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Black Hills
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E-book124 pagine1 ora

Black Hills

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Info su questo ebook

Nord America, 1876. Tra le ombre della frontiera e i falò di rivolta dei nativi, il veterano della guerra civile Giuseppe Garibaldi invecchia nella sua leggenda. La visita inattesa del pistolero-stregone Ofiuco riporterà l’eroe dei Due Mondi a imboccare il sentiero tortuoso della sua ultima, grande avventura.
Al seguito del Settimo Cavalleggeri del colonnello Custer, Garibaldi e Ofiuco affronteranno la lunga marcia verso Little Bighorn e un’antica maledizione che dalle riserve indiane minaccia di travolgere la civiltà.
Una storia di “nostrano” West, polverosa e onirica, dove anche i grandi eroi abbandonano l’epica per morire da uomini.
LinguaItaliano
Data di uscita24 gen 2019
ISBN9788831982061
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    Anteprima del libro

    Black Hills - Luca Mazza

    © Luca Mazza

    Illustrazione di copertina di Jacopo Starace

    Logo Moscabianca Edizioni realizzato da Veronica Carratello

    © 2019 Moscabianca Edizioni

    ISBN 9788831982061

    www.progettomoscabianca.it

    info@progettomoscabianca.it

    Luca Mazza

    Black Hills

    Indice

    Copertina

    Colophon

    Frontespizio

    Prologo

    Capitolo primo. Red Jo

    Capitolo secondo. Rompete le righe

    Capitolo terzo. Polvere e presagi

    Capitolo quarto. Son of the Morning Star

    Capitolo quinto. Risorgimento!

    Capitolo sesto. Loro sono Legione

    Capitolo settimo. Resa dei conti a Deadwood

    Epilogo

    Breve cronistoria immaginaria di Giuseppe Garibaldi

    A Lisa, la mia Amore Lungo

    È la porta a scegliere, non l’uomo.

    Jorge Luis Borges

    [...] Ma se non agisci bene, il peccato

    è accovacciato alla tua porta [...].

    Genesi 4,7

    Stazione di posta di Lamar, Missouri

    16 settembre 1868

    Caro Menotti, mi hijo!

    Ti scrivo nel giorno del tuo compleanno, prima che la frontiera mi smarrisca a ovest con la donna che amo.

    Il paese è un fragore di carrozze che calpestano l’orizzonte, un fumo di rotaie che ripetono labirinti di ferro.

    Sento avvicinarsi l’antico, my son.

    Ho rimesso ogni incarico con la Legge e ceduto la stella a petti più duri del mio, ché insaponare corde purtroppo non è materia per un onesto brigante.

    Mi porto dietro l’odore del fieno, l’eco delle cariche e un figlio nato da un inverno. Nel vederlo in grembo alla madre, che doma le selle come la tua, mi sovviene la tua infanzia a Mostardas, un fiume di vita fa!

    A quante sere, Domenico, siamo sopravvissuti! Incrosti del sangue dei vinti e di battaglie che fanno ancora tremare i polsi. L’aria lampeggiava di gloria quando espugnavamo forti e porti di entrambi i mondi.

    Se guardo a est, non provo rimpianto. Prima di morire ho avuto l’onore di combattere accanto ai miei figli e insegnato loro a essere magnanimi, ché il valore di un soldato si sposa sempre alla sincerità.

    È dovere dei liberi che intendono star tali accorrere ovunque si cade per la giustizia: Cristo gettò le radici dell’uguaglianza tra gli uomini, le nostre spade falciano le malerbe che la strozzano.

    Giustizia! Mai parola fu tanto santa e tanto irrisa dal potente.

    Diffida sempre della diplomazia, Menotti, e non prostituirti ai suoi artifizi. Confida invece nell’audacia delle armi e nella concordia tra gli spiriti.

    Non rinnegare mai nulla! Il progresso è figlio delle baionette, e la tua giovinezza non mancherà il giorno in cui campane e cannoni verranno fusi per forgiare un secolo di diritti.

    Dalla mia vecchiezza, di contro, desidero solo accendere il lume per la cena e cuocere il granturco nel latte come tanto aggradava a te e Anita. Dovrò vedermela con il tempo, quell’immortalità inesorabile che annega mondi e leggende, e si misura con un sigaro.

    Dalla mia avrò i vessilli e i ricordi dei prodi cui fui duce. L’ombra di Bixio, Kearny, Nullo, Bronzetti e di quelli che oggi sono storia. Ma non è questa l’ombra che temo.

    L’uomo è misura dell’universo, ma esistono trame nell’universo che sono ignote all’uomo. Ombre nere da cui il piombo o la croce non sono in grado di proteggerti…

    Un giorno, se mai sarà, dovrò narrarti cosa accadde davvero nelle lagune del Tramandahy e nel tremendo Sannio. Certo, non oggi. Sono noto per rompere i coglioni a mezza umanità – e spaccare teste all’altra mezza! – ma guastare il compleanno di un primogenito è una colpa di cui non mi macchierò.

    La nostra diligenza sta per muoversi, mi hijo. L’Ovest serba per me un tramonto e una chimera. In cima al palo, le stelle garriscono nel turchino d’America.

    Se avrai il giudizio di servirle ancora, Menotti, fallo con onore e lealtà. Ma tieni sempre a mente che il colore della libertà è uno e uno solo, ed è il rosso del sangue di chi si batte per essa.

    Salutami Ricciotti, e porgigli l’addio paterno di questo vecchio corsaro.

    Tuo padre,

    Giuseppe

    Prologo

    Prima di dare una risposta all’Uomo Bianco, le tribù che vivevano nell’antico costume uscirono dalle riserve quando il cavallo muta il pelo, e seguirono la pista del bisonte.

    Indossavano la forza e i mocassini degli avi che, fortunati, ignoravano i cammini di ferro e i gioghi della Frontiera.

    Che significato ha sfregiare la prateria con serpenti di rotaie e porre confini che qualcun altro, più infinito di te, ha già tracciato all’inizio del mondo?

    Il verde delle praterie e il rosso delle cacce testimoniavano in maniera lampante l’esistenza del Grande Spirito.

    Gli Uomini Liberi non avevano altra cattività se non quella del polline, del germoglio, della rugiada. Cacciavano nell’oro del sole e dormivano senza paura sotto lune d’ottone.

    Le frecce saettavano tanto rapide da far sanguinare il vento: nessun drago di ferro e fumo offuscava il cristallo del giorno. Il paradiso era la terra e un carniere pieno, finché l’Uomo Bianco era rimasto al di là delle Colline Nere.

    Castoro Albino e Abbaio Fedele lo conoscevano poco, benché tra la pelle e l’anima scorresse parte del suo sangue. Erano frutto della stessa donna, una colona yankee caduta nell’imboscata di Frullo di Corvo, tredici estati prima.

    Il loro padre era un arciere orgoglioso, collezionista di scalpi, fiero capolancia dei Piedi Neri.

    Nove lune dopo, i due avevano cantato il primo vagito all’unisono nella doglia del teepee, uccidendo la madre che fino a quel momento era stata nutrita a carne cruda di donnola.

    Ma Frullo di Corvo e la Tribù, oggi avevano due nuovi guerrieri, ansiosi di macchiare le pianure della loro prima caccia.

    Pomeriggio

    I boschi sono promontori stormenti su onde d’erba, come oceani di molte sfumature di verde. Sembrano mani di giganti, callose di massi e fronde, spiegate sul corsivo scintillare del Bighorn.

    Il letto del fiume, argento in ciottoli, divideva Castoro e Abbaio dal variopinto serraglio di tende. Lakota gomito a gomito con i Cheyenne, l’accampamento di Coda Chiazzata a uno sbuffo di calumet dalle pelli steccate dei Sans Arcs e dei selvaggi Irochesi.

    L’Uomo Bianco aveva riunito i mille echi della tradizione nello stesso tuono, la sofferenza di qualcuno è la sofferenza di tutti.

    La brezza serale portava nubi da ovest come branchi di bisonti gassosi, e l’ultimo vibrare delle carabine e della libertà.

    «Cortecce e squame!» brontolò Abbaio Fedele.

    Da giorni intrecciavano fascine e caschi di salmerini per i guerrieri che rientravano, affamati, da memorabili battute.

    Castoro snudò la lama e sbuzzò con rabbia un pesce-gatto.

    «Il mio arco è finito, i tendini sono giuntati», ringhiò con la cupidigia del giovane puma, osservando il greto del torrente arrossarsi di agonia. «Con la prossima aurora seguirò Frullo di Corvo, e mi farò Uomo».

    «Lui lo sa?» lo punzecchiò il fratello.

    Castoro agitò il pugnale imbrattato di spasmi come un indice accusatorio. «Diventerò uomo prima di te, lo sai questo?»

    Abbaio montò sui calcagni, sovrastandolo.

    Era più alto e spalluto del gemello, in compenso più roccioso e tarchiato. Vestiva un giacchetto di antilope e portava un diadema di piume sul petto dipinto.

    La sua voce flautò beffarda e musicale: «Io sarò comunque più Uomo di quanto mai lo sarai tu!»

    Castoro gli si avventò contro e lo trascinò nella sterpaglia. Succedeva spesso che s’azzuffassero, praticamente in tutte le pause tra le loro mansioni.

    Castoro gli pressò lo scannatrote sulla gola. Era vischioso, tagliente.

    «Ti conviene arrenderti, lombrico», intimò in un ansito rapace.

    Abbaio parve cedere, poi il polso corse lesto alla riva e una mano di detriti accecò l’impudenza di Castoro.

    «Infame!» inveì, lasciandoselo sfuggire. «Ora ti sistemo sul serio!»

    «Guarda, su quello sperone!»

    Il tono di Abbaio adesso bruciacchiava di impazienza.

    «Ma come posso, se mi hai orbato?» mugolò Castoro, tormentandosi gli occhi grigi con le nocche spellate.

    Colse un guizzo di ruggine argentata dileguarsi nella cortina di rovi che barbava la collina.

    «Cos’era?» sibilò, reattivo come una sentinella. «Una tamia?»

    «O una volpe», lo

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