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Atterraggio in Italia
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E-book264 pagine3 ore

Atterraggio in Italia

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Fantascienza - racconti (206 pagine) - Qualcuno sosteneva che la fantascienza ambientata in Italia non avrebbe senso. Undici autori italiani tra i più brillanti sono qui a dimostrare il contrario!


La sfida di questa raccolta è quella di scrivere fantascienza sfruttando le opportunità che uno scenario come l’Italia offre per questo genere narrativo.

Atterraggio in Italia racconta non tanto un’Italia del futuro (visto che alcune delle storie contenute in questo volume potrebbero accadere già oggi, in quello che viene chiamato “futuro istantaneo”), ma un’Italia fantascientifica, in cui l’interrogativo è posto su cosa accadrebbe se il nostro paese diventasse, all’improvviso, il palcoscenico su cui si muovono e prendono forma i temi della fantascienza: se, quindi, l’Italia diventasse terra di atterraggio di dischi volanti, per citare e al tempo stesso smentire la nota affermazione attribuita a Carlo Fruttero, per cui sarebbe difficile immaginare un disco volante che atterri su Lucca.


Linda De Santi è nata nel 1985, ha una laurea in Lettere ma lavora nel marketing. Appassionata di fantascienza e fantastico, nel 2017 ha vinto il Premio Urania Short e nel 2016 ha vinto il premio Fantasticamente. È stata finalista al Premio Robot e partecipa assiduamente ai contest letterari online. Per Delos Digital è uscito La forma del vuoto nella collana Futuro presente.

Simonetta Olivo è nata a Udine nel 1976. Vive a Trieste. È stata finalista per il premio Urania Short 2017 e per il Premio Robot 2018. Ha pubblicato un racconto nella collana Urania i capolavori nel maggio 2018.

LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2019
ISBN9788825408010
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    Anteprima del libro

    Atterraggio in Italia - linda De Santi

    9788825407891

    Collettivo Italiano Fantascienza

    Prefazione

    Il 31 agosto del 2017 dieci scrittori di questa antologia ricevono la notizia di essere, tutti, finalisti per il Premio Urania Short. Qualche giorno dopo una delle scriventi curatrici, Simonetta Olivo, decide di mettersi in contatto con ciascuno di loro, con la balzana idea di lasciar perdere l’aspetto competitivo della questione e conoscere gli autori in finale al concorso. Quasi tutti rispondono a questo appello e manifestano lo stesso spirito e volontà di conoscersi. Si crea così un primo spazio virtuale, luogo di conoscenza e di condivisione di idee e opinioni. Dopo poco tempo molti si scambiano i racconti finalisti, in una scelta di fiducia e apertura che pone le basi valoriali del gruppo.

    Giunge l'ottobre del 2017, e la manifestazione Stranimondi a Milano, sede della premiazione. Ormai i membri del gruppo si sentono piuttosto vicini e affini, tanto che l'incontro, per alcuni, è come fra amici di vecchia data: man mano che tutti giungono nei colorati e rumorosi locali della Casa dei Giochi di via Sant'Uguzzone, il tavolo del piccolo bar si riempie di questi straniamici, contenti di conoscersi nell'emozione dell'attesa. Così la proclamazione della vincitrice e scrivente curatrice Linda De Santi diviene occasione di festa per tutti e sfocia in una cena in cui si comincia a parlare di progettualità.

    Via dalle intense giornate milanesi il gruppo continua condividere idee e materiali, finché una sera noi due (future!) curatrici scopriamo di aver avuto sincronicamente l'idea di proporre agli altri membri del gruppo la scrittura di un'antologia di racconti. Alla proposta, il momento forse più emozionante di questo lavoro: un coro di sì, fra i quali, un po’ più avanti nel tempo e inaspettatamente, anche quello di Piero Schiavo Campo, accolto nel gruppo dopo un giro di bettole, mare e storici Caffè nell’ambito del Trieste Science + Fiction Festival.

    La sfida che ci siamo posti quando abbiamo deciso di realizzare questa raccolta era quella di scrivere fantascienza sfruttando le opportunità che uno scenario come l’Italia offre per questo genere narrativo.

    Atterraggio in Italia racconta non tanto un’Italia del futuro (visto che alcune delle storie contenute in questo volume potrebbero accadere già oggi, in quello che viene chiamato futuro istantaneo), ma un’Italia fantascientifica, in cui l’interrogativo è posto su cosa accadrebbe se il nostro paese diventasse, all’improvviso, il palcoscenico su cui si muovono e prendono forma i temi della fantascienza: se, quindi, l’Italia diventasse terra di atterraggio di dischi volanti, per citare e al tempo stesso smentire la nota affermazione attribuita a Carlo Fruttero, per cui sarebbe difficile immaginare un disco volante che atterri su Lucca.

    I dieci racconti di quest’antologia sono stati letti e revisionati da ognuno degli autori, in uno spirito di collaborazione e attenzione reciproca che ancora oggi non smette di sorprenderci. Ci siamo dati il nome di Collettivo Italiano Fantascienza per mettere l'accento proprio sull'idea cooperativa che ci ispira e sullo scenario culturale in cui ci muoviamo, quello della fantascienza italiana. Non si tratta quindi di una prospettiva di identità nazionale: uno di noi, Roberto Bommarito, è ad esempio cittadino di Malta, nuovi membri potrebbero provenire da ogni Paese del mondo e scrivere anche in lingue diverse dall'italiano.

    Il logo che abbiamo scelto e concordato scambiandoci scarabocchi fatti a penna (a cui il grafico Lorenzo Nicoletti ha saputo dare una forma molto più bella di quanto potessimo mai immaginare) vuole rappresentare l’entanglement quantistico, per affinità con il concetto che esprime: pur nella distanza fisica fra i membri del Collettivo, esistono un’influenza reciproca e un contatto umano che vanno oltre il quotidiano visibile.

    Il frutto di questo contatto lo avete tra le mani.

    Come curatrici, siamo orgogliose dell’antologia che vi presentiamo oggi.

    Volevamo realizzare una raccolta di racconti di fantascienza italiana, ma ciò che alla fine ci interessava davvero era proporre un libro di belle storie. Storie che parlino di futuro, ma soprattutto che possano donare visioni insolite sul nostro Paese e offrire punti d’osservazione dalle angolazioni che solo gli elementi del fantastico rendono possibili.

    Ecco a voi il risultato.

    Non ci resta che augurarvi buona lettura!

    Simonetta Olivo

    Linda De Santi

    Le curatrici

    Campaldino

    Prima parte

    di Piero Schiavo Campo

    Mentre tornavo in macchina da Parigi, mi venne in mente di passare da Ginevra. Avrei allungato la strada ma il tempo era bello, non avevo impegni urgenti a Milano ed ero ansioso di vedere con i miei occhi il Tesseract spazio-temporale del CERN. Non che pensassi di riuscire a visitarlo davvero: l’ingresso all’impianto era limitato alle comitive, e non potevo certo sperare di passare per una scolaresca; mi sarebbe bastato osservare l’edificio dall’esterno, respirare, per così dire, l’aria che lo circondava. Uno scrittore ha bisogno di immergersi nel mondo che descrive, e il Tesseract di Ginevra aveva una parte essenziale in un racconto che stavo immaginando. Uscii dall’autostrada all’altezza di Bourg-en-Bresse e mi feci guidare dal navigatore fino alla destinazione, a circa un chilometro di distanza dal villaggio di Bourdigny.

    Quando arrivai, lasciai l’auto nell’immenso parcheggio del centro scientifico e percorsi il vialetto fiorito che portava all’edificio principale, un cubo perfetto che sembrava fatto interamente di vetro, senza strutture di sostegno. La superficie rifletteva la campagna circostante virandola sui toni azzurri, e il cielo, pieno di nuvole sparse, nel riflesso appariva violetto. Intorno a me non c’era nessuno cui chiedere informazioni. Mi avviai verso il grande cubo di vetro e, con un certo stupore, vidi che alla sua base si era aperta una porta rettangolare. Un pannello invisibile doveva essere scivolato su una guida altrettanto invisibile, mosso da un sensore di prossimità che non potevo vedere. Sembrava un invito a entrare, e decisi di approfittarne.

    Mi ritrovai in un ambiente vasto, privo di qualsiasi cosa che assomigliasse a un arredamento. Non c’erano sedie, poltrone o altro per far sedere i visitatori nell’attesa che qualcuno si occupasse di loro. La parete di fronte a me era interamente ricoperta di monitor, che mostravano i locali del laboratorio. Tecnici con camici bianchi sembravano indaffarati intorno a strane apparecchiature, il cui scopo mi era del tutto oscuro. Girai la testa. La porta da cui ero entrato si era richiusa, e la paratia trasparente mi permetteva di vedere la campagna azzurra e il cielo violetto; anche la mia auto, parcheggiata in fondo al viale, aveva assunto uno strano colore. Quel posto aveva qualcosa di metafisico, avrei dovuto ricordarmelo nello scrivere il racconto. A un tratto vidi aprirsi un’altra porta, sulla parete alla mia destra. Ne emerse una donna asiatica, minuta, che mi fissò per un attimo prima di rivolgermi la parola.

    – Lei chi è? Sta cercando qualcuno?

    Parlava un ottimo inglese, con un accento che non riuscivo a individuare. Le avrei dato una trentina d’anni, ma non sono mai stato bravo nell’attribuire l’età agli asiatici. Mi sentivo leggermente in imbarazzo.

    – Non sto cercando nessuno. Volevo solo sapere se è possibile visitare il Tesseract.

    La donna assunse un’espressione infastidita.

    – Le visite sono ammesse solo il primo lunedì di ogni mese. Se vuole informazioni, può andare sul nostro sito. Le dico subito che le prenotazioni sono chiuse per i prossimi tre anni. C’è un numero impressionante di persone che vogliono vedere l’impianto.

    – Lo immagino – risposi – ma visto che sono qui non si potrebbe fare un’eccezione? Non m’importa di avere accesso alle apparecchiature, vorrei soltanto avere un’idea dell’aspetto del laboratorio.

    Scosse la testa.

    – Mi dispiace, ma l’ingresso è strettamente riservato ai tecnici e agli scienziati. Oltretutto è capitato nel giorno sbagliato: stiamo per dare il via a un esperimento critico.

    – Che genere di esperimento? – Le chiesi. Aveva la fronte corrugata, e le sopracciglia sottili formavano due archi simmetrici sopra i suoi occhi neri come la notte.

    – Lei è un fisico?

    – Sì. Cioè, no. Sono laureato in fisica, ma non mi sono mai occupato di ricerca, almeno nel campo del sondaggio di eventi nello spazio-tempo di Minkowski. Però qualcosa ne capisco ancora.

    – Stiamo per attivare le macchine al massimo della loro potenza. È la prima volta che lo facciamo, da quando è stato costruito il Tesseract. Spero che si renda conto che nessuno riuscirebbe a darle retta.

    – Beh, non sarete tutti tecnici o scienziati quadri-dimensionali. Ci sarà pure una segretaria, un addetto alle pulizie, qualcuno… a me serve solo avere un’idea di come sono gli uffici, le sale comuni, cose così.

    – Come mai le interessa tanto?

    La fissai dall’alto in basso.

    – Lei è una scrittrice?

    Sembrava stupita da quella domanda.

    – No, ovviamente.

    – Non è così ovvio, poteva benissimo esserlo. Comunque, se lo fosse saprebbe quanto è importante per chi scrive farsi un’idea di prima mano degli ambienti che descrive.

    Improvvisamente mi parve addolcirsi.

    – Che cosa sta scrivendo? Un articolo?

    – No – le risposi – un racconto di fantascienza.

    Sorrise.

    – Sono un’appassionata di fantascienza! Se il suo interesse è professionale e non turistico, la faccenda cambia. Mi aspetti qui. Vado a parlare con un responsabile, vediamo se è possibile farle visitare una parte della struttura.

    La donna si girò verso il punto da cui era emersa. La paratia che chiudeva la porta scivolò silenziosamente sulle guide, e lei sparì all’interno mentre il passaggio si richiudeva. Mi avvicinai a mia volta alla parete, ma non successe nulla: il personale doveva avere addosso qualche tipo di badge che permetteva di aprire le porte dell’edificio. Non mi restava che osservare i monitor, per ingannare l’attesa. Uno di essi inquadrava un laboratorio vastissimo, sormontato da un traliccio di travi metalliche che s’incurvavano come a formare una cupola. Era lì che si concentrava la maggior parte del personale del Tesseract. Se ne stavano in piedi accanto a pannelli di controllo indecifrabili, su cui sembravano guizzare strane figure di luce. Quella tecnologia era sbalorditiva, pensai; anche se il ventunesimo secolo ci aveva abituati a novità tecnologiche di ogni tipo, l’idea di potersi connettere direttamente a eventi remoti dello spazio-tempo aveva qualcosa di affascinante e insieme inquietante. Saremmo riusciti a rispettare il dogma degli spaziotemporalisti, quello per cui in nessun caso occorreva alterare il corso di eventi passati o futuri? Oppure la nostra avidità naturale avrebbe prevalso, e saremmo riusciti a usare quella macchina prodigiosa per fare soldi, ignorando le nostre responsabilità? Mentre riflettevo, vidi che davanti a uno dei pannelli il personale era entrato in agitazione. Si muovevano veloci, parlavano tra loro, anche se non potevo sentire che cosa si stavano dicendo. Immaginai che qualcosa non stesse funzionando a dovere. Le figure di luce si muovevano sempre più in fretta; anche se il loro significato scientifico restava per me indecifrabile, per qualche motivo mi sembrava di percepire qualcosa di minaccioso nella loro danza frenetica.

    Ancora adesso non riesco a ricordare esattamente che cosa successe. Improvvisamente mi sembrò che il locale si riempisse di una strana luminescenza rossastra, una specie di nebbia fosforescente che mi circondava da ogni parte. Cominciai a sentirmi strano, come se il mio peso fosse aumentato. Mi sentivo tirare verso il basso, e nello stesso tempo avevo l’impressione che la mia giacca si stesse stringendo, come se una mano invisibile mi avesse afferrato e mi stesse strizzando come un tubetto di dentifricio. Mi girava la testa. Ho avuto un infarto, pensai, o qualcosa di simile. Ho bisogno di un medico. Dovevo sedermi, ma in quel dannato posto non potevo fare altro che accucciarmi sul pavimento. La sensazione di essere strizzato non faceva che aumentare. Sto per morire, pensai. Poi persi i sensi.

    Mi svegliai. Ero sdraiato sull’erba. Mi rizzai a sedere, mi guardai intorno e lo sbalordimento s’impossessò di me. Il cubo del Tesseract non c’era più. Non c’erano il parcheggio, il vialetto che avevo percorso prima di entrare nell’edificio, e anche le colline verdi e ordinate della Svizzera erano sparite. Mi trovavo in una campagna dall’aspetto rigoglioso, circondata da monti coperti da una fitta foresta. Vicino a me c’era un casolare di pietre mal squadrate, con una porta di legno massiccio e un’unica finestra con un’inferriata. A poche centinaia di metri vedevo una chiesina; più lontano c’era un paese circondato da mura che sarebbero sembrate medievali se non fossero state evidentemente nuove: niente edera rampicante o pietre sconnesse, ma due torri merlate ben rifinite e un arco con una grata di ferro sospesa. Qualcuno lo stava attraversando con un carro trainato da due enormi bovini bianchi. Sembrava che fosse mattina presto, o forse tardo pomeriggio, in un giorno estivo di qualche paese del sud. Il caldo era mitigato da una brezza leggera, asciutta, che portava con sé un intenso profumo di erba. Girai la testa e mi accorsi che accanto a me c’era un ragazzino di undici o dodici anni, che mi fissava con gli occhi sgranati. Era vestito in modo strano: indossava una specie di tunica bianca molto sporca, sopra la quale portava un giaco con delle cuciture grossolane. Ai piedi non aveva scarpe, ma stivali di pelle che sembravano due volte più grandi di quanto potessero essere i suoi piedi.

    – Dove sono? – Gli chiesi. – Che paese è questo? Perché mi avete portato qui?

    Impiegò un attimo prima di rispondermi.

    – Chi mai dovrebbe averti posto costì? Steso ti vidi, e si m’avvicinai. Per due fiate ti girasti, la terza fiata ti rizzasti seduto come sei. Da qual paese vieni? Chi t’insegnò a favellare toscano? All’aspetto ti si direbbe un barbaro straniero. Se’ tu francesco? Germano?

    Lo capivo a stento. Parlava con un accento fiorentino un po’ cantilenante, e non faceva che usare vocaboli arcaici.

    – Sono sul set di un film storico? Chi sei tu, come ti chiami?

    – Io sono Tano di Folco Portinari. Sono venuto insieme all’armata guelfa come tamburino. Mi hanno mandato avanti a perlustrare la regione. Un ragazzo non genera sospetti.

    – Armata guelfa? Ma dove siamo?

    – Quello che vedi costaggiù è ‘l paese di Poppi. La chiesa lì avanti è chiamata Certomondo. Da quella parte c’è l’Arno. Noi siamo scesi giù dal Casentino. Quelli di Arezzo pensavano che avremmo percorso la Valdarno, ma i nostri comandanti decisero di sorprenderli. Dovevi vedere come si arrendevano in fretta i signori delle castella arroccate lungo la valle! E così si arrendano pure tutti i ghibellini! Dimmi da dove vieni, straniero. Se’ vecchio, e non credo che tu possa far gran danno, ma devo pur sapere se considerarti amico o nemico.

    Improvvisamente capii che cosa mi era successo. Non ero sul set di un film storico. Per qualche motivo l’esperimento critico del Tesseract mi aveva spedito nel passato, in qualche punto della Toscana medievale! L’idea che ci fosse un’armata in marcia, da qualche parte lungo la piana, non mi piaceva per nulla. Dovevo saperne di più. Soprattutto, dovevo stare molto attento a quello che dicevo e che facevo. Dovevano credere che venissi da qualche posto remoto, ma non potevo sostenere di essere francesco o germano, come diceva il ragazzo; per quanto la lingua si fosse evoluta, mi avrebbero certamente individuato come italiano.

    – Io vengo… ecco… da Milano. Sì, sono di Milano.

    – Questo potrebbe spiegare in parte il tuo strano abbigliamento. Eri di parte torregiana? Se’ fuggito da Matteo Visconte e da suo zio, il vescovo? Se è così se’ benvenuto: i nostri ti proteggeranno.

    Cercavo disperatamente di rispolverare i lontani ricordi di quella storia medievale di cui non mi occupavo dai tempi del liceo. Matteo Visconti… L’avrei piazzato alla fine del duecento. Anche l’armata guelfa contro Arezzo mi ricordava qualcosa… ma certo!

    – Dimmi, questa località si chiama Campaldino?

    Si mise a ridere.

    – Proprio così, straniero. – Fece dei gesti con le braccia, indicando le diverse direzioni.

    – Poppi, Certomondo, Campaldino. Da quella parte c’è Arezzo, e da lì muoveranno con la loro armata. È difficile che attacchino oggi: lo giorno se ne va, come vedi, e nella notte si schiereranno per impedirci il passo. Avanti i feditori a cavallo, più indietro i fanti e le riserve. Domani all’alba la piana si coprirà di sangue…

    Tra tutti i posti nello spazio-tempo in cui il dannato Tesseract poteva spedirmi, doveva scegliere proprio la piana di Campaldino nel giorno della battaglia tra Firenze e Arezzo! Avevo l’impressione che la mia vita fosse appesa a un filo. Mi rizzai in piedi, deciso a scappare da qualche parte, quando vidi sopraggiungere due uomini in cotte di maglia. Al loro fianco pendevano degli enormi spadoni, e i loro sguardi non lasciavano presagire niente di buono. Tano, il ragazzino, corse loro incontro e chinò la testa in segno di rispetto. Bisbigliò qualcosa, e i tre rimasero a parlottare tra loro per diversi minuti, dandomi il tempo di riflettere sulla mia situazione. Tentare la fuga era impossibile: i due armigeri, chiunque fossero, erano molto più giovani di me, e mi avrebbero raggiunto senz’altro. Pensai allo zainetto che avevo ancora sulle spalle. Lì dentro c’erano il mio cellulare e l’ebook reader che mi porto sempre dietro. Chissà che cosa poteva succedere se li avessero visti! Poi pensai che avevo un vantaggio su di loro: conoscevo la storia, o per lo meno potevo tentare di ricordarmela. A Campaldino avevano vinto i fiorentini, di questo ero certo. Feci uno sforzo di memoria, cercando di visualizzare nella mia mente l’anziano professore che, al liceo, recitava monotono la sua lezione di storia. Mi sembrava di ricordare che la battaglia di Campaldino fosse stata importante, e avesse aperto la strada alla supremazia fiorentina su tutta la Toscana. C’era dell’altro? Ricordavo vagamente qualcosa a proposito di un certo Corso Donati. Era stato lui che, violando la consegna, aveva lanciato le riserve fiorentine contro l’armata di Arezzo, scompaginandola e regalando la vittoria a Firenze. Forse avrei potuto approfittare del fatto di conoscere in anticipo quel particolare. Ammesso che non mi uccidessero subito: i due armati stavano venendo nella mia direzione, e non avevano l’aria di volersi intrattenere in amabili conversazioni.

    – Chi se’ tu che te ne stai costì seduto? Il ragazzo dice che sei apparso dal nulla, come per magia. Dimmi il tuo nome e la tua casata.

    – Sono… Piero. Piero di Paolo da Milano. Sono fuggito dagli scagnozzi del vescovo, ispirati dal demonio. Ho percorso una lunga strada, ma giunto qui la fatica mi ha vinto, e mi sono steso per riposare.

    Se solo fossi riuscito a ricordarmi come si chiamava il vescovo! Ma forse quel dettaglio non era importante. L’armigero continuava a fissarmi, senza addolcire il suo sguardo.

    – Se’ tu un frate? In quale strano luogo ci s’abbiglia in cotesto modo? Camminasti da Milano a qui senza mai fermarti?

    – No, naturalmente. Però ho camminato molto, e sono stanco.

    – Fammi vedere che cosa tieni nella bisaccia.

    Pensai che si riferisse allo zaino e glielo porsi. Non avevo alternative. Si mise a frugare tra le mie cose, finché incappò nel cellulare e lo estrasse guardandolo stupefatto.

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