Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il sangue e la folgore
Il sangue e la folgore
Il sangue e la folgore
E-book381 pagine5 ore

Il sangue e la folgore

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Fantasy - romanzo (310 pagine) - Due destini, una sola battaglia.


Roma, per la prima volta nella sua storia, deve affrontare un nemico terribile: le Chimere, mostri apparentemente invulnerabili. Il conflitto s’intreccia con la vita di due ragazzi: Gaelia, una giovane patrizia dotata di misteriosi poteri, e Marco, abile ingegnere devoto alla Summa Ratio, figlio illegittimo del Re Marco Antonio. Separati dalle acque impetuose del destino e dagli intrighi politici, affronteranno un percorso che li porterà entrambi a combattere contro le Chimere. L’alleanza tra la razionalità e le forze dell’istinto e dell’inconscio sarà sufficiente per sconfiggere la mostruosa minaccia?


M. Caterina Mortillaro è nata a Milano. Laureata in Lettere classiche, è insegnante, giornalista pubblicista, traduttrice e dottore di ricerca in antropologia.

Nel campo della narrativa ha pubblicato un romanzo contemporaneo per ragazzi, Gli amici della torre normanna (Il Rubino) e numerosi racconti di fantascienza, tra cui Quid est veritas?, secondo classificato al Premio Urania Short, Facciamo venerdì?, pubblicato sul Millemondi Urania Distòpia e Mystika, apparso anch’esso su Urania. Ha curato insieme a Silvia Treves l’antologia DiverGender. Ha al suo attivo anche il romanzo di fantascienza umoristica Cicerone. Memorie di un gatto geneticamente potenziato, il noir Bollywood Babilonia (Premio Delos Passport 2018), il fantasy umoristico La compagnia del Pisello, finalista al Premio Italia 2021.

Devaloka. Il pianeta degli dèi, un planetary romance con elementi di antropologia e religione indiana, ha vinto il Premio Odissea 2019. Questi ultimi sono tutti editi da Delos Digital. A dicembre 2021 è uscito anche il romanzo e Kali Yuga, un fantathriller con venature mistiche (Calibano Editore).

LinguaItaliano
Data di uscita22 feb 2022
ISBN9788825419238
Il sangue e la folgore

Correlato a Il sangue e la folgore

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il sangue e la folgore

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il sangue e la folgore - M. Caterina Mortillaro

    1

    Cartagine, 608 A.U.C.

    Il tramonto era spettacolare quella sera. Il cielo infuocato tingeva di rosso e arancione ogni cosa; le mura inespugnabili della fiera Cartagine, la distesa del mare simile a magma sulla quale ondeggiavano le navi romane, la pianura dove era stato eretto l’accampamento degli assedianti.

    Il console Publio Cornelio Scipione Emiliano, che pure era un uomo devoto della Summa Ratio, era inquieto e continuava a passare le dita su una statuetta che teneva in mano, in un gesto che qualcuno avrebbe potuto definire superstizioso. Si trattava di una raffigurazione di una dea agreste, Cerere, che gli aveva regalato una vecchia balia e che lo aveva accompagnato tutta la sua vita.

    – Che dicono gli auspici? – chiese non appena Arunthe, l’indovino etrusco che viaggiava con lui fin dalle prime battaglie, ebbe fatto il suo ingresso nella tenda. Anche questa era una concessione alla superstizione che lo infastidiva ma di cui non sapeva fare a meno.

    L’uomo, un tipo magro e scuro, sorrise. – Il volo degli uccelli è favorevole.

    – È questa luce che mi preoccupa – disse allora Cornelio. – Sembra che ogni cosa sia intinta nel sangue.

    – Dici bene – rispose una voce dal forte accento egizio. Si trattava di Amun, che ormai a Cartagine e in tutto l’Impero di Mem era noto come il Traditore. Anche se l’intero Egitto era passato dalla parte di Roma, infatti, il tradimento di quell’uomo andava oltre perché riguardava tutta la sua razza. Cornelio represse il disgusto di fronte al suo aspetto sgradevole. Si diceva che la Ba (il nome che i Mem usavano per designare la Bestia) si rispecchiasse nelle fattezze del suo portatore e in effetti i pochi che avevano visto quella che viveva nel ventre di Amun sostenevano che fosse un avvoltoio o addirittura un’arpia. Persino la sua voce era stridente, come se facesse fatica a uscirgli dalla gola e, nello sforzo, raspasse con gli artigli su una superficie metallica. Il console si sarebbe disfatto di lui da tempo, ma la guerra durava da un secolo e non ci si poteva permettere di andare per il sottile.

    Cartagine dove essere distrutta.

    Era l’ultimo baluardo al di qua delle Colonne d’Ercole, oltre che il più vicino a Roma, di un impero vastissimo, che si estendeva dai deserti dell’Arabia fino alla Palude Meotide, per poi comprendere l’Egitto, la Mauritania, la Spagna e persino le Isole Fortunate. Purtroppo era apparso subito evidente che un tale impero non poteva coesistere con quello di Roma: lo minacciava economicamente, militarmente e soprattutto spiritualmente. Il Senato, dopo avere visto coi suoi occhi alcuni prigionieri di guerra che vomitavano la loro Bestia e dopo aver raccolto le testimonianze di centinaia di soldati traumatizzati, era stato inflessibile. I Bestiali, come venivano definiti a Roma coloro che possedevano una natura animale dentro il loro corpo umano, andavano sterminati, perché non insozzassero più la terra e non minacciassero coloro che vivevano secondo la Summa Ratio.

    Vedendo che Cornelio non rispondeva, ma restava pensieroso, Amun continuò: – Il rosso di questo tramonto allude a tre cose: al sangue che sarà versato, al fuoco che distruggerà la città e al colore della lama che ti darà la vittoria.

    Detto ciò fece cenno a un ragazzo, un novizio del tempio cui Amun afferiva, di mostrare al Console la spada, avvolta in un panno di fine tessuto ricamato. Con delicatezza, il sacerdote ne scostò i lembi. Non era la prima lama scissoria che Cornelio vedeva, ma quella era la più splendente e al tempo stesso inquietante che avesse mai visto. Era costituita da un materiale traslucido, simile a vetro, ma rosso intenso e, in quella luce spettrale, pareva viva. Il suo istinto gli fece desiderare di ritrarsi di fronte a tanto potere, ma la sua volontà gli impose di resistere.

    – Questa spada – riprese Amun – è il più puro nonché il più potente strumento di morte per ciò che voi chiamate Bestia. È stata forgiata nei vulcani delle Isole Fortunate. Alla sua sola vista i Figli di Ashterot si ritrarranno in preda al terrore.

    Cornelio possedeva già un pugnale di quel materiale, fornitogli proprio dal sacerdote, ma ciò che Amun gli offriva quel giorno era un’assoluta meraviglia. La lunghezza della lama gli avrebbe consentito di colpire più agevolmente le Bestie che avesse incontrato sul suo cammino, durante il combattimento. Finora le battaglie erano state affrontate con una tecnica che aveva guadagnato alla gloriosa Roma l’epiteto di Codarda. Infatti, i soldati non si avvicinavano ai Bestiali, finché potevano, ma li colpivano con lance, frecce e proiettili, ben consci che non vi erano armi umane capaci di uccidere una Bestia e che l’unica possibilità era colpire i Bestiali a distanza. Nel corpo a corpo, infatti, le Ba avrebbero difeso i loro padroni come cani ben addestrati e invulnerabili.

    Il resto dell’esercito, invece, costituito da comuni mortali, veniva isolato e attaccato in modo tradizionale. Purtroppo, però, le Regine di Mem, lungi dall’essere stupide, avevano cominciato a schierare, mescolati ai soldati comuni, combattenti dotati di Ba, che si camuffavano aspettando il momento opportuno per liberarla. In questo modo più volte i legionari avevano dovuto affrontare un pericolo inaspettato. Essere codardi, dunque, era una necessità, una scelta che aveva evitato il ripetersi della sconfitta di Canne. In quei neri giorni, i campi di battaglia erano stati coperti da un tappeto di cadaveri di legionari sui quali le Ba avevano danzato una danza macabra, facendoli a brandelli con le loro multiformi fauci.

    Pur con ripugnanza, dunque, la mattina dopo, all’alba, Cornelio impugnò la spada fiammeggiante, guidando di persona un drappello di pochi valorosi armati di pugnali scissori. Attraversarono impavidi l’esercito nemico, già parzialmente falciato dalle frecce, dalle lance e dai proiettili incendiari scagliati con le catapulte. E, come aveva previsto Amun, le Bestie tremarono alla vista della spada, e così i loro proprietari. Ma c’era da ammettere che erano valorosi e non indietreggiarono neppure alla prospettiva del sommo sacrificio. Sapevano, infatti, che quella era l’ultima battaglia, quella decisiva. Cartagine era allo stremo dopo il lungo assedio. Non avrebbe resistito una settimana di più. Si lottava per la sopravvivenza o per una morte onorevole.

    C’era un’oscura soddisfazione nel sentire le Bestie ululare di dolore quando venivano ferite o nel vedere afflosciarsi i loro proprietari come sacchi vuoti quando venivano uccise. Cornelio si abbeverò alla fonte della violenza e avanzò senza pietà. Tuttavia, la sua marcia di morte si arrestò di fronte alla regina Elissa, bellissima e fiera, con le trecce ondeggianti al vento e con l’armatura lucente. L’accompagnava la sua Bestia, una pantera nera africana dalle lunghe zanne e dal pelo lucente come una notte stellata. La magnificenza della nemica lo paralizzò, letteralmente.

    Come sempre, lei lo fissò senza timore, come se in lui riconoscesse un eguale, degno di rispetto, sebbene sprovvisto di Ba.

    – Amun ha superato se stesso! – gridò a un tratto. – Che Ashterot lo maledica e maledica anche te!

    Cornelio provò un brivido a quelle parole, ma mascherò lo sgomento sotto una facciata impassibile. – Per una volta combattiamo ad armi pari, regina. Ritira la tua Bestia e io rinfodererò la spada.

    – La mia Ba non ti attaccherà, ma tu sei così certo di potermi sconfiggere senza di quella? – chiese Elissa.

    La regina era una valorosa guerriera e Cornelio lo sapeva. Nessuna donna romana poteva essere paragonata a lei. Lui annuì spavaldo e cominciò un duello feroce, senza esclusione di colpi, durante il quale il Console temette di soccombere più di una volta. Alla fine, però, riuscì a inchiodare la donna contro il terreno, con la spada alla gola. In quell’istante il mondo parve fermarsi. La Bestia ringhiava terribile pur nel frastuono della battaglia che stava volgendo a favore di Roma. Sarebbe bastato che la regina desse un comando alla possente pantera perché quella balzasse alla gola di Cornelio uccidendolo, ma non lo fece e la Ba restò al suo posto.

    – Hai vinto, uomo di Roma – ammise a quel punto Elissa. – Che aspetti? Finiscimi. Non sopravvivrei comunque alla distruzione del mio mondo, ai miei sudditi venduti schiavi, alle donne violentate, ai templi profanati. Già il mio cuore sanguina per la morte del mio compagno. Uccidimi.

    Cornelio esitò. La legge di Roma prescriveva di avere pietà dei sottomessi e debellare i superbi. Elissa era di certo una donna superba, ma toglierle la vita equivaleva a un atto di pietà. E poi c’era la prospettiva del trionfo, con la regina e la sua Bestia al guinzaglio. Così il Console ritrasse la lama.

    – Sei peggiore di quanto pensassi, Cornelio. E vai dicendo di essere uomo d’onore!

    – Taci, donna, non sai quel che dici.

    – Lo so bene, invece. Come so che tu stai combattendo contro la tua stessa stirpe.

    – Non dire sciocchezze. Vaneggi. Cerchi di indurmi ad ucciderti, ma non lo farò. Sarebbe troppo comodo per te.

    – Io dico la verità – lo sfidò la regina. – Sei tu che non vuoi vederla. Se tuo nonno, Emilio Paolo, che venne a minacciare l’Impero di Mem prima di te e fu trucidato a Canne, fosse vivo, te lo confermerebbe. Nelle tue venne scorre il sangue dei Figli di Ashterot.

    – Menti! – gridò Cornelio.

    Ma lei continuò, pur coperta da ferite, pur immobilizzata contro il suo calcagno. – Tuo nonno, Emilio Paolo, che pure era così integerrimo, quando combatté contro gli Illiri, si invaghì della regina Teuta, la cui Ba era un lucente pesce dalla lunga spada. Da lei generò un bambino che tuo nonno, non avendo figli maschi, rapì dal seno materno e fece passare come figlio della propria moglie. Ecco perché si dice che in camera da letto tua madre vedesse spesso un serpente quando giaceva con tuo padre. Era la Ba di tuo padre.

    – Menti! – gridò di nuovo Cornelio, paonazzo.

    Anche questa volta Elissa non si fece intimidire, anzi sul suo viso comparve un ghigno beffardo. – Anche se il Dono di Ashterot in te non si è manifestato, esso scorre nel tuo sangue e scorrerà per le future generazioni. Un giorno si manifesterà. E così farà coi figli degli stupri dei tuoi soldati. Roma si coltiverà in seno le Bestie che tanto teme. E quando esse verranno alla luce dovrà decidere se ucciderle uccidendo se stessa o invece accettarle.

    A quel punto, dalle labbra del Console uscì un urlo che pareva il muggito di un toro infuriato e si udì fino ai confini del campo di battaglia. Quindi la spada fu sollevata e piantata più volte nel petto della regina, come se questo potesse uccidere anche l’eco delle sue parole.

    Da quel momento Cornelio fu spietato. Con l’aiuto di Amun e di un gruppo di sacerdoti traditori, cominciò a rastrellare ogni angolo dell’Impero di Mem, uccidendo senza pietà uomini, donne, vecchi e bambini. Se c’era il sospetto che il figlio di un soldato fosse nato da un’unione immonda con una Bestiale, esso veniva passato a fil di spada. Per evitare il propagarsi della sua stirpe, non ebbe figli, ma non osò svelare il peccato del loro illustre antenato e la vergogna del padre. Il fratello Fabio Massimo e il nipote Quinto non furono quindi toccati dall’epurazione da lui condotta, nella speranza che la maledizione di Elissa non si avverasse.

    Quando i Bestiali furono dichiarati estinti al di qua delle Colonne d’Ercole, lottò perché nuove spedizioni venissero fatte nelle terre dove, affermava, erano fuggiti i Bestiali, prime tra tutte le Isole Fortunate. Il Senato, però, non gli diede ascolto. Egli, dunque, armò tre navi e arruolò un manipolo di uomini disposti a tutto allo scopo di stanare gli ultimi Figli di Ashterot. Non ebbe successo. Le sue navi naufragarono in una terribile tempesta nell’Oceano Atlantico.

    Di tutto ciò, però, non si sa nulla perché venne stabilita dal Senato una damnatio memoriae: ogni traccia dei Bestiali fu cancellata dai libri di storia, dalle cronache e dai documenti ufficiali come se non fossero mai esistiti, anche se di sera, qualche volta, le balie, per spaventare i bambini parlavano delle Bestie feroci che uscivano dalle bocche degli Uomini-Bestia e divoravano i nemici.

    2

    Terre di Tartar, 723 A.U.C.

    Il cielo era una matassa di nembi neri, che correvano arrotolandosi l’uno sull’altro sopra una pianura sterminata. L’uomo si strinse nel mantello, ringraziando i suoi dèi per gli stenti patiti nell’infanzia. Suo padre, quando gli poneva l’aratro sulla schiena, come una bestia da soma, ripeteva sempre che non c’era altro modo che il dolore per fortificarsi. Lo diceva anche quando lo batteva, quando gli negava il pane quotidiano, quando lo trascinava per i capelli fino al pozzo e lo costringeva a lavarsi all’aperto, nel mezzo dell’inverno.

    Ora capiva che era necessario. Il metallo era stato purificato prima nel crogiolo e poi sull’incudine, colpo su colpo.

    – Eccolo – disse la sua guida indicando una forma indistinta che si ergeva nel mezzo del nulla. Un palo, con un teschio conficcato sulla cima e nastri sbiaditi che sbattevano al vento. – Il limite.

    In quella semplice parola s’annidava un mondo.

    La guida era stata ben pagata ma non sarebbe andata oltre. Non se avesse avuto la possibilità di scegliere.

    – Non vedo mostri all’orizzonte – disse l’uomo con tono beffardo.

    – Vivono in tane sotto terra, che si collegano con gallerie alle viscere del regno dei morti. Sbucano quando meno te l’aspetti, ti afferrano e…

    La guida s’interruppe. La lama dell’uomo era appoggiata alla sua gola.

    – E dimmi, fiutano l’odore del sangue?

    – Hai giurato sugli dèi di lasciarmi andare con la mia ricompensa. Hai giurato!

    Il ragazzo aveva visto le sue insegne sacerdotali. Non poteva credere che un sacerdote bestemmiasse le sue divinità.

    – Gli dèi mi hanno mandato a compiere quest’impresa – gli spiegò. – Mi hanno istruito in ogni cosa. Forse che i capretti si lascerebbero condurre sull’altare se l’officiante non li blandisse?

    La guida ammutolì, cinerea nella luce fredda dell’inverno. Poi tentò uno scatto, ma l’uomo era più veloce e meglio allenato. Gli torse il braccio, mentre la punta della lama faceva stillare alcune gocce rosse.

    – Ti ridarò il denaro – disse il poveretto, con autentica disperazione. – Non ti risparmieranno. Neanche i tuoi dèi potranno salvarti. A meno che tu non sia devoto delle divinità dell’Orco.

    – Chi ti dice che non sia proprio così?

    Il sangue continuava a fluire, scorrendo lungo la tunica pesante, gocciolando sul terreno riarso e gelido, duro come roccia. Proprio in quel momento iniziarono a scendere le prime gocce.

    – Andiamo! – disse l’uomo, trascinando la guida con sé.

    – Uccidimi! – gridò a quel punto il prigioniero.

    – Grida! Bravo! È ciò che mi serve!

    Il ragazzo impallidì, mentre la consapevolezza si faceva strada nella sua mente.

    Ormai pioveva a dirotto. Ogni tanto la terra tremava e un fulmine squarciava il buio calato anzitempo sul mondo. In quei momenti la pianura infinita si accendeva di ombre spettrali. Tempo di lupi. Tempo di mostri.

    Quel pensiero galvanizzò l’uomo. Allungò il passo, trascinandosi senza sforzo la preda, mentre il cielo vomitava tutta la sua ira su di loro, inzuppandoli.

    Ogni tanto si fermava, ma non per stanchezza, solo per trafiggere la guida nuovamente e assicurarsi che il sangue continuasse a fluire. Poi sollevava il viso alla pioggia e gridava: – Dèi, sono qui, al vostro servizio. Fate ciò per cui mi avete mandato!

    Al crepuscolo la pioggia cessò e l’uomo si concesse di sedere nel fango a consumare le sue gallette e la carne secca. Perché non erano venuti a prenderli? Che aspettavano? Che fosse tutta una leggenda senza fondamento? Tutta quella strada per nulla?

    Sì assopì con quei pensieri che gli rosicchiavano la mente. Ma, all’improvviso, fu svegliato da un sussulto della terra, che si spaccava svelando una massa informe.

    L’uomo contemplò la cosa che garriva nella notte e rise soddisfatto. – Hai fame? – gridò.

    La cosa brontolò di nuovo. Un orecchio meno affinato avrebbe scambiato quei suoni per versi inarticolati, ma lui vi distinse alcune parole in latino. – Non hai paura?

    – Hai fame? – ripeté quindi l’uomo passando dal tracio al latino. – Sono venuto a portarti un’offerta, o magnifico. E una proposta.

    Si alzò in piedi e costrinse la guida a fare altrettanto.

    Sorsero altre figure, come se la terra si fosse improvvisamente riempita di bubboni purulenti. Tre in tutto.

    – Chi sei? – gridò una delle creature, con voce più umana della prima.

    – Sono colui che vi porta su un piatto d’argento il vostro glorioso destino. Sono colui che vi offre un’alleanza con gli dèi. E cibo, molto cibo.

    La prima creatura grugnì, avanzando minacciosa. L’uomo ne distinse la faccia deforme, le zanne, il pelo dritto, duro come ferro. Ma non mostrò paura. Sorrise, invece. – Lo vuoi?

    Spinse in avanti la guida martoriata di tagli.

    L’essere zannuto le tranciò la testa. Un taglio netto, preciso. La seconda creatura, allora, corse veloce sulle sei zampe nere, superando il compagno e afferrò la preda tra ganasce da ragno. Anche il terzo mostro avanzò sulle sue zampe caprine, scalciando e rampando. Ne seguì una lotta magnifica e terribile. L’uomo l’osservò immobile, perché da ragazzo, grazie a suo padre, aveva imparato a non temere alcun nemico. Non si mosse neppure quando il sangue nero del ragno lo colpì in pieno viso. E neppure quando il mostro con piedi caprini fu divorato dai due compagni.

    Si erano dimenticati di lui, nella foga bestiale che li aveva posseduti, ma non era una buona ragione per andarsene. Il suo compito era solo all’inizio.

    E infatti, mentre i mostri mugolavano intorpiditi per il banchetto appena consumato, per la landa echeggiò un grido di donna. – Maledetti voi, i vostri padri e tutta la vostra stirpe! Mille volte maledetti!

    Ormai il buio era quasi completo, ma l’uomo distinse ugualmente la creatura vestita di stracci che avanzava verso di lui e il tremito che percorse i mostri. Una femmina, più umana che bestia, armata di un lungo bastone a sonagli. Sorrise soddisfatto.

    – Sei tu la regina di queste magnifiche creature? Sei tu colei con cui devo trattare?

    La donna fece baluginare i denti nella notte. – Non trattiamo con gli esseri umani. Li mangiamo. E tu sarai il prossimo pasto dei miei figli.

    – Non mi mangerai, invece, perché porto il messaggio degli dèi.

    – Il mio unico dio è Tartar, mio sposo.

    – Sposa di Tartar, è giunto il tempo in cui il tuo dio e i miei dèi, insieme, hanno deciso di donare ai tuoi figli il posto che spetta loro nel mondo. Non bestie confinate in una pianura desolata, costrette a divorarsi l’un l’altra. Padroni del mondo.

    La donna s’avvicinò tanto da fargli avvertire il suo fetore. – Mostrami il petto.

    L’uomo aprì il mantello e poi la tunica, ma lei era impaziente. Insinuò la mano dalle lunghe unghie ricurve e tracciò col dito la cicatrice che il padre gli aveva impresso col fuoco quando aveva dieci anni.

    – Sei arrivato, finalmente!

    – Sono arrivato, Regina di Tartar.

    3

    Etruria, 725 A.U.C.

    La vecchia domus dei Valerii aveva la porta spalancata e sembrava non ci fosse nessuno. Gaelia entrò con passo esitante. Ecco l’atrio, la fontana. Tutto come dieci anni prima. Se ricordava bene, sulla sinistra c’era la porta dell’hortus. Era strano che non ci fosse neppure uno schiavo. E dov’era suo padre?

    D’un tratto la ragazza udì una voce d’uomo. Proveniva dalle stanze più interne. Udì anche la voce della madre. Litigavano, ma non riusciva a distinguere le loro parole. Non aveva voglia di ascoltarli.

    Si diresse dunque verso l’hortus. Un tempo c’era una scala che portava sul tetto. Eccola, dietro il cespuglio, vicino al grande ulivo nodoso. Si arrampicò. Una gatta venne a strofinarsi contro le sue gambe. La accarezzò e quella la condusse presso la sua tana, dove giacevano tre minuscoli cuccioli dagli occhi ancora chiusi. Ne prese uno in braccio, lo guardò con tenerezza e gli occhietti d’un tratto si aprirono, svelando penetranti iridi d’ambra.

    – Non dovresti giocare con loro!

    Gaelia si voltò. Zio Decimo, accoccolato in un angolo, la fissava febbricitante. Gaelia sapeva che era malato, ma non sapeva che cosa avesse. Non glielo avevano voluto dire.

    – Non dovresti giocare con loro! – ripeté.

    – Perché?

    Lo zio le fu addosso con un balzo, il volto vicino al suo, con gli occhi sgranati. Il suo alito caldo odorava d’erba, come se si fosse messo a brucare il prato del giardino. Di nuovo.

    – Noi siamo maledetti – disse con la faccia deformata da una smorfia. – Io lo sono, lo era anche nonno Giunio, forse persino il nostro antenato, Cornelio Scipione l’Emiliano, l’eroe di Cartagine. Siamo maledetti, maledetti!

    Poi, la spinse via, si alzò, corse verso il limitare del tetto e si lanciò. Gaelia emise un grido muto, si sporse. Sotto non c’era l’hortus, ma l’abisso della Rupe Tarpea pieno di cadaveri.

    Di nuovo gridò e di nuovo dalla bocca non le uscì alcun suono.

    Se ne stava lì, a contemplare quelle membra piegate in angoli innaturali, quegli occhi e quelle bocche spalancate, quando il tocco di una mano gentile la trasse indietro. Era una mano maschile. Cercò di distinguere il volto dello sconosciuto, ma era confuso.

    – Sono tuo padre. Seguimi.

    Gaelia ubbidì. Il padre la condusse in una stanza buia. Lì aspettava un altro uomo, avvolto dall’ombra. Vide solo il luccichio dei suoi denti. Sorrideva in modo inquietante.

    Gaelia si voltò per chiedere spiegazioni al padre, ma questi era scomparso. Allora si volse verso l’ombra: – Chi sei?

    – Sono tuo marito, non ricordi? Indossi ancora l’abito nuziale.

    Gaelia abbassò lo sguardo. Era vero. Ma allora come mai non rammentava nulla di quell’uomo? Perché la spaventava tanto?

    La tenda della camera si scostò, sospinta da un refolo d’aria fredda e il sole l’accecò. Si sentì afferrare per un polso, poi l’uomo la spinse sul letto. Continuava a non vederne il viso, come se un dio gli avesse cancellato la faccia. Cominciò a dimenarsi, ma lui era forte. Le sue mani le facevano male, le ginocchia spingevano tra le gambe.

    Il terrore s’impadronì di lei e con esso venne la rabbia. Sfoderò gli artigli e squarciò la gola dell’uomo.

    – Era proprio necessario?

    La voce della madre penetrò le cortine del sogno.

    – Credo che non se ne possa fare a meno, domina. È una questione di Stato.

    Seguì un momento di silenzio, durante il quale Gaelia sollevò la mano per proteggersi gli occhi. La testa di Caio, la loro scorta, inviata da suo padre, occupava quasi per intero il finestrino, ma non riusciva a impedire che i raggi d’oro del pomeriggio si insinuassero nella carrozza, accecandola.

    – Non c’è modo di evitarlo?

    Caio non rispose, ma la ragazza ebbe l’impressione che facesse un lieve cenno di dissenso col capo.

    La donna sospirò. – E va bene. Sia fatta la volontà del re.

    L’uomo allora sollevò un braccio e la carrozza ripartì con uno scossone. Le tendine furono tirate e, nella penombra, Gaelia poté finalmente guardare in viso la madre.

    – Che succede, mamma?

    – Questa notte non ci fermeremo in una locanda – si limitò a rispondere la donna con lo sguardo fisso davanti a sé. – Saremo ospiti in una villa.

    – Sarà certo meglio del tugurio dove abbiamo dormito la notte scorsa. Ti sei dimenticata le cimici? E quel grosso topo?

    La donna sbuffò. – Meglio le cimici!

    – Di chi saremo ospiti? – chiese quindi la ragazza con una punta di divertimento. – Per farti preferire le cimici, deve essere un mostro.

    Lo sguardo della madre le fece morire il mezzo sorriso che le era sbocciato sulle labbra.

    – Citeride – sputò fuori la donna, come se questo spiegasse tutto.

    Ancora un po’ intontita dal brusco risveglio dopo quel sogno così angoscioso, Gaelia cercò di ripescare nella memoria quel nome. Non le era del tutto estraneo, eppure non riusciva a ricordare dove lo avesse sentito.

    – D’altra parte, che cosa potevamo aspettarci? – riprese nel frattempo la madre. – Marco Antonio, con il suo matrimonio con la regina d’Egitto e con questa incoronazione, dimostra di avere in spregio tutti i valori dei nostri padri. Che vuoi che siano per lui due donne del più antico sangue patrizio? Ringrazio gli dèi che i tuoi nonni non siano potuti venire con noi. L’umiliazione li avrebbe uccisi entrambi.

    – Ora ricordo! – esclamò Gaelia. – Marco Antonio si era preso per amante una spogliarellista, una liberta della casa dei Volumni, se non ricordo male. La nonna mi ha raccontato che se la portava dietro come se fosse sua moglie. La chiamavano Citeride per via della sua bellezza. – La madre annuì più volte e la ragazza continuò: – Cesare si era arrabbiato molto per questo suo comportamento. Così Antonio fu costretto a lasciarla. È lei la donna che ci ospiterà?

    La madre annuì di nuovo. – Fu uno scandalo – disse. – A quei tempi Antonio era sposato con tua zia Fulvia. Si può dire che il suo successo fosse dovuto per buona parte a lei. Senza di lei sarebbe rimasto un centurione come tanti – commentò con amarezza. – E invece…

    – E la zia? Come reagì? – Gaelia ricordava appena quella donna dal viso lungo e severo che frequentava la loro casa quando lei era bambina.

    – Come vuoi che reagisse? Sopportò, come tutte noi. Ma non posso dimenticare l’umiliazione e la rabbia nei suoi occhi ogni volta che suo marito si faceva vedere in pubblico con quella donna. Quando poi si seppe che Citeride era incinta…

    – Non sapevo del bambino.

    In realtà c’erano molte, troppe cose che non sapeva. Come avrebbe potuto districarsi a Roma? In quegli undici anni sua madre l’aveva nascosta in campagna come se questo bastasse a proteggerla dalla politica, dagli intrighi, dalle guerre civili. L’aveva illusa di potere vivere libera. Come se suo padre non fosse il braccio destro di Antonio. Come se la loro non fosse una famiglia tra le più importanti di Roma. Come aveva potuto essere così ingenua? O così crudele? Era bastata una lettera a distruggere il loro mondo. Una semplice lettera d’invito a quella stramaledetta incoronazione.

    La donna non parve cogliere il tono accusatorio della figlia. – Non era necessario che lo sapessi – fu la sua placida risposta. – Antonio sistemò madre e figlio nella villa dove siamo dirette, lontano dagli occhi del mondo. Poi, senza tanto clamore, riconobbe il bambino come legittimo, sebbene, come potrai ben capire, ci fossero seri dubbi sulla paternità. Ma poi parve dimenticarsi di loro, proprio come fece tuo padre con noi.

    Quell’ultima affermazione riaprì un’antica ferita mai rimarginata. Gaelia sapeva che il padre le aveva allontanate per sfuggire all’onta della follia e del suicidio dello zio Decimo, ma il suo silenzio, per tutti quegli anni, l’aveva indotta a chiedersi se, in fondo, non avesse anche lei qualche colpa. Forse il padre aveva visto in lei un difetto ereditario, una mancanza, una sottile vena di pazzia. O forse, semplicemente, era stato il suo sesso a disgustarlo. Un’inutile femmina.

    Del tutto inconsapevole del dolore della figlia, troppo concentrata sul proprio, la donna continuò: – All’inizio tuo padre si arrabbiò, ma non disse mai nulla al suo caro amico Antonio. Anzi, convinse tua zia a non divorziare dal marito per così poco. E accompagnò Antonio nelle sue scorribande. Puoi immaginare come mi sentissi. Ci eravamo appena sposati… – Emise un lungo sospiro. – La verità è che per lui il legame con il pupillo di Cesare era troppo importante. Era la chiave del successo. E solo questo contava per Fulvio. – Finalmente la guardò negli occhi. – Capisci?

    La ragazza sentì pungere gli occhi, ma trovò la forza di deglutire e ricacciare le lacrime in fondo alla gola.

    La madre, allora, le carezzò la guancia. – Capisci? Capisci perché non devi mai e poi mai fidarti di lui? Le azioni di tuo padre non sono mai dettate dai sentimenti. Mai.

    Gaelia inspirò profondamente. – Perché credi che ci abbia mandate qui?

    La madre fece un gesto spazientito. – Chi può saperlo? Le sue trame sono così contorte! Caio sostiene che

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1