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Le ali notturne
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E-book163 pagine2 ore

Le ali notturne

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Info su questo ebook

Con questo libro si concludono le avventure di Solomon Kane, lo spadaccino puritano che già vi abbiamo presentato in altri due volumi di questa collana: La Luna dei Teschi e I Figli di Asshur. Gli ingredienti che danno vita e spessore a questa saga, sono quelli caratteristici di Howard, ossia combattimenti contro creature diaboliche, scoperte di civiltà perdute, lotte contro mostri d'ogni genere: in sostanza, l'eterna lotta tra il Male e il Bene, quest'ultimo impersonato appunto dal suo paladino, Solomon Kane. Una lettura avvincente che, tra un duello e una magia, non vi darà respiro sino all'ultima pagina.

Robert E. Howard

nacque nel 1906 in Texas e concluse la sua brevissima vita a Cross Plains, nel 1936. Dotato di una vena creativa inesauribile, scrisse non solo racconti fantasy, ma anche commedie, gialli, racconti storici e d’avventura. Accanto al ciclo di Conan, della sua vasta produzione va ricordato almeno quello di Solomon Kane (già pubblicato dalla Newton Compton).
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2012
ISBN9788854148550
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    Anteprima del libro

    Le ali notturne - Robert E. Howard

    124

    Robert E. Howard

    Le ali notturne

    Edizione integrale

    Titolo originale: Wings in the night

    Traduzione di Gianni Pilo

    Prima edizione ebook: ottobre 2012

    © 1995 Finedim s.r.l., Compagnia del Fantastico

    © 2012 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 9788854148550

    www.newtoncompton.com

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Immagine di copertina: © dundanim/iStockphoto

    1. Le Ali Notturne

    Solomon Kane si appoggiò al suo bastone stranamente inciso e osservò perplesso e cupo il mistero che giaceva silenzioso di fronte a lui. Kane aveva visto molti villaggi deserti nei mesi trascorsi da quando si era diretto dalla Costa degli Schiavi verso Oriente perdendosi nei labirinti formati dalla giungla e dal fiume, ma mai ne aveva visto uno come quello.

    Non era stata la carestia a scacciare gli abitanti. Infatti, poco più avanti, il riso selvatico ancora cresceva e marciva inselvatichito nei campi incolti. In quelle terre senza nome non vi erano razziatori arabi, quindi forse era stata una guerra tribale a devastare il villaggio, decise Kane, osservando tetro le ossa e i teschi ghignanti disseminati sul terreno.

    Le ossa erano frantumate e spezzate, e Kane vide gli sciacalli e le iene sgusciare furtivi tra le capanne in rovina. Ma perché gli uccisori avevano lasciato le prede?

    Vi erano ancora le lance da guerra, e le loro lame si sgretolavano di fronte all’attacco delle formiche bianche. Vi erano gli scudi ormai rovinati dal sole e dalla pioggia. Vi erano gli arnesi da cucina, e attorno alle ossa del collo scheletrico di uno dei morti brillava ancora una collanina di pietre e conchiglie dipinte con colori vistosi. Sicuramente avrebbe costituito un raro bottino per qualunque selvaggio conquistatore.

    Kane osservò le capanne, chiedendosi come mai un tale numero di tetti di paglia erano stati strappati e lacerati, come se degli esseri muniti di artigli avessero cercato di penetrarvi. Poi i suoi occhi gelidi si spalancarono increduli. Proprio di fronte alla collina ormai coperta di muschio che era stata una volta il recinto del villaggio, si ergeva un gigantesco albero di baobab. Per i primi sessanta piedi era privo di rami, e il fusto maestoso era troppo largo per permettere di abbrancarlo e scalarlo. Eppure, dai rami in cima alla chioma di quell’albero pendeva uno scheletro, apparentemente impalato su un ramo spezzato.

    Il freddo tocco della mano del mistero sfiorò la spalla di Solomon Kane. Come erano giunti a quell’altezza quei miseri resti? Era forse stata la mano di un gigante?

    Kane si strinse nelle spalle larghe e la mano inconsciamente toccò le nere impugnature delle pesanti pistole, della lunga alabarda, e poi il pugnale che portava alla cintura. Non avvertiva la paura che avrebbe provato un uomo normale di fronte all’Ignoto e al Mistero.

    Anni di vagabondaggio in terre straniere in lotta con strane creature gli avevano prosciugato dal cervello, dall’anima e dal corpo, ogni cosa che non avesse la formidabile resistenza dell’acciaio e dell’osso di balena. Era alto e magro, quasi allampanato, e aveva la costituzione selvaggia del lupo: le spalle erano larghe, le braccia lunghe, i nervi di ghiaccio e i tendini come molle di acciaio, e aveva l’istinto di un predatore tipico del vero spadaccino.

    I rovi e le spine della giungla lo avevano martoriato; i suoi abiti pendevano a brandelli, il suo morbido cappello privo di piume era strappato e i suoi stivali di pelle di Cordova erano graffiati e sdruciti. Il sole aveva brunito la pelle del suo torace e gli arti erano diventati di un color bronzo intenso, ma il suo magro viso ascetico era impervio ai suoi raggi. La sua carnagione aveva ancora lo strano, tetro pallore che gli conferiva l’aspetto quasi cadaverico, che solo i suoi freddi occhi azzurri smentivano.

    E ora Kane, abbracciando con lo sguardo l’intero villaggio, mentre aggiustava la cintura per trovare una posizione più comoda, spostò alla mano sinistra il lungo bastone dalla testa di felino che N’Longa gli aveva dato, e riprese il suo cammino.

    A Ovest sorgeva una rada foresta che scendeva verso la larga distesa della savana, un mare ondeggiante di erba che gli giungeva fino alla cintola e oltre. Aldilà sorgeva un’altra zona di boschi, che s’infittiva rapidamente e diventava una giungla vera e propria.

    Da quella giungla Kane era fuggito come un lupo braccato inseguito da vicino da inseguitori dai denti aguzzi.

    La brezza portava ancora di tanto in tanto il rullì o selvaggio del tamburo che bisbigliava la sua oscena storia di odio, e di desiderio di morte e di sangue umano, attraverso miglia di giungla e savana.

    Il ricordo della sua fuga e del suo fortunoso salvataggio era ancora ben vivo nella memoria di Kane; infatti, solo il giorno prima si era accorto, troppo tardi, di essere giunto nelle terre dei cannibali, e tutto quel pomeriggio, sentendo nelle narici l’odore nauseabondo della giungla fitta, era scivolato furtivo correndo, nascondendosi, rannicchiandosi e facendo mille giri viziosi per seminare i feroci cacciatori che lo inseguivano da vicino. Finalmente era scesa la notte, e lui era riuscito a guadagnare le grandi praterie che aveva attraversato nottetempo.

    Ormai era tarda mattina. Non aveva più visto né sentito alcun segno dei suoi inseguitori. Eppure non aveva alcuna ragione di credere che avessero abbandonato l’inseguimento. Gli erano stati alle calcagna fin da quando si era diretto verso la savana.

    Quindi Kane frugò con lo sguardo la terra che gli si stendeva dinanzi. A Est, alcune basse colline descrivevano una curva da Nord a Sud. Erano per la maggior parte aride e secche, e si ergevano a Sud a formare un frastagliato orizzonte nero che ricordò a Kane le nere colline del Negari.

    Tra lui e le colline si estendeva un’ampia distesa di campagna fertile, fittamente alberata, ma che non raggiungeva la densità della giungla. Kane ebbe l’impressione di trovarsi di fronte a un vasto altopiano limitato dalle colline a semicerchio a Est e dalla prateria a Ovest.

    Kane si diresse verso le colline con il suo passo falcato, lungo e instancabile. Sicuramente alle sue spalle quei demoni selvaggi lo tallonavano furtivi, e lui non aveva alcun desiderio di essere sopraffatto. Uno sparo li avrebbe fatti fuggire in preda a un improvviso terrore ma, d’altra parte, erano situati così in basso sulla scala dei valori umani, che un tale evento non sarebbe riuscito a incutere loro il timore del Soprannaturale. E neppure Solomon Kane, che Sir Francis Drake aveva chiamato il Re di Spade della Contea del Devon, poteva vincere una battaglia campale contro una intera tribù.

    Il villaggio deserto con il suo fardello di morte e di mistero era rimasto alle sue spalle. Il silenzio più totale regnava tra quelle misteriose terre alte dove non si udiva il canto degli uccelli e le dense chiome degli alberi erano abitate solo dai silenziosi macai. Gli unici suoni erano il passo felino di Kane, e il bisbiglio della brezza portatrice di rullii di tamburi.

    Poi Kane intravide tra gli alberi una visione che gli fece balzare il cuore in gola, in preda a un improvviso terrore senza nome. In pochi istanti si trovò di fronte all’Orrore stesso, in tutta la sua orribile evidenza.

    In un ampio spiazzo, o piuttosto su un terreno scosceso, sorgeva un palo di tortura, e a questo palo era legata una cosa che una volta era stata un uomo. Kane aveva remato incatenato al banco di una galera turca, e aveva lavorato nelle vigne barbaresche, aveva lottato contro gli indiani nelle Terre Nuove ed era rimasto a languire nelle carceri dell’Inquisizione Spagnola. Sapeva molto circa la barbara crudeltà di cui l’uomo era capace, ma ora si trovò a rabbrividire, nauseato. Eppure non era tanto l’orrore delle mutilazioni inferte, che pure erano orribili. Quel che gli fece raggelare l’anima era la consapevolezza che quel miserabile era ancora vivo.

    Infatti, mentre si avvicinava, la testa insanguinata che pendeva sul petto martoriato, si era sollevata dimenandosi e perdendo sangue dai moncherini delle orecchie, mentre un guaito bestiale e soffocato era uscito fuori dalle labbra strappate.

    Kane si rivolse a quella cosa orribile, ed essa emise delle urla lancinanti, dibattendosi e contorcendosi, mentre la testa si dimenava su e giù, guidata dai nervi dilaniati, e le orbite vuote sembravano tentare disperatamente di vedere nonostante fossero ormai vuote. Mugolando sommessamente e con un tono che faceva accapponare la pelle, la cosa si raggomitolò contro il palo a cui era legata e sollevò la testa in un atteggiamento di ascolto come se si aspettasse di udire qualcosa che venisse dal cielo.

    «Ascolta», disse Kane, nel dialetto delle tribù del fiume. «Non temere: non ti farò del male, e niente più potrà farti del male. Sto per liberarti.»

    Nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole, Kane si rendeva conto della vuota fallacia contenuta nelle sue parole. Ma la sua voce era riuscita a penetrare debolmente nel cervello rutilante di agonia dell’uomo che aveva di fronte. Dai denti frantumati filtrarono parole incerte e balbettanti, mischiate a frasi biascicate senza alcun senso.

    Parlava una lingua simile ai dialetti che Kane aveva appreso dalle amichevoli tribù del fiume durante i suoi spostamenti, e il Puritano apprese che era rimasto legato al palo da lungo tempo: molte lune, disse quello mugolando mentre i suoi rantoli annunciavano che la morte era ormai imminente.

    Per tutto questo tempo delle forze inumane e maligne avevano esercitato il loro mostruoso potere su di lui. Queste cose le menzionò per nome, ma Kane non riuscì a comprenderlo. Quello usava un termine che aveva un suono simile alla parola akaana. Ma quelle cose non lo avevano legato al palo. Il corpo dilaniato biascicò il nome di Goru, che era un Sacerdote e gli aveva stretto la corda troppo attorno alle gambe. Kane si meravigliò del modo in cui quel piccolo fatto fosse rimasto vivo nella mente ormai invasa dal dolore del morente.

    Con orrore Kane apprese che suo fratello aveva aiutato a legarlo, e lo vide piangere con singhiozzi infantili. Le lacrime si formarono nelle orbite vuote e formarono gocce di sangue. Mormorò qualcosa circa una lancia spezzata molto tempo prima in una capanna buia e, mentre mormorava in preda al delirio, Kane tagliò con dolcezza i lacci e adagiò il corpo martoriato sull’erba.

    Ma perfino il tocco attento dell’Inglese fece gridare quel disgraziato, che si dibatteva come un cane morente. Il sangue riprese a scorrere dalle mille ferite. Kane notò che somigliavano più a ferite inferte da zanne o da artigli che non da un coltello o da una lancia. Ma infine l’operazione fu terminata. La cosa sanguinante e disfatta giacque sull’erba soffice. Kane pose il suo cappello floscio sotto la testa del morituro, che prese a emettere grandi respiri rantolanti.

    Kane versò dell’acqua dalla sua borraccia tra quelle labbra sfatte e, chinandosi, disse:

    «Parlami ancora di questi diavoli, poiché per il Dio della mia gente, quest’azione non rimarrà impunita, fosse Satana in persona a sbarrarmi la strada».

    Probabilmente il morente non udì quelle parole. Ma udì un altro suono. Era un macao che, con la curiosità tipica della sua razza, avvicinatosi volando fuori da un boschetto poco lontano, sfiorò con le grandi ali i capelli di Kane. Sentendo il fruscì o delle ali, l’uomo martoriato si alzò a sedere e urlò con una voce che risuonò a lungo nei sogni futuri di Kane fino al giorno della sua morte:

    «Le ali! Le ali! Vengono ancora! Ahh, pietà! Le ali!».

    Poi il sangue gli sgorgò a fiotti dalle labbra, e morì.

    Kane si rialzò e si deterse il sudore freddo dalla fronte. La foresta dell’altopiano brillava nel calore del mezzogiorno. Il silenzio regnava sulla terra come l’incantesimo che regna nei sogni. Gli occhi cupi di Kane osservarono le nere colline dall’aspetto maligno accovacciate sull’orizzonte, e poi la savana ormai distante. Un’antica maledizione opprimeva quella terra misteriosa e la sua ombra era caduta a oscurare l’anima di Solomon Kane.

    Delicatamente sollevò quei resti rosseggianti che una volta pulsavano di vita, giovinezza e vitalità, e li portò sul limitare della radura. Sistemando alla meglio le fredde membra, e rabbrividendo di nuovo nel contemplarne le orrende mutilazioni, ammucchiò una pila di massi sopra il cadavere in modo che anche gli sciacalli avrebbero trovato impossibile giungere alla carne che vi era sepolta sotto.

    Aveva appena terminato l’opera, quando qualcosa lo riscosse dalle sue cupe meditazioni, e gli fece comprendere a pieno la sua posizione. Un leggero rumore –

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