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Il libro di Henneth
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E-book804 pagine11 ore

Il libro di Henneth

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Info su questo ebook

Nelle lunghe notti di Pieninverno, accanto al focolare della Locanda della Quercia Incantata, vivranno nuovi racconti e riemergerà un mistero sepolto.
Le forze rifiutate della Magia affioreranno dalle ceneri della memoria al ritmo delle parole di Gherardo il Bardo, insieme a terre antiche e ormai dimenticate.
- Questa è la storia di una donna alla ricerca di un’impietosa giustizia, e di chi cercò di fermarla.
- Questa è la storia di una vita trascorsa nei grandi Torrioni dei trasportatori
attraverso le poche città delle Terre Abitabili, e le aride e mortali terre della Piaga, oltre i Kana dei barbari dell’Ovest, fino alle paludi costiere, dove l’Unico Mago ancora afferma impunemente il proprio potere.
Un viaggio rischioso e segreto, alla scoperta di luoghi impensati e di improbabili alleanze, lungo le misteriose Vie che percorrono lo Spazio, il Tempo ed il Destino.
Il Gioco di Ruolo che ha dato origine e spessore al precedente romanzo continua in questo primo volume della nuova saga: Le Storie della Locanda.
LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2016
ISBN9788867825721
Il libro di Henneth

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    Anteprima del libro

    Il libro di Henneth - Daniela Ferraro Pozzer

    La sua mano si tese, sfiorando le pareti di ambra e di ametista e gli antichi scaffali di legno della Biblioteca dei Maghi Neri.

    Quanto sapere nascosto dal Tempo…

    Gherardo il Bardo era quasi senza fiato, sentiva il rumore del proprio respiro nelle orecchie e la sua mente si infilava con destrezza e avidità fra i vecchi volumi, perfino prima delle sue mani; l’uomo cercava di intuirne i titoli, velati dalla coltre protettiva e silenziosa della polvere che i secoli avevano lasciato depositare, ed immaginarne i contenuti.

    Verbena aveva ragione, disse fra sé, e la sua voce rimbombò possente fra i muri di roccia, devo semplicemente cominciare dal primo, altrimenti mi perderò nella scelta e potei rimanere qui fino a Primavera! Gherardo rise e poi, come se stesse dando un ordine perentorio a qualcun altro, esclamò "Sciocco di un cantastorie, coraggio: prendi quel benedetto ‘primo’ libro, fra le sue pagine scorre il racconto delle Origini e di ciò che avvenne in tempi perfino precedenti alla Prima Guerra dei Popoli. Da lì scoprirai le origini remote delle Terre Conosciute e quelle della Locanda della Quercia Incantata! Comincerai il tuo viaggio, certo, ma non cercare tutto in un solo volume, non lasciare che la sete di Conoscenza non ti faccia godere la Via: il racconto che qui inizia si svolgerà come deve, e sicuramente continuerà in quei libri, altrettanto ricchi di eventi ancora misteriosi, che lo seguono sullo scaffale!

    Sii felice di questo, Bardo, perché pare che avrai molto da raccontare durante i lunghi inverni, nel fumoso tepore del Salone del Focolare: saranno le ‘Storie della Locanda’ e condiranno di un sapore antico le zuppe di Donna Verbena… e le birre dei nani!"

    Gherardo annuì soddisfatto concludendo il proprio discorso con la voce leggermente distorta dall’emozione, sorrise, prese il libro e, stringendolo a sé con entrambe le braccia come fosse un tesoro da custodire gelosamente, si avviò a grandi passi verso le scale di ametista della Biblioteca dei Maghi Neri."

    Daniela Ferraro Pozzer

    IL LIBRO

    DI HENNETH

    EDITRICE GDS

    Daniela Ferraro Pozzer Il libro di Henneth ©EDITRICE GDS

    EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via Pozzo, 34

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel. 02 90970439

    e-mail: edizionigds@hotmail.it ; iolanda1976@hotmail.it

    Illustrazione in copertina di ©Stefano D’Auria.

    TUTTI I DIRITTI RISERVATI.

    Il presente romanzo è frutto della fantasia dell’Autrice. Ogni riferimento a fatti, persone, luoghi realmente esistenti e/o esistiti è puramente casuale.

    Questo libro è il prodotto finale di una serie di fasi operative che esigono numerose verifiche sui testi. È quasi impossibile pubblicare volumi senza errori. Saremo grati a coloro che avendone trovati, vorranno comunicarceli.

    Per segnalazioni relative a questo volume: iolanda1976@hotmail.it

    Al ricordo di mio padre,

    il Primo Arcier-Generale Celestino.

    I PARTE

    Prologo

    Questa è La Storia della Madre e delle Tre Figlie.

    "C’era una volta, tanto tempo fa, quando ancora esistevano le razze ed il mare, una terra arida ed egoista che divorava i semi che le venivano donati e respingeva l’amore della pioggia. La Madre era nata lì, aveva conosciuto solo quei luoghi ed era sopravvissuta diventando dura come metallo lucente, ma quando nacquero le sue figlie esaminò a fondo la situazione e decise che in quel luogo non sarebbero cresciute bene perché quella terra non le meritava quindi, senza esitazioni, partì per Il Viaggio. Grande e nota era la fredda Sapienza della Madre ed infinita la sua Conoscenza.

    Ciò che vive solo in testa è immacolato e ragionevole e quindi giusto. Questo fu, in seguito, il suo primo insegnamento.

    Non ha ne’ cuore ne’ pancia. avrebbero poi detto di lei i suoi nemici, ma tutti inesorabilmente sarebbero stati alla fine sconfitti dalla sua ‘testa’: la Madre era infallibile. Grazie all’uso costante di un’intelligenza ‘non corrotta da altro’, come spesso usava definirla; aveva una visione delle cose implacabilmente oggettiva e, come tale, molto utile ai propri scopi.

    Il Viaggio le portò lontano, non si sa con precisione che percorso la Madre preferì seguire, si dice fosse stato il volo di un’aquila, ma si tramanda che le quattro donne camminarono per un tempo lungo quanto la gestazione di una cerva e, alla fine, giunsero in una terra vuota ma calda, promettente e disponibile. La Madre decise allora che quella sarebbe stata una buona casa per tutte loro.

    Lì le figlie crebbero in bellezza ed energia: sembravano risvegliare la Vita in tutto ciò che toccavano e, col Tempo, cominciarono a sentire la viscerale necessità che questo loro dono fosse distribuito quanto più ampiamente possibile.

    Quindi la Madre esaminò la situazione e stabilì un luogo per ciascuna di esse: tre luoghi equidistanti dal centro, ed al centro di esse ella si pose, e non certo per necessità ma solo perché le amava tutte allo stesso modo ed a tutte voleva esser quindi ugualmente vicina. Con una logica ferrea, frutto di conoscenza e intelligenza, la donna guidava le proprie figlie che, a loro volta, davano a lei l’Energia della vita.

    E vennero tempi felici in cui le tre figlie accendevano i fuochi della Terra, cantavano con i boschi appena nati e, nelle notti di luna, correvano sulle colline azzurre vestite solo della verde luce che emanavano. Tempi in cui la Madre, al loro centro, splendeva dorata e, vivendo del nutrimento che esse le procuravano, si accresceva in potenza."

    Vi racconterò ora, come sempre si dice, cosa accadde in seguito.

    "Ben presto le verdi e rigogliose terre abitate dalle Figlie divennero luogo prescelto anche per altri esseri viventi i quali trovavano lì, facilmente, frutti spontanei di cui nutrirsi e fertili campi liberi da coltivare. Sorsero così i primi villaggi e poi le città.

    Tutto era sempre sotto il controllo della Madre che gestiva ogni aspetto della vita degli abitanti di quei luoghi, detti in seguito: I Tre Regni. Il suo governare era basato sul puro principio di causa ed effetto. Nessuna eccezione, nessuna debolezza emotiva. Così trascorsero mille giri di sole e le ricchezze, naturali ed economiche, di queste terre crebbero a dismisura. Ogni guerra fu vinta, ogni pericolo fu intuito in tempo: niente poteva fermare il progresso della Madre."

    A questo punto, nel silenzio concentrato della dotta platea, il piccolo uomo canuto tossicchiò, come per prendere tempo, poi scosse la testa assumendo un’espressione desolata ed aggiunse:

    Pare sia stata definitivamente smarrita la conoscenza di cosa accadde poi, prima delle Guerre dei Maghi, dei terremoti e della fusione delle specie intendo… ormai da lungo tempo il ricordo dell’origine di questa, come di molte altre antiche leggende del ciclo dei cosiddetti Fondatori, si è perso. Solo di recente il rinomato studioso Loris Belcanto, a seguito di approfondite ricerche, ci ha riportato tale storia nel suo noto manuale ‘Dei Vecchi Testi Ritrovati’. Con calma solenne l’anziano lettore si tolse gli occhiali, che aveva pinzati sul naso, e prese un monocolo dalla lente molto più spessa. Poi avvicinò la faccia al grosso libro di cui aveva appena riferito il titolo e riprese:

    Una nota di chiusura dell’autore del sopracitato testo aggiunge solo una piccola goccia di curiosità all’immensa lacuna di conoscenza che ci affligge, onorevoli colleghi. Perdonate la mia lentezza ma cercherò di tradurre dal runico in maniera comprensibile perché quello che sto per leggervi deriva proprio da un’incisione rupestre puro-nanica, trovata qualche anno fa a Nord di Friza…

    L’uomo tossicchiò di nuovo e cominciò a tradurre, con voce lenta e solenne, una serie di strani segni dalla struttura rigida, allineati in verticale sulla pagina aperta sotto il suo naso.

    …PURTROPPO…(scritta corrosa incomprensibile)… ED ELLA…(si suppone essere la Madre)… SPLENDIDO CORO DI ANIME… PRIVATA DELLA SUA CORONA PREZIOSA DI CONSAPEVOLE CONOSCENZA, PRIVATA DELLE SUE FIGLIE (brano illeggibile)… MA … PUR SEMPRE IMMORTALE… (iscrizione indecifrabile) …CHINÒ LA SUA DORMIENTE TESTA NELL’ATTESA…

    Con un tono volutamente basso e misterioso, unito all’ampio gesto delle braccia che fluttuarono per un attimo nell’aria a destra e a sinistra del piccolo ometto, il Sapiente Primo lasciò per un attimo che la platea rimanesse in attesa, poi concluse:

    "Questo è quanto, miei onorevoli colleghi. Ancora troppo poco ci è dato sapere su queste leggendarie figure dette in varie lingue, ormai scomparse insieme alle razze che ne facevano uso, Enaidès, Enaidor, Ena-ki-di… e che nel linguaggio degli uomini erano chiamati: i Fondatori. Si trattava forse di un’antica stirpe di re conquistatori, o di invasori nomadi, le nostre ricerche in merito continueranno e, sperando di aver acceso il vostro interesse sull’argomento, vi ricordo che, casomai qualcuno di voi volesse approfondirne qualche aspetto unendosi al nostro, sempre troppo esiguo, gruppo di studio… naturalmente sarà più che benvenuto! Vi aspetto nel pomeriggio: sarò in biblioteca, come sempre, fino a sera!" E, con passo incredibilmente rapido per un uomo di veneranda età, il Sapiente Primo scese dal piccolo palco in legno scuro e si avviò verso il suo comodo scranno.

    CAPITOLO I

    IL PORTO DI AMIRANTA

    La brezza marina agitava festosamente i lembi dei tendaggi colorati che braccia rapide ed esperte si accingevano ad assicurare ai solidi pali di legno delle bancarelle del mercato.

    Un sole ormai non troppo caldo lentamente saliva ad Est, oltrepassando il contorno di spumose nubi bianche.

    L'uomo lavorava veloce come ogni mattina; dita forti e qualche cicatrice sui palmi delle mani, dovuta a corde un po' troppo ruvide, erano le poche caratteristiche fisiche di coloro che, ad Amiranta, si occupavano di montare il mercato della Grande Piazza del Porto ogni mattina e di smontarlo ogni sera, portando via le casse vuote.

    I gabbiani facevano il resto, ripulendo il piazzale da tutto quello che era anche solo vagamente commestibile.

    La donna si fermò un attimo, sembrò respirare profondamente, beandosi del profumo di quella brezza marina che le scompigliava i bei capelli castani e le spalancava sfacciatamente il leggero soprabito, poi si accinse a riprendere il cammino, stringendo di nuovo le dita sottili intorno ai manici della grande borsa a fiori che portava con sé.

    Madama, avete forse bisogno di aiuto? Quella valigia mi sembra troppo pesante… La straniera stava procedendo lentamente verso il centro della grande Piazza del Porto, palesemente inclinata dal lato del proprio bagaglio: la voce del giovane uomo non la sorprese affatto, sembrava quasi che stesse aspettando proprio una domanda del genere; nel voltarsi verso l'origine della gentile richiesta però Henneth, questo era il suo nome, assunse un'aria agitata, battè le lunghe ciglia, velando lo sguardo dorato di una sottile e lucente patina di stanchezza e lasciando che le sue labbra si dischiudessero in un accennato sorriso.

    Cosa? State forse parlando con me, Messere? rispose. La sua voce era sinuosa come le onde del mare che lambivano continuamente il molo, spruzzandone di acqua salata le assi di legno.

    Sì madama, volete che vi aiuti a portare quella grande borsa? Se mi dite dove siete diretta potrei accompagnarvi… L'uomo nel pronunciare la frase aveva fatto qualche passo verso di lei, lasciando cadere in terra una serie di lunghi chiodi di ferro ed un pesante martello.

    Oh, non vorrei esservi di disturbo, vedo che state lavorando… ribatté quella, stringendo ancora il manico del bagaglio e rimanendo così leggermente chinata in avanti, mentre il vento marino giocava con il suo abito facendone brillare la seta azzurra ed infilandosi nella sua scollatura e nelle larghe maniche.

    L'uomo, con uno sguardo astuto e sornione, si chinò a sua volta per raccogliere i chiodi che gli erano caduti tintinnando in giro. L’altezza ora era perfetta: quel vento spudorato, rigonfiandone i vestiti, gli mostrava i segreti merletti del corsetto della sconosciuta!

    Dopo un bel po’ di chiodi raccolti in uno strano silenzio però, le lunghe dita di lei si posero inaspettatamente sulla scollatura, mentre un piccolo Oh! di imbarazzo saltò fuori dalla sua bella bocca, colpendo come un ciottolo aguzzo l'orecchio dell’uomo.

    Che birbante che siete… rise Henneth rialzandosi e gettando indietro i lunghi capelli scompigliati, …approfittarvi così del vento! Se non sentissi a pelle che di voi ci si può senz'altro fidare sarei già fuggita via offesa! aggiunse. Chi sa per quale motivo, all'uomo sembrò che la sua voce vellutata si fosse soffermata qualche secondo in più sulla parola pelle.

    *****

    Più tardi.

    La stagione di Mezzosole era iniziata e presto calava la sera. La Grande Piazza del Porto era ormai sgombra dai banchi di pesce e dalle mercanzie colorate, dalle odorose spezie e dalle grida dei mercanti; perfino i gabbiani, sazi dei frutti del diligente ‘lavoro di pulizia’ da poco concluso, si erano riuniti in varie combriccole stridenti ai bordi dello slargo centrale dove, solitario, vagava mulinando il primo vento del Nord. Una folata quasi gelida si staccò dal suo nucleo centrale, inseguendo forse alcune foglie cadute, e si diresse verso la strada maestra che conduceva fuori città. Lì, in un rigagnolo di acqua sporca e dall’inconfondibile odore di pesce, carezzò i capelli di un uomo svenuto. La folata di vento, rabbrividendo per quel fastidioso olezzo, proseguì rapida e si divertì a far dondolare una pesante insegna, fatta di assi di legno attaccate ad una grossa catena cigolante: ‘IL GRIDO DEL MARE’ era scritto con più mani di vernice azzurra. Un riparato luogo di ristoro…, pensò felice la folata gettandosi con foga verso l’ingresso sottostante, …candele da spegnere… capelli da scompigliare! ma la porta della Taverna si apriva, non a caso, dal lato opposto. Delusa si lanciò in un mucchio di scarti di foglie di cavolo, disseminandole ovunque.

    *****

    Buonasera a voi madame e messeri, vi porgo il mio saluto e quello della mia amata consorte!

    A quelle parole, esclamate con enfasi, nella taverna ‘Il Grido del Mare’, il silenzio scese gelido ed improvviso. L’ampio locale era gremito come ogni sera di mercanti stranieri e pescatori del luogo.

    L’oste Montone, noto in tutta la regione per l’evocativo nome con cui aveva deciso di farsi chiamare fin dal suo arrivo in quella città, mosse con lentezza qualche passo da dietro al bancone e si diresse, con in mano un boccale bagnato ed uno strofinaccio dal colore indefinibile, verso i nuovi venuti. Ben prima che li avesse raggiunti però l’uomo appena entrato ricominciò a parlare: Sono Loris Belcanto, per vostra generale conoscenza…, disse con voce squillante, quasi stesse annunciando l’arrivo di qualcun altro e pregustando, evidentemente, una qualche reazione di sorpresa che però non giunse. Allora, senza perdersi d'animo, dopo qualche attimo aggiunse: Loris Belcanto… lo studioso, l’autore di ‘Dei Vecchi Testi Ritrovati’, nonché famoso scienziato, scopritore di Terre e di Bestie! Niente? Il mio nome non vi è familiare in alcun modo? Possibile che non sia giunta notizia dei miei studi in cotesto luogo? Eh?. I suoi occhi, azzurro scuro e un po' sporgenti, giravano vorticosamente qua e là ed i folti baffi dell’uomo, comodamente appoggiati su una bocca abbastanza carnosa, seguivano la linea sorridente del labbro superiore; improvvisamente quei baffi ne assecondarono anche l'evidente inclinazione verso un lato mentre, con un complice schiocco della lingua, Loris Belcanto concludeva la propria frase. La mano destra alzata e l’indice simpaticamente puntato verso l’oste. Quest’ultimo, intanto, continuava ad avvicinarsi a loro, accompagnando i passi lenti col rumore stridente del boccale, ormai asciutto, che si ostinava a lucidare distrattamente.

    Anche stavolta però non ci fu tempo per alcuna risposta perché la donna, entrata con lui e che era rimasta zitta ed immobile fino a quel momento, come se fosse stata improvvisamente attivata da quello schiocco esclamò: Smettila subito, Loris: lo sai che detesto quella smorfia volgare e quell'ignobile rumore!. Parole scivolate fra i denti come fumo acido: quella signora, alta e magra, le aveva pronunciate gelidamente e senza guardare in faccia l’uomo, mentre il volto sottile si tendeva in alto, seguendo le sopracciglia. Il suo collo lungo era così tirato da dare quasi l'impressione di potersi strappare proprio sotto il piccolo mento aguzzo.

    Sorpreso dal suo inaspettato scatto Montone si fermò, allungò un braccio ed indicò, con un sorriso rassicurante, il tavolo vuoto più vicino alla coppia e più lontano da sé. Meglio stare alla larga da certi tipi…

    Grosso, barbuto e muscoloso, con un bicchiere lucidissimo in mano e lo sguardo rivolto verso l’alto, l’oste rimase fermo nel bel mezzo della calda sala fumosa, momentaneamente abbandonato dalla propria mente che stava stilando una lista veloce delle donne più insopportabili che avesse mai incontrato e quella ‘Signora Belcanto’ occupava il secondo posto: appena dopo la propria madre, Donna Penelope.

    Fuori, nella notte ormai fredda, un piccolo gruppetto di persone riportava a casa un uomo, ritrovato svenuto per il troppo bere nelle nauseabonde acque fognarie che scorrevano ai bordi della via maestra che univa Amiranta al resto del mondo: l’Unico Regno.

    Per essere precisi non proprio ‘tutto’ il mondo faceva parte dell’immensa totalità che tale nome comprendeva. C’erano infatti due piccoli reami a Sud Est che storicamente non avevano mai accettato l’unione di tutti i Regni. Questa era stata proposta, durante l’Ultimo Concilio, dai Sovrani sopravvissuti all’Ultima Guerra di Magia, ed era stata accolta con gioia e senso di fraterna aggregazione da tutte le genti nella speranza che, proprio in quell’unione, si trovasse la forza e l’energia per ricominciare. Il disastroso conflitto aveva infatti completamente devastato e mutato tutte le Terre, rendendole in gran parte aride, malsane ed inabitabili. Paradossalmente un tale susseguirsi di disastrosi eventi aveva avuto origini così remote ed insignificanti da essere state perse nei meandri del Tempo. Qualche traccia di esse si ritrovava ormai solo nelle antiche Nenie dell’Inverno, la più nota raccolta di filastrocche popolari, conservata, come tutto ciò che riguardava il passato, nella Biblioteca dell’Accademia della Conoscenza, a Mnema.

    Una ricerca del noto-studioso-nonché-famoso-scienziato, come egli stesso usava definirsi, Loris Belcanto, autore di Dei Vecchi Testi Ritrovati nonché dello stesso Nenie dell’Inverno, aveva ipotizzato che il più significativo fra questi brevi brani, quello quindi in cui era presente un maggior numero di cosiddetti indizi-storici, fosse la Canzone del Vecchio Troll:

    Chi ha bevuto tre gocce di vino

    dalla botte che il vino portò?

    Chi ha rubato tre chicchi di grano

    dalla sacca che lo trasportò?

    Se è stato un nano

    gli mangio la mano

    Se è un elfo invece

    lo vesto di pece

    Se è un uomo il ladro

    lo metto a soqquadro

    ma se è un troll fratello

    gli canto lo stornello:

    chi ha bevuto tre gocce di vino… ecc…

    Secondo gli studiosi dell’Accademia della Conoscenza le tre gocce di vino rappresenterebbero tre popolazioni di Troll, un tempo residenti a Nord Ovest dell’attuale Regno, che sarebbero state attaccate e sterminate da un non ben definito altro popolo al fine di derubarle dei tre chicchi di grano, un evidente simbolo di ori e ricchezze.

    Però secondo un’altra corrente di pensiero, maggiormente accreditata, le tre gocce di vino rappresenterebbero proprio tre gocce di vino ed i tre chicchi di grano, in effetti, esattamente solo tre chicchi di grano: il conflitto sarebbe scaturito quindi dal fatto che i troll non hanno mai avuto un carattere tollerante.

    In ogni caso… come ebbe origine l’Ultima Guerra di Magia ha poca importanza paragonandola al disastro che causò. Orde di guerrieri ed eserciti di maghi persero la vita sugli sterminati campi di battaglia, imbevendo del sangue di ogni razza la terra sbigottita ed avvelenandone i fiumi con l’odio ed i cadaveri. Il conflitto fra le stirpi salì di livello col passare del tempo: nessuna specie voleva ammettere un equilibrio di potere e, per vincere, usò armi sempre più letali, incantesimi sempre più devastanti finché, in un giorno di Primofiore, la Terra stessa si ribellò.

    Il suo respiro fu lento e profondo, il suo grido inevitabile.

    Dai luoghi più esposti alle caverne più oscure ogni cosa tremò.

    La Terra abbracciò se stessa, avvolgendosi in una lenta spirale, inglobando nel suo ventre morbido città, colline e l’azzurro mare ed i fiumi ed i torrenti un tempo freschi e gentili. Poi inarcò la schiena come un animale pronto all’attacco, creando montagne spigolose ed aguzze là dove un tempo ci furono valli, ormai ricolme di sangue, colpevole ed innocente. In ultimo soffiò il suo alito rovente di rabbia, essiccando ciò che rimaneva di fertile e creando ribollenti piane paludose.

    Poi, stanca, la Terra si addormentò… decisa a risvegliarsi solo quando ne fosse valsa di nuovo, veramente, la pena.

    *****

    Una terra sonnecchiante e semideserta ospitava quindi, a quel tempo, gli sparuti gruppi di viventi che avevano cominciato a ripopolarla. Una terra senza mare, le cui uniche vestigia erano ormai ridotte ad un immenso specchio di acqua salata, detto il Grande Lago. Genti sopravvissute, di genia mista, di origine sconosciuta, si erano stanziate, gomito a gomito, nei pochi luoghi in cui vivere era possibile, governati dalla placida forza di un Unico Re, sovrano indiscusso ed indiscutibile. Così esse si unirono e le Antiche Razze primigenie scomparvero.

    Più di trecento giri di sole prima la città di Invero, una delle tre più antiche, devastate e rifondate intorno al Grande Lago, era stata eletta luogo in cui erigere il Reale Castello ed era quindi diventata per tradizione il cuore del mondo vivibile.

    Infatti, diversamente dalle altre due città costiere (la variegata Amiranta il cui porto era centro di tutti i mercati e la distaccata Mnema, sede dell’Accademia della Conoscenza) che erano entrambe sorte su terreni pianeggianti, la Città di Invero, dopo i cataclismi, si era sviluppata intorno ad una ripidissima collina, inizialmente usata come torre di avvistamento: questa sua caratteristica fisica fu proprio il motivo della scelta. Vi era, inoltre, all’apice di quell’altura centrale, una fila di pietre molto simili ad enormi vertebre, la cui roccia iniziale sembrava essere la base di un ipotetico collo infilato nel terreno. Molte leggende profetizzavano che, qualora la Terra si fosse finalmente risvegliata, quel collo si sarebbe rialzato, sollevando la testa, ora conficcata nelle oscure profondità, e mostrando un viso sorridente. Per questo motivo quella roccia era detta la Pietra della Terra. Un bosco di ricciomeli*¹ la circondava come per proteggerla, tendendo al cielo braccia nodose cariche di dolci frutti pungenti. Da nessun’altra parte nelle Terre abitabili quel tipo di albero riusciva a sopravvivere, forse a causa del particolare tipo di terriccio, scuro e polveroso, del luogo.

    L’Ultimo Concilio, antico come la memoria ed immutabile come sempre è il passato, aveva stabilito un preciso rituale per l’incoronazione di ogni nuovo Re: il prescelto veniva ricoperto con un lunghissimo e pesante mantello la cui base in tela grezza era intessuta di ossa e di semi, simbolo di quello che fu e di quello che sarà. Con le spalle gravate da un tale pesante fardello, il futuro sovrano doveva salire la scalinata ripida che conduceva dalla Piazza Centrale Reale di Invero alla reggia sovrastante, senza mai fermarsi o chiedere aiuto. Solo lì, ponendo entrambe le mani sulla Pietra della Terra, egli avrebbe potuto pronunciare Il Giuramento del Re Nascente:

    Io, Re Nascente,

    giuro sul mio onore, sulla mia vita e sulla mia morte,

    di aver scelto la via della reggenza con gioia

    liberamente

    e per mia volontà

    e che,

    qualora volontà e gioia venissero meno,

    lascerò ad altri questo onorevole compito.

    Giuro di difendere le genti e la loro vita.

    E nell’abbandonare ogni mia cosa,

    compreso il mio nome ed ogni mio affetto,

    giuro che farò di tutto

    affinché la Terra si risvegli durante la mia reggenza.

    Che questo sia, nel nome del Re.

    *****

    Nel nome del Re e di tutti i Re che l’hanno preceduto: questa birra è veramente buona e… fredda al punto giusto! Oste, un’altra pinta a questo tavolo!. Con l’occhietto azzurro reso ancora più vivace dall’alcol e dal calore del grande camino, Loris Belcanto sembrava un bambino felice. Solo una cosa poteva rovinare quel bel momento e quella cosa era a pochi passi da lui e si chiamava Enrichetta.

    Dopo infiniti tempi di rigore, studio e sobrietà, vissuti nella avita magione della moglie, unica erede dell’antica e ricchissima casata degli Freddasassi da Montetorvo, l’esuberante Loris, per approfondire con l’aiuto dei colleghi Accademici alcune ricerche sulla Storia del Mondo vivibile, era stato ‘costretto’ a trasferirsi da Invero a Mnema per circa sei lune ed aveva in seguito ripetuto quello spostamento ad ogni Mezzosole. Il cambiamento aveva radicalmente mutato anche la sua vita e, da timido studente e riservato ricercatore, si era trasformato in gaudente scienziato, amante in pari misura di belle donne e mappe antiche!

    L’uomo, pur di non far cadere lo sguardo sul viso, grondante disappunto, della Signora Belcanto, fissava ogni cosa in giro con molta attenzione: due minuti di osservazione furono quindi dedicati ai dettagli di decomposizione di una quaglia morta, appesa alla grande trave di legno che dal camino arrivava fino alla porta della cucina; da lì il suo sguardo cadde sul pomolo della porta d’ingresso, …lucido per il continuo uso più che per un’accurata pulizia!, dedusse Loris con una certa soddisfazione intellettuale, osservando le tracce di grasso di cinghiale e terra che invece ne circondavano la base, poi quella maniglia girò e la porta si allontanò dall’esame di Loris e fu rapidamente nascosta dietro il fluttuare grazioso di un abito di seta azzurra.

    CAPITOLO II

    E NON ERANO TUTTI UGUALI

    Il vento del Nord richiamò le sue gelide folate per sferrare, insieme ad esse, un attacco degno delle prime notti fredde della fine di Mezzosole. Aveva lasciato che quelle scherzose e gelide avanguardie giocassero con le foglie cadute e con gli abiti dei frettolosi abitanti di Amiranta, prima di scendere in campo di persona: veniva da lontano e gli piaceva essere annunciato!

    Era nato fra le gelide cime ghiacciate delle Rupi di Nordri e conosceva bene il sapore cristallino ed azzurro di quella terra. Aveva attraversato il Grande Lago e su di esso aveva seminato nebulose di grandine: piccoli ghiacciati universi si erano creati al suo tocco, solidificando le mucillagini di superficie ed i vapori acidi. Così il vento del nord aveva perduto parte del suo gelo… ma questa era, da sempre, la sua via… sarebbe tornato, rinforzato, fra circa due lune*2, ed allora si sarebbe mostrato in tutto il suo glaciale splendore.

    Il viaggio però non era ancora concluso: il vento avrebbe continuato il proprio volo verso ovest, sfiorando la costa sud del Grande Lago, lungo la Strada Reale, e poi avrebbe di nuovo puntato verso Nord, trascinando stancamente il suo restante freddo e scaricandolo finalmente su Friza, la zona dei bassipiani innevati, dove avrebbe lasciato scorazzare le sue glaciali folate per almeno una luna, prima di tornare a casa.

    Friza, a dispetto del clima, era l’unica zona in cui fosse ancora possibile coltivare i campi ed infatti un gran numero di contadini e braccianti di origini barbare viveva nei piccoli villaggi, detti kana, che ne costellavano la valle. Ancora più a sud ovest di questa terra preziosa però, quasi per un bizzarro disegno della natura ferita, giaceva invece la zona più insana e cupa di tutti i luoghi abitati: la Piaga, dove sorgeva il Villaggio dei Non Tollerati.

    *****

    Corri, maledetto nullafacente! Il rumore secco di un piccolo sasso scosse il coleottero: non aveva idea che ce l’avessero proprio con lui, non sapeva di essere in gara. La pista era stata delimitata con alcuni cocci di vetro, di vari colori, sottratti dai campi di raccolta ed era, forse, la cosa più bella che si era vista in quel polveroso cortile da molto tempo dopo di lei; no, non si doveva parlare e nemmeno accennare all’accaduto. C’era stato un patto ed i patti vanno rispettati.

    Dentedoro guardava la luce bassa del tardo pomeriggio riflettersi nei vetri trasparenti ed in parte trapassarli, disegnando piccole chiazze colorate ai piedi di ciascuno di essi. Sembrava un arcobaleno, se non altro per quel che gli avevano raccontato degli arcobaleni. Da molti Giri Grandi di Sole infatti non pioveva più ‘normalmente’, almeno sul Villaggio dei Non Tollerati, e cose come: nuvole leggere, arcobaleni e pioggerelline, erano entrate prima nei racconti dei vecchi detenuti e poi nelle storie inventate. Solo un paio di volte all’anno fiumi d’acqua si abbattevano sulla desolata ed arida terra della Piaga portando più danni che ristoro e poi null’altro. Comunque a Dentedoro piacevano quelle storie, anzi tutte le storie, le ricordava sempre alla perfezione e molti gliene raccontavano. Ma questo ora gli interessava poco; la cosa importante, in quel momento, era che quel suo dannato insetto arrivasse per primo al traguardo e mangiasse il pezzetto di carne di lupo prima che gli altri avessero raggiunto la vecchia giara senza fondo, dalla quale lui era già passato da un pezzo. C’erano delle regole e le regole vanno rispettate.

    Il rumore del sassolino appena lanciato aveva però evidentemente sortito l’effetto desiderato perché il coleottero, dal guscio grigio e verde, sembrò aver improvvisamente compreso la situazione. Così gli altri insetti erano ancora all’imboccatura del vecchio coccio quando l’eroico coleottero, dopo una goffa corsa ticchettante, aveva affondato le sue mandibole nel pezzo di cibo: Dentedoro aveva vinto ed anche quella settimana avrebbe ricevuto un’intera razione di pane e un’ora in più di riposo. È inutile che quelli dicono che non vale perché io ci parlo e ci comando di fare presto e arrivare primi. Ho vinto di nuovo e basta. pensava tronfio, giocherellando con l’insetto lucido nel palmo della mano.

    Nel Villaggio la comunità lavorava costantemente, dalle prime ore dell’alba alla sera e, talvolta, perfino di notte. Tutto quello che era prodotto serviva solo a soddisfare i bisogni della comunità stessa ma, poiché non vi era alcuna regola imposta dall’esterno tranne quella, perentoria ed ineludibile, di non uscire… si erano con gli anni create delle gerarchie interne e, come era prevedibile, il gruppo dei più forti aveva assunto il potere e dettato le leggi. Naturalmente tale gruppo era estremamente mutevole e l’avvicendamento al ruolo di Capo Villaggio era molto frequente e mai determinato né da un volontario abbandono né da una morte avvenuta per cause naturali.

    Il cosiddetto Villaggio dei Non Tollerati era stato fondato, all’inizio del Regno Unico, sulle vestigia di un antico luogo in cui originariamente venivano tenuti in isolamento i cosiddetti ‘malati’. Si narrava che un incantesimo potentissimo, invisibile ed ormai sconosciuto, fosse stato creato ai tempi della sua edificazione intorno a quello spazio, per ‘contenere’ indefinitamente gli ospiti dotati di poteri non graditi. Lo spazio interno e le mura fatiscenti erano stati poi ristrutturati e le vetuste barriere erano state rinforzate per raccogliere e trattenere anche coloro i quali creavano resistenze al nuovo governo. Col procedere dei tempi quel luogo era man mano diventato una specie di campo carcerario in cui, da tutto il mondo vivibile, venivano mandati coloro che si riteneva potessero essere un pericolo… o anche solo un fastidio per gli altri.

    Così sospetti maghi, lucidi assassini e delinquenti di ogni genere si mischiavano a folli criminali o a poveri pazzi innocenti; gli imbroglioni spietati si mescolavano con gli imbrogliati rabbiosi e desiderosi di vendetta e purtroppo, fin troppo spesso, semplicemente con intrepidi ribelli o inermi stravaganti. In pratica chiunque, nell’intero Regno, fosse per qualche motivo poco tollerato dalla comunità circostante, rischiava di essere spedito al Villaggio.

    Dentedoro ci stava da quasi trenta Giri Grandi di sole: si diceva che avesse tagliato la gola ad una decina di persone, ma null’altra prova a suo carico c’era stata tranne il fatto di essere stato trovato sul luogo del delitto insieme a quei cadaveri: le sue risposte, giudicate folli ed inconcludenti, avevano fatto il resto. Pareva che qualcuno si fosse divertito a raccontargli che c’era stato un incidente e che avrebbe dovuto rimanere di guardia per evitare che uomini cattivi rubassero occhi e denti alle vittime. Naturalmente nessuno aveva potuto credere ad una simile ingenuità e Dentedoro aveva docilmente seguito i soldati al Villaggio in attesa che si facesse chiarezza su quel mistero. Ma nessuno si era più interessato a lui, nessun familiare, amico o conoscente, si era mai presentato per avere sue notizie e neanche il suo luogo di nascita era risultato chiaro: anche questa mancanza di dati era stata ritenuta opera di ‘occultamento personale magico volontario’ e, come tale, punibile con la detenzione perpetua.

    E intanto il giorno era calato e le fiaccole erano state accese, come sempre, da coloro i quali sarebbero stati di turno quella notte e che avevano appena cominciato il proprio lavoro.

    Dentedoro sorrise con la testa affondata nel ruvido cuscino di fieno e lana: aveva vinto la gara anche questa volta e quindi l’aspettava un riposo lungo ben un’ora più del solito, ma soprattutto un altro tramonto era arrivato e quindi il momento in cui lei sarebbe tornata per salvarlo si stava indubbiamente avvicinando. Presto avrebbe riabbracciato la sua Ildicò e le graziose mani di lei gli avrebbero scompigliato di nuovo i capelli, come sempre. C’erano state delle promesse e le promesse vanno mantenute.

    *****

    Il sole era calato da tempo anche ad Amiranta e nella vecchia Taverna nessuno sembrava rammaricarsene: Montone serviva la birra migliore dal tramonto in poi, e questo era un dato di fatto. Così due pinte fresche della migliore-spremuta-di-cereali del mondo vivibile, come l’oste usava chiamarla, erano già fluidamente scorse attraverso la gola del gioviale Loris quando i suoi occhi si fissarono, con malcelata insistenza, sulla proprietaria dell’abito azzurro che si era interposto fra lui e la maniglia della porta che stava osservando. L’uomo non ricordava di aver visto niente di più bello da quella volta a Nordri quando, ovviamente per un fortuito errore, era capitato nelle Terre Basse, proprio ai confini delle Acque Ribollenti… dove le donne del luogo usavano fare il bagno tutte insieme.

    Distratto da quei pensieri, e con l’intenzione di pagarsi un terzo giro di birra, Loris prese il borsello delle monete che aveva al fianco, legato alla bella cintura in pelle di karv, e ne trasse una esagerata manciata di denaro tintinnante che rotolò allegramente sul tavolo ed in parte per terra.

    Oh per tutti i pescirana: ma quanto credete che costi la nostra birra, messer studioso? rise Montone, precipitandosi verso di lui e pestando qua e là monetine nel tentativo di fermare la loro corsa fra i tavoli. Loris, estremamente divertito da tutta quella confusione, si infilò sotto il grosso banco di quercia vecchia, tappandosi il naso per mimare scherzosamente un’immersione, e cominciò a raccattare le monete a lui più vicine. Si muoveva con attenzione, cercando di evitare i pestoni del collaborativo oste quando un ben più delicato piedino, gentilmente rivestito da una scarpetta di seta azzurra gli sfiorò il mignolo.

    Un fiume di immagini in rapido susseguirsi scorse davanti a lui: un tacco sottile, un tallone, una caviglia… merletto, gonna… grandi occhioni nocciola chini su di lui con un’espressione rammaricata… rosse labbra socchiuse che dicevano qualcosa.

    State parlando forse con me, Madama? Perdonate ma la posizione sfavorevole nonché il brusio di questa simpatica gente mi hanno impedito di cogliere il senso delle vostre, certamente gentili, parole!. Talvolta Loris stesso era sorpreso dalla propria prontezza verbale.

    Oh Messere, chiedevo solo se, nel tentativo di aiutarvi a raccogliere le vostre monete, non vi avessi invece recato danno pestandovi maldestramente un dito! rispose immediatamente la piccola bocca rossa, mentre la delicata mano di Henneth porgeva all’uomo cinque monete d’oro appena raccolte dal pavimento: ben più del doppio di quello che aveva appena ‘guadagnato’ dal marinaio al porto. È un investimento. si ripeteva mentalmente la donna, obbligando le proprie dita a rimanere aperte ed a restituire, con apparente rilassatezza, tutto quel ben-di-dio al legittimo proprietario.

    Naturalmente non evitò invece che le loro dita si sfiorassero per un attimo né che la mano di lui si soffermasse più del necessario sul suo palmo.

    Nei giorni seguenti, stranamente, Loris Belcanto ebbe molte cose da fare, affari da sbrigare, gente da incontrare, e proprio non gli fu possibile, malgrado i suoi sedicenti tentativi, lasciare Amiranta insieme alla moglie e tornare ad Invero dove, sulla collina di Montetorvo, sedeva dignitosamente la loro casa: l’antica magione dei Freddasassi.

    Enrichetta invece preferì seguire la rigorosa tabella di marcia che era stata stabilita, da lei stessa, fin dall’inizio e quindi, raccattati con sussiego ‘armi e bagagli’, all’alba del terzo giorno affittò una carrozza con ben due cocchieri e si mosse verso Invero, mentre una leggera pioggerellina rivestiva le sue parole di commiato: Loris, non farmi vergognare di te come al solito e sbrigati.

    *****

    Madama Belcanto viaggiò per due giorni ed una notte. Ordinò al cocchiere di turno di fermarsi alla notissima Locanda del Miscredente solo per una rapida sosta, necessaria anche a farsi dare il cambio. L’imponente edificio in pietra scura era illuminato, in parte, da una vecchia lanterna che ne indicava l’ingresso. L’interno era molto austero, quasi misero, benché fosse un luogo di sosta frequentemente usato da coloro che si recavano da Amiranta ad Invero e viceversa. Seguendo la Strada Reale, infatti, la Locanda era posta quasi alla metà del percorso fra le due grandi città. Non è affatto bello per una donna maritata alloggiare in un pubblico ostello da sola. aveva sentenziato Enrichetta e non aveva voluto trattenersi in quel luogo di promiscuità e confusione neanche un minuto più del necessario.

    Dopo una notte ed un altro intero giorno di viaggio, le aride e taglienti forme delle alture che circondavano la ripida collina di Invero si stagliarono all’orizzonte. Un sorriso increspò leggermente le sottili labbra della donna: infine era di nuovo a casa.

    Un paio di settimane dopo, le stesse aride e taglienti forme delle alture che circondavano la ripida collina di Invero si stagliarono di nuovo all’orizzonte ma per ben altri occhi: alla loro vista il sorriso che aveva accompagnato durante tutto il viaggio le carnose labbra di Loris, invece si spense in un attimo. Infine era di nuovo a casa.

    Trascorse quasi una luna prima che, approfittando della Conferenza di Pieninverno, organizzata annualmente dall’Accademia della Conoscenza, il povero Loris riuscisse a partire di nuovo ed il suo sorriso ad affiorare ancora, senza paura di essere sbeffeggiato e rimandato indietro nelle ombrose vie che conducevano alla compunta serietà dell’antica famiglia Freddasassi da Montetorvo.

    Quel bramato sorriso ritornò infatti agli angoli della sua bocca, nel preciso momento in cui l’uomo lasciò alle proprie spalle le solite alture-rapide-e-taglienti di Invero, poi ancora quando, dopo circa tre giorni, passò accanto alla città di Amiranta e in ultimo non appena, giunto a Mnema, si ritrovò alla Taverna del Calamaio a bere vino speziato con i soliti vecchi ‘amici di studi e follie’, come gli piaceva definirli.

    …ciglia da cerbiatta e vitino da ape regina… e se ve lo dico io potete crederci! stava appunto precisando Loris con gli occhi accesi dai ricordi, dal caldo del camino e dall’alcol, quando un giovane collega, che era stato fino a quel momento in silenzio e con la bocca semiaperta, tutto preso ad ascoltare, commentò quasi fra sé: Il Sapiente Primo ha incontrato la Ricercatrice Sophia, il Messer Belcanto ha conosciuto questa Henneth… ma solo a me queste cose non capitano mai?

    Una fastidiosa sensazione di rivalità invase l’entusiasmo di Loris che si ammutolì di colpo: il vecchio decrepito Sapiente Primo aveva quindi una storia da raccontare che per poco non metteva in ombra la sua? Inaudito ed inopportuno. Questo è quanto. pensò, rabbuiandosi palesemente.

    Ma il gruppo di ascoltatori sembrò non accorgersene per niente e, dopo qualche attimo di attesa, le domande cominciarono a fioccare come la neve di Pieninverno che, intanto, imperversava all’esterno della taverna imbiancando i tetti aguzzi dell’Accademia e le strade affollate di banchi di libri e chioschi di vincaldo.

    E così i come-vi-siete-incontrati ed i ma-vi-vedrete-ancora si mischiarono disordinatamente con i come-è-andato-il-viaggio. Anche gli spostamenti in realtà, nelle Terre Abitabili erano infatti una avventura notevole…

    Il serafico Loris aveva impiegato ben più di due giorni per raggiungere di nuovo Amiranta poiché aveva preferito fermarsi alla Taverna del Miscredente …per tutto il tempo necessario ad un buon sonno ed una buona bevuta e, una volta in città, era rimasto lì per un paio di giorni prima di affrontare la rimanente parte del viaggio e raggiungere finalmente Mnema.

    La via che l’uomo aveva percorso intorno al Grande Lago, detta appunto la Strada Reale, era la più sicura e, di fatto, anche l’unica ben tracciata in tutte le Terre Abitabili. Si trattava in pratica di una larga striscia di terra, più o meno piatta, che quasi ‘circumnavigava’ l’enorme bacino e sulla quale due carri, provenienti da parti opposte, sarebbero potuti passare contemporaneamente senza la necessità da parte di uno dei due di dover cedere il passo, cosa che aveva creato nei tempi andati non pochi problemi di ordine pubblico.

    Gli altri percorsi secondari, che si dipanavano dalla Strada Reale per raggiungere i luoghi non immediatamente intorno a quel grande specchio d'acqua, diventavano man mano più stretti fino a sparire del tutto fra le paludi fluorescenti e malsane, le aride terre soffocanti o le rocce.

    L’ampia superficie di Terre Non Abitabili rimaneva all’esterno di tutto questo: piatta, silenziosa e mortale.

    Beh, il viaggio è andato bene, grazie. rispose Loris, uscendo dalla nebbia dei pensieri infastiditi ed avvolgendosi il volto col solito sorriso. Per fortuna non ho incontrato tempeste di melma né Obbrobri!

    Era sempre abbastanza ardito pronunciare quella parola che evocava orrore e preoccupazione e l’uomo lo fece di proposito, quasi per un’inconscia volontà di vendicarsi di quegli sciocchi che non avevano dato alla sua fantastica avventura amorosa il peso che meritava, paragonandola addirittura a quella dell’incartapecorito Ennio Quantaltro, il Sapiente Primo.

    L’origine del drammatico problema dei cosiddetti Obbrobri era una delle conseguenze degli eventi accaduti durante e dopo le Guerre di Magia, eventi che avevano condotto, appunto, al cosiddetto ‘Mondo attuale senza mari né razze’, come era descritto nei volumi di Geogentografia dell’Accademia.

    Di fatto, a seguito del graduale fondersi dei residui delle popolazioni sopravvissute al disastro, umani, nani, elfi, orchi… driadi dei boschi e tutto il resto, il conseguente assottigliarsi delle differenze fisiche e mentali, aveva ulteriormente facilitato le unioni fra dissimili: così, tutte le caratteristiche genetiche di quelle che un tempo erano razze estremamente diverse fra di loro erano confluite in un’unica specie di esseri, chiamata scientificamente la Razza dei Viventi, ma comunemente definita ‘umana’.

    Solo dopo qualche centinaia di giri grandi del sole il disastro degli Obbrobri era emerso in tutta la sua tragicità: alcune peculiarità di determinate genti, infatti, si dimostrarono essere geneticamente incongruenti per alcuni incroci e la progenie che ne derivò risultò affetta da disastrose ed orrende stranezze, sia esteriori che di indole. Questi esseri, definiti comunemente Obbrobri, erano in effetti estremamente vari e, pur radunandosi in gruppi di creature abbastanza simili fra di loro, generavano a loro volta mutazioni imprevedibili e spesso letali per gli stessi genitori. Tali pericolosi individui, banditi perfino dal branco, vagavano alla ricerca di qualche simile a cui aggregarsi, o vivevano la propria esistenza in una disperata solitudine. Non tutti erano malvagi di natura, ma molti lo diventavano a seguito di una vita fatta solo di dolore e di emarginazione e spesso, proprio intorno a questi esseri così tragicamente segnati, si radunavano altri disperati, creando dei gruppi pericolosissimi e selvaggi che sembravano vivere solo per vendicarsi della propria esistenza.

    Perché, se ne erano forse visti nei paraggi? rispose, con tono forzatamente distratto, un baffuto collega seduto proprio di fronte a Loris, facendo ondeggiare fra le dita l’aromatica bacchetta di legno di gyano con la quale aveva appena mescolato il proprio vincaldo. Poi, non ottenendo risposta precisò …di ‘quelli’ intendo….

    Non ne so molto, caro Aginulfo, rispose lo studioso con un sorriso sornione, Sai: ero impegnato in ben altre cose prima… e in ben altri ricordi poi! Non so se mi capisci... e Loris Belcanto terminò la frase facendo schioccare la lingua sotto al palato ed inclinando la bocca di lato, come suo solito.

    Anche a tanta distanza da casa un riflesso condizionato lo portò a muovere rapidamente gli occhi a destra e a sinistra per essere sicuro che Enrichetta non fosse nei paraggi: lei odiava quel rumore.

    CAPITOLO III

    MAGIA

    El Isereth ‘l’Ultimo Mago’, come amava ed osava definirsi, entrò in questa storia ben dopo le chiacchiere di Loris e molti bicchieri di vincaldo, ben dopo numerose serate di gongolanti racconti del Sapiente Primo e di vittorie di Dentedoro a corsa-di-coleotteri e precisamente quando, a Primofiore, la Terra di Friza non si risvegliò.

    Il Re temeva la carestia sopra ogni altra cosa.

    Durante il regno del Predecessore, come si denominava per legge il Re appena precedente a quello in carica, le Terre Abitabili si erano notevolmente ripopolate grazie ad una attenta politica economica, fondamentalmente rivolta alla tutela ed allo sviluppo delle zone agrarie intorno a Friza: i cosiddetti Kana, che erano disseminati in tutta la vallata nord occidentale fino alle fredde terre ai confini della Crepa della Mano di Manlio. Alla parte accessibile delle crepe si accedeva unicamente da aspri sentieri montani che lambivano le ultime terre, partendo dalla città di Nordri.

    I Kana erano villaggi creati ed abitati da uomini straordinariamente forti e resistenti, fieri di definirsi i discendenti di antichi incroci fra barbari umani e orchi delle montagne. Costoro si erano suddivisi in varie tribù, capeggiate ciascuna da un proprio Padreterra, una sorta di capofamiglia che aveva rivendicato per sé e per i suoi un pezzo di terra, dal quale ogni villaggio prendeva il nome. I maggiori Kana erano sette, ma quelli che, al momento, maggiormente preoccupavano il Re erano i tre produttori di grano, cioè quelli più a sud: Zoltorkana, Blankorkana e Kornumkana, rispettivamente guidati da Zoltor il Saggio, Blankor il Puro e Kornum la Bestia.

    I più validi Tecnoscienti di Nordri erano stati strappati alle loro ricerche ed inviati, senza troppi convenevoli, a studiare in loco il motivo di quella preoccupante situazione: la terra non si era risvegliata e né un germoglio di grano, né una timida piantina avventizia dai piccoli fiori delicati, e neanche l’invasiva gramigna-gialla-rampicante di Blond sbucava dalla terra compatta e silenziosa.

    Vostra onorevolissima et quindi onoratissima Maestà, scrisse, dopo circa una luna di vane ricerche, il Tecnosciente Primo, capo della spedizione proveniente dal Laboratorio di Nordri, "…gli studi sul campo sono terminati e mi duole dire che nulla di rilevante, nell’aspetto fisico-esteriore del composto terroso ivi presente è a Noi balzato all’occhio come possibile causa di questo disastro. Pertanto, malgrado la piacevolissima accoglienza ricevuta da costoro nei comodi alloggi di pietra e paglia, umidi di notte e soffocanti di giorno, e l’ottimo cibo messo a Nostra disposizione direttamente sul pratico selciato della piazza principale, chiediamo il permesso di Vostra Maestà di tornare al Laboratorio di Nordri per poter meglio esaminare i reperti raccolti ed i dati trascritti.

    Sempre al Vostro servizio,

    Aran Fortelente,

    Tecnosciente Primo"

    Questa storia è altamente preoccupante. borbottò il Re, dopo aver ascoltato con attenzione la stentorea voce del lettore di corte, E non è scritto altro? aggiunse in tono sottilmente speranzoso.

    No, Sire, niente altro: ci sono solo alcune macchie di sudore e del sugo di capra arrosto misto a terra, a giudicare dall’odore. rispose con flemma il lettore.

    Bene… sospirò il Re poi, rivolto ad un altro omino dall’aria compunta, fermo accanto al trono, ordinò: Ciambellano: che si indica il Consiglio! C’è una grave decisione da prendere.

    E fu così che, in una normale mattina di tardo Primosole, uno strano corteo di carrozze aveva percorso quella parte della Strada Reale che conduceva alle Vie Melmose e, dopo aver sfidato il fango molle e le sabbie mobili acquattate fra i miseri canneti che le delimitavano, era giunto ai confini di Antiqua, il Regno di El Isereth: l’Ultimo Mago.

    In tempi più remoti nessuno, che avesse cara la propria vita, si sarebbe definito tale.

    In seguito ai disastri che erano stati causati dagli incantesimi lanciati durante la grande Guerra di Magia, infatti, la cosiddetta scienza-occulta era stata del tutto bandita dalle Terre Abitabili. Dopo aver ‘eliminato dai viventi’ ogni tipo di mago o stregone, i sopravvissuti alla catastrofe erano stati unanimi nel dare una caccia spietata e senza confine a tutti coloro che mostravano attitudine alle arti magiche, nel terrore che potessero, col tempo, far rinascere questa pericolosissima pratica. Ma i molti Giri di Sole trascorsi avevano affievolito il terrore puro nelle menti delle persone e lo avevano relegato ai racconti dei vecchi e ai nuovi libri di storia e quindi nessuno più se la sentiva di ‘eliminare’ definitivamente chi fosse fornito di capacità speciali: così essi, i temuti incantatori sempre più rari, furono definiti malati ed alla loro sopravvivenza fu dedicato un luogo specifico. Quel luogo, adibito in tempi più recenti a prigione del Regno col nome di Villaggio dei Non Tollerati, si chiamava La Fortezza e sorgeva al centro della Piaga.

    Territorio sinistro e cuore incredibilmente arido di una valle umida e nebbiosa, circondato per la metà meridionale dalle Terre paludose del Sejàr, la Piaga doveva il proprio nome al fatto che inizialmente fosse una zona del tutto inabitabile: i poveri miserabili che, per disperazione, avevano originariamente tentato di stabilirsi lì, erano morti in breve tempo col corpo pieno di orribili piaghe, a causa di una specie di emanazione magica del terreno, residuo di chi sa quale spaventoso incantesimo. Questo effetto mortale si era pian piano affievolito ed, in svariati giri interi del sole, solo la conformazione stessa della terra, arida e segnata, sembrava ricordare il perché di quell’orribile definizione. La Fortezza che era stata un tempo costruita lì come luogo di accoglienza per i malati-di-magia, era rimasta così per molto tempo disabitata, perché il seme di quella malattia stessa sembrava essersi del tutto esaurito e venne poi, appunto, adibita a prigione del Regno col nome di Villaggio dei Non Tollerati. Tutte le oscure leggende ed i fantasiosi racconti che l’avevano circondata negli infiniti mari del Tempo passato, si dileguarono lentamente nella memoria delle genti, lasciando una tenue traccia di sé solo all’interno di quella comunità forzata e nei racconti della sera di qualche vecchio pazzo.

    *****

    Sire, ci sono delle Reali carrozze in avvicinamento. Devo far calare il ponte levatoio? L’impettito siniscalco piumato aveva appena raccolto l’informazione che un veloce araldo aveva portato con sé dalle mura che circondavano la Torre del Mago, cuore di quel regno lacustre e nebbioso e sede del Re.

    El Isereth, Signore di Antiqua, rimase zitto. Nella sua mente una serie di domande si accavallava ad una serie di risposte, creando una spiacevole confusione.

    "Sarà l’inizio di un’Invasione, forse? Staranno tentando di nuovo di annettere anche la mia isola e le mie terre al loro ridicolo Regno Unico? Dovrei quindi attaccare per primo e non aprirgli i cancelli!

    Quanto ci costerebbe una guerra? Magari invece dovrei solo parlargli, convincere le loro piccole menti a desistere da un tale piano autolesionista!

    Forse però sono venuti fin qui per invitarmi alla Reggia ed elargirmi qualche premio alla ‘Magia’! Mmmmh… a pensarci bene non credo proprio, forse all’Intelligenza o alla Coerenza: in quest’ultimo caso però, per la bassa stima che ho io di loro, non dovrei andarci affatto."

    Sire, Sire! gridò un secondo araldo trafelato, arrivando di corsa e spingendo via il primo dall’ingresso senza neanche rivolgersi al siniscalco: … essi sono giunti alle mura ed hanno chiesto alle guardie della porta di lasciarli entrare perché devono conferire col Re Mago!.

    El Isereth sembrò non curarsi di quella assoluta mancanza di formalità, la notizia era troppo clamorosa.

    Re Mago hai detto? Mi hanno chiamato proprio così? È veramente strano: si erano sempre rifiutati di usare quell’appellativo, a me invece tanto adeguato: questo è stato quasi il principale motivo della nostra discordia!

    El andava su e giù, misurando a grandi passi la sala del trono in tutte le direzioni ed il povero siniscalco impettito lo seguiva solo con lo sguardo, facendo una gran fatica e talvolta strabuzzando i suoi occhi gialli da gallina spaventata.

    La stanza era abbastanza ampia per essere la base di una altissima torre: ai due lati del trono, posto frontalmente all’ingresso, due scale salivano intrecciandosi in alto con una strana armonia. Sembravano lunghi tentacoli che proteggessero un luogo scuro e riparato, quasi una nicchia, in cui era posto il bellissimo trono di pietra scura e ferrocarbone*³. Anche le fiaccole, infilate sulle pareti intorno alla sala, brillavano di una luce fredda ed insicura che muoveva i contorni delle cose illuminate, rendendole sfuggenti più di quanto facesse la stessa oscurità.

    Tutto era calcolato nella Torre del mago: così era la Reggia di El Isereth e così era il suo Re.

    L’attenzione del primo araldo fu improvvisamente attratta dal trambusto proveniente dall’esterno: un misto di grida e rumore di armature in veloce avvicinamento. Si voltò di scatto verso il lungo corridoio e poi di nuovo verso il salone, ma dalla sua bocca aperta non fece in tempo ad uscire neanche un suono.

    Che entrino, vediamo cosa vogliono! esclamò il Re con imprevedibile prontezza, stoppando tanto rapidamente il proprio vorticoso andirivieni da far trasalire il tesissimo siniscalco.

    Bastone e mantello, presto: voglio fare… una buona impressione. aggiunse poi, sorridendo al pensiero del lucido mantello nero, del bastone magico con la sua sfera di Materite, rossa e scintillante, in punta e dell’effetto che quella visione ‘proibita’ avrebbe avuto sulla delegazione reale.

    E l’effetto ci fu.

    Quando il lungo corteo preceduto dal Supremo Ambasciatore, seguito dalla scorta d’onore del Regno e poi dalla scorta d’onore del Regno di Antiqua, fece il proprio ingresso nella Sala del Trono, solo il primo giunse veramente a destinazione. Tutti gli altri, a seguito della brusca frenata dello stesso ambasciatore e del suo istintivo fare tre passi indietro, si trovarono confusamente ammucchiati fra bandiere e stendardi, molti finirono a terra e molti, per non cadere, cominciarono a roteare vorticosamente le braccia, munite spesso di spade scintillanti da parata, colpendo nasi ed elmi.

    Per tutta la Magia del mondo! Se questi sono i soldati del vostro Re dovrei smettere di preoccuparmene! esclamò El Isereth, con un tono indifferente. Sembrava che parlasse senza interesse, mentre i suoi occhi osservavano prima il tintinnante mucchio di persone che stavano riprendendo delle ‘onorevoli’ posizioni, poi il soffitto e poi, con un controllato sorriso compiaciuto, il pomo del bastone che brillava potente nella penombra. Cosa volete da me, dunque? concluse.

    La risposta non fu affatto breve ed il sole invasivo di Caldosole inondava ormai di bassi raggi le paludose terre di Antiqua, galleggiando sotto forma di schegge di luce fra il fango ed i tetti scuri ed umidi delle case, quando finalmente il motivo di quella inaspettata visita fu del tutto chiarito.

    Un varco oscuro, sovrastato da un baldacchino di pietra, segnalava l’accesso ad una buia gradinata posta al lato dell’ingresso della Torre del Mago.

    Che si imbandisca una cena nella Sala del Trono! ordinò il Siniscalco al responsabile alle cucine, scendendo rapido quelle scale mentre in cielo apparivano le prime stelle. Sua Maestà ha bisogno di essere in forze, la conversazione andrà ancora per le lunghe a quanto pare…

    Cose gravi, Messer Manrico? Per essere venuto qui voi stesso a cambiare la Procedura-della-cena ci deve essere un gran bel problema di sopra! chiese familiarmente, ma con tono preoccupato, l’omone tondo e calvo al quale si era rivolto, mescolando un profumato minestrone in una pentola di rame che teneva ben salda con le altre due mani.

    Mmhh… Olindo, lo sapete bene che non ne potrei parlarne per niente, ma vi dirò qualcosa in tutta confidenza: riguarda la carestia che sta producendo tutta la scarsità di materie prime di cui voi stesso, ultimamente, vi lamentate tanto! rispose a voce bassa il Siniscalco, inclinandosi con tutto il corpo verso l’orecchio dell’altro, fino a che i suoi grossi baffoni a riccio non lo ricoprirono del tutto.

    Per tutti gli stufati di muska! Allora è vero che ci sono grossi problemi nei Kana! Le voci che girano e che parlano di terra arida e niente grano, di alberi secchi, di frutti striminziti…

    … di pascoli secchi… aggiunse una piccola donna dalle orecchie singolarmente a punta, fermandosi accanto a loro con una pila di lenzuola nere e ben stirate fra le braccia.

    Yera, quante volte ti ho detto di non stare a spiare i discorsi degli altri! la rimproverò con tono sconfitto il siniscalco, fissandola con i suoi occhi gialli.

    Perdonatemi Messer Manrico, ma voi state parlando a voce tanto alta che non ho potuto fare a meno di ascoltare: ero giù al terzo piano, nella stireria sapete, mica in un’altra citta! Eh! rispose pronta la ragazza.

    Eh già: non fa una piega! commentò fra sé il cuoco e, soddisfatto del proprio gioco di parole, dette una leggera gomitata al siniscalco continuando ad annuire col lucido testone.

    Ma insomma, possibile che non si possa mai fare un discorso serio in questa torre? starnazzò il siniscalco allungando il collo. I suoi grossi baffi vibravano di collera. Vedrete quando non ci sarà più cibo e quelli… ehmmm… di sotto avranno fame! Vedrete quanto ci sarà da correre, allora!

    Intanto al piano superiore la conversazione ferveva ininterrotta. Perfino il buon Vino di Alghe Nere non era riuscito a placare la strisciante sensazione di un pericolo strano e incombente.

    …e quindi Maestà capirete bene che, dopo aver appurato, senza ombra di dubbio, che la cosa non fosse né di origine naturale né frutto di qualche malvagia Tecnica oscura, il Re… ehmm… l’‘Altro’ Re intendo, ha mandato qui la delegazione che ho l’onore di guidare al fine di chiedere… stava dicendo il Supremo Ambasciatore, studiando cautamente le parole da usare, mentre due rapidi servi spostavano al centro della sala un improvvisato tavolo di noce nero delle Terre Basse, dalle imponenti gambe di ferro carbone, trascinandovi intorno qualche grossa sedia intarsiata.

    Accidenti, che forza! si interruppe l’uomo, distratto dalla facilità con cui i due piccoli domestici stavano trasportando cose che, ad occhio e croce, dovevano pesare ben più di quanto un uomo normale potesse sollevare.

    …aiuto? È questa la parola che stavate cercando, vero: a-i-u-t-o. Il Re delle Terre Abitabili chiede forse aiuto al Re di Antiqua?!. La frase di El Isereth ed il suo tono divertito riportarono l’attenzione dell’ambasciatore sul discorso incompiuto.

    Se gradite usare quel termine siete più che libero di farlo, Maestà, ma in realtà io sono stato mandato, per il bene comune, a chiedere un Consulto di Magia. Un consulto non tanto con un Re ma con l’Ultimo Mago esistente. rispose quindi con voce compunta e controllata mentre, con la coda dell’occhio, seguiva ancora le mosse dei due piccoli servi intenti ad apparecchiare.

    Il discorso fu lungo e complesso, mentre indistinte ma profumate pietanze si susseguivano sulla tavola intorno a candelabri in onice che piangevano oscure lacrime di cera nera. Al termine della cena però la dinamica dei fatti fu chiara: il mancato risveglio della sola terra fertile di tutto le Terre Abitabili, all’inizio della nuova stagione di Primofiore, aveva gettato nel panico prima la popolazione dei sette Kana, poi i loro rispettivi Padreterra e quindi il Re del Regno. Così, mentre si tentava di far passare la notizia di un ‘problema circoscritto e temporaneo’, per evitare il diffondersi del panico in tutto le Terre Abitabili, i più rinomati tecnoscienti, capeggiati dal Tecnosciente Primo, Aran Fortelente, si erano recati, in segreto, nelle terre dei Kana per studiare la questione.

    Ma nulla era emerso e la carestia incombeva.

    Così l’estremo tentativo di rivolgersi ad un Mago, ma solo ed unicamente per capire se questa disgrazia sia il frutto di qualche nuova stregoneria… tenne a precisare l’Ambasciatore Reale, rimase l’unica cosa da provare.

    …e non vorremmo che la cura fosse più letale della malattia! concluse fiero, ma unicamente nei propri pensieri, l’Ambasciatore.

    Il Siniscalco, alle sue spalle, sorvegliava l’andare della cena.

    Quando le tisane del dopo pasto furono servite e consumate,

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