di seta artificiale sui fianchi e avvolta in un’ampia stola di maglina, anch'essa nera, tempestata di paillettes. Le chiome corvine erano raccolte sulla sommità del capo in uno chignon dal quale occhieggiava un fiore scarlatto. Stringeva fra le mani una pochette intonata alle scarpe e ad ogni movimento spandeva per un ampio raggio un intenso effluvio di violetta. La signora Luisa – capelli brizzolati cortissimi, scarpe basse, tailleur-pantalone grigio e sciarpetta di lamé – l'aveva accolta con un sorriso compiaciuto per tanta eleganza, e dopo averla baciata sulle guance era uscita con lei sottobraccio.

        Era quasi mezzanotte quando l'urlo agghiacciante di suor Giustina echeggiò per le stanze deserte di Villa Del Pilastro, sede dell'omonimo Istituto Scolastico, poco distante dall'Hotel, sulla strada per la collina. Le suore in preda al terrore erano balzate fuori dal letto; poi, in camicia da notte, scarmigliate e tremebonde, si erano radunate nel luogo da  dove era provenuto l'urlo – lo studio della Madre Superiora – al secondo piano, nell'ala nord della casa, dove erano anche le loro stanze. Le più anziane mostravano le sparute capigliature grigie, umiliate da tanti anni di compressione sotto il velo; la più giovane la chioma ancora folta e scura, offesa da sforbiciate maligne. Strette l'una all'altra guardavano con raccapriccio verso il pavimento: la Madre Superiora, suor Ildegarda, giaceva per terra accanto all'inginocchiatoio, con la testa sfondata dalla pesante statua di bronzo della Madonna del Gelo. Tutt'intorno un gran disordine. I cassetti dello scrittoio erano aperti ed il contenuto, sparso alla rinfusa, mostrava che qualcuno vi aveva nervosamente rovistato dentro. Il grande armadio di noce intagliato era stato in parte svuotato e diversi faldoni che vi si trovavano, ora erano vuoti e impilati in un angolo sul pavimento. Erano stati frugati alla ricerca di qualcosa che per l'assassino doveva essere importante, perché il loro contenuto ricopriva interamente il piano del grande tavolo accanto alla finestra. Una cassetta di legno, munita di lucchetto, contenente piccoli oggetti e carte sparse, era aperta su una sedia e non sembrava essere stata forzata.

    Suor Giuseppina, la gagliarda e rubesta tuttofare, passato il primo sgomento aveva preso, in mano la situazione. Aveva fatto ingollare una buona dose di Cordiale degli Angeli – quello dei frati del convento di Sant'Onorio che fa miracoli – alla povera Suor Giustina cui era toccata la macabra scoperta, quindi dopo essersi accertata delle sue condizioni, le aveva affidato le sorelle più anziane, suor Margherita e suor Antonia le quali, affette da una grave forma di demenza senile, dovevano essere sorvegliate a vista. Incaricò poi l'intellettuale del gruppo, suor Serafina, maestra diplomata, di telefonare alla Direzione Generale dell'Ordine per comunicare la notizia e ricevere istruzioni. Infine, prima di far sgomberare la scena del crimine, raccomandò di non toccare nulla come aveva imparato dai romanzi gialli che leggeva di nascosto perché credeva ancora nell'esistenza dell'Indice dei Libri Proibiti.

    Il vecchio ganimede Oreste Ricci, ex notaio, stava rientrando a casa dopo aver fatto le ore piccole al Cat in Love, un locale del centro dove si recava spesso per i suoi incontri galanti, come amava definirli nel suo linguaggio d'altri tempi. Con lui una ragazzona alta e bionda che aveva l'aria seccata di chi deve compiere un lavoro sgradito e spera di cavarsela in fretta. Lui invece era allegro ed eccitato, parlava forte nonostante l'ora tarda: come sempre l'elisir d'amore, alias citrato di sildenafil, stava facendo il suo dovere contro l'impotentia erigendi. Mentre saliva le scale gustava qualche bocconcino del piatto che avrebbe consumato nel suo appartamento, una strizzatina ai glutei sodi e sporgenti che aveva davanti a sé, un'esplorazione sotto la minigonna della ragazza che allungava il passo. Sul pianerottolo la sgradita sorpresa e l'immediata cessazione dei magici effetti della pillola blu: la porta spalancata, la serratura forzata, quasi divelta. E non sembrava la cosa peggiore: l'appartamento sembrava essere stato attraversato da un uragano, nessuna stanza si era salvata.

    Nulla era più al suo posto: mobili spostati, quadri strappati dalle pareti, cassetti rovesciati, contenuto di stipi e armadi sparso sul pavimento, poltrone e materassi sventrati, scaffali svuotati di tutti i libri, molti con le pagine strappate e le copertine staccate. Anche la cucina era stata saccheggiata, sul pavimento stoviglie in cocci, pentole, generi alimentari. Il locale maggiormente devastato, tuttavia, era quello che una volta era stato il suo ufficio, ora chiuso, e non più usato da anni. L'archivio, un modello di ordine ed efficienza, era ridotto ad una montagna di cartacce; in questa stanza l'ignoto vandalo aveva infierito con particolare violenza, strappando e distruggendo tutto ciò che era possibile. Il povero Oreste Ricci con le mani fra i capelli radi e tinti piangeva, ma la ragazza impietosa, lo aveva afferrato per il bavero e lo scuoteva energicamente: pretendeva la tariffa pattuita. Lui si era frugato in tasca e le aveva messo nella mano tesa alcune banconote accartocciate senza neppure contarle. La prosperosa bionda, soddisfatta, si era rapidamente dileguata.

    Stefano dormiva nel vecchio lettone che era stato dei suoi avi contadini e dei suoi genitori e nel quale era nato. Accanto a lui il cane Platone che, come sempre, aveva disobbedito all'ordine di non muoversi dal tappeto che costituiva il suo giaciglio notturno. Forti colpi alla porta accompagnati da urla lo fecero drizzare a sedere: si appoggiò ai cuscini e restò fermo per qualche istante con la testa pesante di sonno. Il cane non abbaiava, segno certo che non si trattava di un estraneo. Quando aprì si trovò davanti il conte o, per i più democratici, il professor Alberico Maria Del Pilastro, insegnante di matematica e fisica al Liceo Scientifico Ada Byron e suo amico d'infanzia: pallido, tremante, con lo sguardo allucinato, squassato dai singhiozzi e in preda al delirio.

    Stefano e Alberico erano amici dall'infanzia nell'originario significato del termine: l'età in cui ancora non si sa parlare. Alberico era di famiglia nobile: aristocrazia recente, direbbe qualcuno storcendo il naso, non tutti i nobili sono uguali. Stefano era di famiglia contadina; anche questa è una forma di nobiltà, direbbe qualcun altro, e più utile alla società. Erano nati nello stesso anno e nello stesso mese, a qualche giorno di distanza; sotto due distinti segni zodiacali direbbe qualcun altro ancora, e quindi molto diversi fra loro. Sarà. Alberico era figlio unico del conte Agostino Maria e di Sheila Bennett, cittadina britannica non nobile di sangue, ma di carattere e d'aspetto. Anche Stefano era figlio unico: di Luigi Mantero, discendente da un lignaggio di vigorosi contadini, e di Armida Rossi, donna schietta e generosa.

    Pare che il capostipite della casata Del Pilastro, Ugo Maria, avesse ricevuto il titolo di conte in un anno non precisato del secolo XVIII , da un Savoia non meglio identificato, per qualche merito di guerra altrettanto vago. La tradizione orale famigliare – più che altro una leggenda, tendente ad avvalorare una maggiore antichità del casato – vantava il possesso di un castello situato in Piemonte e andato distrutto dal fuoco durante una battaglia. In quella tragica occasione erano andati perduti i più antichi e rari documenti di famiglia e tutti i ritratti dei suoi illustri componenti. Dal momento che i Del Pilastro non si distinsero in seguito per meriti militari o civili di qualche rilievo, nessuno storico fu invogliato a compiere ricerche e nessuno contestò le loro affermazioni che erano indifferenti ai più.

    Le notizie certe e documentate – il titolo di conte conferito dal re di Sardegna a un Del Pilastro per meriti culturali (ogni famiglia ha la sua pecora nera) – risalivano agli anni '30 dell'800, periodo in cui vennero a stabilirsi nel nostro quartiere, all'epoca una rinomata cittadina balneare. Stabilirono la loro residenza nella grande Villa Del Pilastro che, in virtù di una donazione, sarebbe divenuta in seguito la sede dell'omonimo Istituto Scolastico. La sontuosa dimora era stata fatta costruire dall'allora detentore del titolo, Pietro Maria, con il denaro della ricca dote della moglie, Antonietta Grillo, figlia di un commerciante di spezie e generi coloniali. Da allora la virtù nella quale eccelsero fu la strategia matrimoniale: tutti i Del Pilastro, maschi e femmine (quelle non destinate al convento) si accasarono sempre molto convenientemente con ricchi borghesi che consentirono loro di mantenere la dignità e il prestigio nobiliare.

    Tommaso Maria Del Pilastro aveva sposato Giovanna Traverso, figlia di un facoltoso armatore. Dall'unione era nato Agostino Maria, padre di Alberico. Era un uomo di pessimo carattere, arrogante, violento, donnaiolo e scialacquatore. Nel contratto matrimoniale la famiglia della moglie, molto prudentemente, gli aveva accordato un appannaggio sufficientemente adeguato alle sue pretese aristocratiche, salvaguardando però il patrimonio della propria figlia e degli eventuali nipoti. Giovanna si stancò ben presto di lui e si trasferì nel capoluogo, in un elegante palazzetto prospiciente il porto, portando con sé il figlio. Questi, per salvare le apparenze, faceva saltuariamente visita al padre. Dire che fra i due c'era un rapporto difficile è un caritatevole eufemismo. Poche persone, per non dire nessuna, frequentavano volontariamente il vecchio conte Del Pilastro; i suoi rapporti umani erano esclusivamente di servizio, non contava amici fra le sue conoscenze.

    Agostino  scoprì ben presto la vocazione marinara, interruppe gli studi e cominciò a far pratica sulle navi del nonno materno. La sua carriera di navigante venne bruscamente interrotta dalla guerra. Ma dopo pochi anni, appena tornata la pace, riprese ad andar per mare. Sposò Sheila Bennett – la graziosa e colta figlia di un pastore anglicano, ma libera pensatrice – che aveva conosciuto durante uno dei suoi viaggi. Alberico nacque circa due anni dopo. Per qualche tempo la famiglia rimase in Inghilterra, poi, ancora una volta, si rese necessario il ritorno in patria. A Sheila, cagionevole di salute, venne prescritto un clima più salubre di quello londinese; Agostino Maria dovette lasciare la navigazione per coadiuvare il nonno, ormai anziano, nella conduzione dell'impresa. Giovanna fece appena in tempo a conoscere il nipotino, e dopo qualche mese morì per una febbre cerebrale.

    Tommaso Maria, manifestando afflizione per la perdita della consorte – che in vita aveva sempre bistrattato – e colpito da un improvviso attacco di amor filiale e di affetto nonnesco, volle che il figlio si trasferisse con la famiglia nella grande villa. Agostino accettò a malincuore perché non si fidava del padre e sapeva che non avrebbe cambiato carattere e atteggiamenti. Non sbagliava. La vecchiaia non aveva mitigato la sua indole, i suoi vizi anziché attenuarsi si aggravavano diventando sempre più dispendiosi, la rendita di cui disponeva non gli bastava mai ed aveva cominciato a fare debiti. Sperava dunque di ottenere qualcosa dal figlio o, ancor meglio, di mettere le mani, contando su qualche astuto cavillo, sull'eredità della moglie che secondo le ferree disposizioni del contratto matrimoniale non gli spettava.

    Fin dalle prime settimane la convivenza fu disastrosa. Il vecchio era stizzoso e irritabile; il piccolo Alberico, che aveva poco più di un anno, lo infastidiva, qualunque cosa facesse. Si innervosiva se piangeva; prendeva a calci i suoi giocattoli se li trovava in giro; non lo voleva a tavola perché i bambini devono mangiare in cucina con la servitù. Persino le sue risate lo disturbavano. Sheila cercava di fargli vedere il bambino il meno possibile, visto che la casa era così grande, ma neanche questo serviva:

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