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Nazione Interrotta: Storia di Orlando, Astolfo, Bradamante e gli altri
Nazione Interrotta: Storia di Orlando, Astolfo, Bradamante e gli altri
Nazione Interrotta: Storia di Orlando, Astolfo, Bradamante e gli altri
E-book413 pagine6 ore

Nazione Interrotta: Storia di Orlando, Astolfo, Bradamante e gli altri

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Info su questo ebook

Recuperando atmosfere, episodi e personaggi dell’Orlando furioso, il romanzo narra vicende e avventure intrecciate col processo di costruzione dell’Unità d’Italia.

L’io narrante è un discendente del conte Orlando d’Anglante, testardo sostenitore, fino alla follia, degli ideali risorgimentali di libertà, uguaglianza e giustizia, anche quando si appaleseranno senza speranze. Accusato di danneggiare il casato, Orlando sarà rimosso dai ricordi famigliari, finché il narratore non si imbatte nel carteggio intrattenuto dall’antenato con la madre.

Da allora, si dedica con studio e sagacia a recuperarne la memoria e ai giorni nostri, ormai anziano, proverà a ricostruire quegli eventi e gli inizi dello Stato unitario -

il naufragio di Ippolito Nievo, primo dei “misteri italiani”;
la congiura dei pugnalatori, 13 accoltellamenti in contemporanea a Palermo;
il boicottaggio dei distretti siderurgici meridionali; il pactum sceleris fra modernità e baronato mafioso.

Mosso dall’auspicio di riprendere il discorso avviato in quegli anni cruciali ma presto interrotto, il romanzo si interroga su alcuni caratteri costitutivi dello Stato italiano, passando dai temi caldi e appassionati degli ideali a quelli cinici e lucidi degli interessi e delle trame, dalle atmosfere incantate ed effervescenti dell’epica cavalleresca a quelle brutali e inferocite della guerra civile.

***RECENSIONI

“Suggestiva e intrigante narrazione dell’unificazione nazionale, ricorrendo anche a temi, umori e personaggi dell’Orlando furioso. Le pagine scorrono piacevolmente nella lettura e quando si riprende fiato ci si accorge che si sta viaggiando nel tempo e nello spazio.”
Antonio Tavernise, impiegato

“La costante sintonia umorale col poema di Ariosto affascina e avvince il lettore, e così la narrazione non risulta appesantita dalla rigorosa ed erudita ricerca storica, che pure si evince dalla lettura.”
Stefano Ratiglia, avvocato

“Trame, stragi, poteri occulti, mafia, verità ufficiali: ma allora non è cambiato nulla in tutti questi anni? Tu leggi e ti diverti oppure ti emozioni, ma non puoi fare a meno di chiederti se cambierà mai il destino che sembra attanagliarci da allora, se riusciremo mai in Italia ad applicare, non dico la Costituzione del ’48, ma almeno i principi della Rivoluzione francese.”
Michele Aversa, impiegato
LinguaItaliano
Data di uscita18 apr 2019
ISBN9788832581218
Nazione Interrotta: Storia di Orlando, Astolfo, Bradamante e gli altri

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    Anteprima del libro

    Nazione Interrotta - Gerardo Giordanelli

    serve".

    CAPITOLO 1

    TRACCE

    Mi chiamo Orlando Anglante. Sì, sono discendente, ma per via collaterale, del famoso paladino Orlando d’Anglante, conte di Belsito, che tanta parte ebbe nelle vicende che portarono all’unificazione della penisola, e ne fu talmente irretito da restare a lungo fuori di senno. Fu mio padre a togliere definitivamente la particella nobiliare dal cognome di famiglia. Non so, caro lettore, se nel corso della perlustrazione cui mi accingo avrò modo di parlare di lui e perciò voglio farlo ora, seppure solo un accenno, non fosse altro che per ringraziarlo del nome che mi ha donato, predestinandomi quasi a questo viaggio nelle turbolente vicissitudini di quell’antenato che, da subito, in famiglia furono rimosse per tacito e ottuso accordo.

    Avevo appena tre anni quando mio padre morì d’infarto. Di lui conservo due sole immagini, privatissime, alle quali mi sono aggrappato con comprensibile tenacia; quel che so di lui mi è stato per lo più riferito. È stato il primo del mio casato a lavorare, faceva il medico condotto, prima che il boom economico elargisse un po’ di benessere nelle afflitte contrade del cosentino. Era pure bravo, mi dicono, ma non ne trasse beneficio né carriera. Si faceva pagare solo dai benestanti; per il resto, gli bastavano affetto e gratitudine o, al più, dietro insistenze, una forma di pecorino, una bottiglia di vino genuino o una corda di salsiccia. Era però geloso del mantello. Quando si recava da povera gente, appena smontato dal calesse appendeva il mantello a un ramo e poi entrava nella casupola. Se c’era da sporcarsi le mani o il vestito non si tirava indietro, ma il mantello no, quello chissà perché doveva conservarsi immacolato.

    Quest’uomo volle chiamarmi Orlando, sfidando i risentimenti e i mugugni del parentado e specialmente di nonna Agata, arcigna custode dei tabù familiari. La vicenda del paladino, la sua ostinazione a inseguire miti e ideali, anche quando non avevano più speranze, a scapito degli interessi della famiglia, persino il suo nome di battesimo, costituivano uno scandalo da tenere nascosto.

    Per generazioni non se ne parlò più in famiglia, fino a quando, curiosando da bambino nella soffitta dei nonni, non scoprii in una cassapanca il carteggio di Orlando con sua madre. Donna affettuosa e colta, Berta non aveva abbandonato quel figlio divenuto eccentrico, sconclusionato – pazzo, si disse. Ne scrutava le tracce lasciate in giro per il mondo, conservò con cura i suoi cimeli, raccolse diari, lettere e ricordi dei cugini – Astolfo, Rinaldo, Bradamante, Malagigi – a vario titolo impegnati nelle vicende di quegli anni. Ero allora un birbantello curioso e mi attirò il fiocco di raso rosso che impreziosiva quelle carte vetuste e fragili, gonfie di umidità e di anni - circa un centinaio. Scesi di corsa. Era ormai ora di pranzo. I grandi erano già nella sala. Arrivai tutto eccitato e annunciai ad alta voce la mia scoperta. Mi fu vietato in malo modo di rimettere piede in soffitta.

    Ma i divieti immotivati, a certi ragazzi impertinenti fanno lo stesso effetto della muleta rossa agitata in faccia al toro. Quando mi trovavo dai nonni, ronzavo sempre nei pressi della soffitta e un bel giorno – ero già all’Università – fui ripagato con gli interessi. Gli originali ovviamente non erano più nella cassapanca, però scoprii che buona parte era stata trascritta, con grafie diverse, e il resto addirittura fotocopiato. Trovai il malloppo per caso, in un vecchio armadio malmesso, fra recipienti e arnesi in disuso. Qualcuno, anzi più d’uno, fra i miei antenati, di nascosto aveva dato sfogo al mio stesso uzzolo. Non so quale suggestione o giovanile lettura mi mosse ma afferrai tutte le carte e le portai con me. Da allora mi sono dedicato, per diletto ma con impegno, a chiosare quei documenti, compulsare archivi e biblioteche, sollecitare la memoria di parenti contrariati, interpellare cultori di storie locali e cose minime di quei tempi. E ora eccomi qua, carico di anni e acciacchi, ritornato per la bella stagione ancora una volta in quella casa, accompagnato da valigie e borse piene di documenti, libri e appunti, con l’intento di mettere un po’ d’ordine nel materiale reperito. Il sottotetto non è più una soffitta ma uno studiolo mansardato che ho arredato con scrittoio e librerie, e con una comoda poltrona accanto al balcone di fronte ai ruderi del castello dei Ruffo, a strapiombo sul mare che affacciandomi intravedo appena.

    Sistemando le carte, mi è capitata tra le mani una fotografia dell’estate 1874 che ormai conosco in ogni minimo dettaglio. Mi pare un buon ausilio per cominciare a sbrogliare l’intreccio. Ritrae Orlando con il cugino Astolfo e Marfisa, ancora chiamata la vergine guerriera, sebbene da 14 anni ormai vivesse more uxorio con Astolfo. Orlando è al centro della foto, con la sua statura gigantesca, oltre un metro e novanta d’altezza e le spalle che sembrano due ante di armadio: Astolfo, che pure era ben messo, sembra sfigurare al suo fianco. Nonostante il caldo, Orlando indossa un abito scuro, anche la cravatta è scura. La giacca tira leggermente su spalle e maniche, i pantaloni sembrano scoppiare riempiti dalle cosciazze poderose. Le braccia però sono abbandonate lungo i fianchi, nella posa tipica del timido di fronte all’obiettivo, che non sa proprio come rimediare a quell’ingombro. L’espressione è al contempo malinconica e accigliata. Chissà quanti ricordi e quali sensazioni gli passavano in quei momenti davanti agli occhi!

    Astolfo sembra invece a proprio agio, la postura è disinvolta, sicura. Ha la stessa età di Orlando ma due leggere rughe sulle guance gli conferiscono un’espressione più vissuta, assennata – a lui, che prima passava per un furetto viziato e fatuo. Gli occhi però, luminosi e vivaci, sono quelli di un uomo ancora giovane. Porta gli stivali con gli speroni, un pantalone da cavallerizzo e un’ampia camicia bianca ricamata, sbottonata sul petto, che sicuramente avrà indossato anche sui palcoscenici per l’attività teatrale intrapresa con convinzione da alcuni anni.

    Marfisa è all’altro fianco di Orlando. Ride divertita, forse perché, salita su un cippo, ha quasi raggiunto il gigante. Esprime solarità, la gioia interiore di chi ha raggiunto l’agognato equilibrio e può affrontare con serenità anche disagi e angustie. Non porta armatura o corazza che prima non dismetteva mai, indossa invece un comodo abbigliamento da amazzone che ne sottolinea il corpo flessuoso e nevrile. È proprio bella e mi pare davvero incomprensibile che i pochi cenni alla sua figura, alla sua femminilità, presenti nelle carte di quegli anni, siano stati in seguito del tutto trascurati.

    La foto fu scattata il 25 agosto 1874 a Mongiana, davanti alla Ferriera ormai dismessa, da uno dei tecnici che l’esercito piemontese occupante aveva ingaggiato, anni prima, per fotografare briganti e brigantesse da esibire, prima o dopo l’uccisione, sui giornali nazionali. L’appunto sul retro definisce maldisposto e riluttante il fotografo; è da presumere che avesse riconosciuto il terzetto e cercasse di evitare guai. È facile immaginare con quale perfido piacere di rivalsa Orlando lo abbia indotto a quello scatto. Escluderei che sia stato Astolfo. Da quanto ho potuto apprendere, era esuberante, eccentrico, capriccioso perfino, ma protervo e prepotente no, non lo è stato mai. E poi a quel tempo era già convinto che parole e gesti prevalessero sulla forza. E Marfisa? Non le mancavano certo ardore e sfrontatezza. L’amazzone con la fenice per emblema vantava anzi insuperabili doti di combattente, sia in campo aperto che nei tornei, in qualsiasi specialità allora nota – mazza o lancia, spada o azza – prima che l’uso delle armi da fuoco sconvolgesse i valori individuali e le tecniche di combattimento. E però anche Marfisa, conosciuto l’amore, e con esso cortesia e giudizio, aveva da tempo incivilito i suoi furori.

    E poi era di sicuro Orlando a desiderare di più quel ricordo. Nel 1860, era uno dei più giovani capitani dell’esercito duosiciliano, in procinto anzi di essere promosso maggiore per meriti sul campo. Da alcuni anni, era vice-comandante del premiato complesso metallurgico di Mongiana, Pazzano e Ferdinandea, nelle serre del vibonese, che comprendeva miniere, fonderie, ferriera e fabbrica di armi e materiale ferroviario. Attorno all’opificio, poi, era da tempo sorta una cittadina, con case, officine, botteghe, scuola e chiesa, sicché Mongiana dal 1852 era divenuta comune autonomo. Coordinando ingegneri, tecnici e maestranze, Orlando aveva contribuito al crescente miglioramento qualitativo del materiale di base e dei prodotti finiti nonché all’incremento, specie per uso civile, del già diffuso tessuto di artigiani e commercianti dei dintorni.

    Un altro versante del proficuo impegno di Orlando fu quello della cura del territorio. Fino a poco tempo prima, la metallurgia avveniva nella zona secondo l’usanza nomade, spostando un altoforno alla ricerca di boschi da sfruttare come combustibile. Ma col passaggio all’opificio stanziale, fu conseguente dedicarsi al riequilibrio fra taglio del legname e rimboschimenti, alla protezione degli argini e all’alimentazione dei corsi d’acqua utilizzati per produrre energia.

    Nel 1860, prima che il nuovo Stato ne disponesse la dismissione, l’opificio, con oltre 1.500 addetti, costituiva uno dei più importanti nuclei manifatturieri delle Due Sicilie e di tutti gli Stati preunitari, superando con l’indotto le 3.000 unità produttive. A Mongiana videro la luce i primi ponti sospesi in ferro della penisola, il Real Ferdinando sul Garigliano e il Maria Cristina sul Calore. Nel 1861, quando era già iniziata la chiusura degli impianti, Mongiana conquistò una medaglia all’Esposizione industriale di Firenze e, l’anno dopo, i suoi materiali e prodotti finiti furono premiati all’Esposizione internazionale di Londra.

    Sembrava impossibile che anche Mongiana dovesse seguire l’inesorabile sorte dei distretti siderurgici e cantieristici di Napoli, Pietrarsa e Castellammare di Stabia: azzeramento di commesse e appalti, prosciugamento di risorse, affossamento di fabbriche e officine, per permettere il decollo di aziende come l’Ansaldo di Genova o di cantieri come quelli di La Spezia e Livorno. E invece gli impianti di Mongiana saranno venduti a peso e rimontati, pezzo per pezzo, nelle acciaierie di Terni e del bresciano.

    La popolazione rimase stupefatta. Il nuovo Stato sopprimeva d’un tratto un’attività, risalente addirittura ai fenici, che ormai costituiva un’eccellenza nella penisola e, con l’indotto, rappresentava il mercato più proficuo per l’occupazione della zona: cavallanti e bovari per il trasporto dei materiali, carbonai, lavoratori boschivi, ma soprattutto artigiani, maestri fabbri ferrai che, con le loro officine, si erano affermati nella produzione di piccole armi, prodotti di pregio e utensili vari – e che ora venivano condannati alla miseria e alla fuga.

    Migliaia di uomini e donne assistettero increduli e disperati allo smantellamento di un complesso industriale del tutto autosufficiente, dall’estrazione del fossile fino alla vendita di prodotti competitivi, per giunta ben integrato nell’ambiente naturale e al centro del tessuto produttivo urbano. Sembrava pacifico per chiunque che Mongiana sarebbe rimasta strategica anche nello Stato unitario. Fu invece chiusa sin da subito e nel 1862 l’intero compendio strumentale e immobiliare fu inserito nell’elenco dei beni demaniali da alienare e poi effettivamente venduto nell’estate del 1874 a un prezzo irrisorio.

    A Orlando, in quegli anni di successi e riconoscimenti, Mongiana aveva riempito la vita: sentiva di essere utile alla gente, alla comunità, alla patria, e poi, da ottimo soldato, si era trasformato in un capace e avveduto quadro militare. La dismissione del complesso siderurgico e ora la vendita a un ammanigliato faccendiere del nuovo corso politico gli sembravano emblematiche dell’amaro futuro che incombeva sulla sua terra e sugli ideali che per più di vent’anni avevano appassionato la sua generazione.

    Era a Mongiana, in armonia col mondo, quando nella primavera del 1860 lo raggiunse dalla Sicilia la lettera del cugino Rinaldo che, preannunciandogli l’imminente sbarco di Agramante alla testa di settari e filibustieri, diede inizio al suo personale tourbillon. Così ora, a cose fatte, Orlando volle ripassare da Mongiana, per chiudere il cerchio di quell’esperienza e abbandonare il paese, come nugoli di conterranei che - esauritasi la resistenza all’occupazione militare; svaniti, col nuovo Stato, denari, tessuto produttivo e promesse di quotizzazione delle terre demaniali - partivano con la morte nel cuore a rendere grandi altri paesi.

    Alla fine della giostra, Orlando non nutriva più speranze o illusioni – fragili appigli consumati dallo stato d’assedio, il massacro gratuito di popolazioni inermi, la subalternità territoriale, il disprezzo. Provava ormai fastidio a vivere nel paese in cui era morta la fede negli ideali, era stato brutalizzato l’ingenuo candore di un’intera generazione e lui stesso aveva perduto la disposizione a credere negli altri o in qualcosa. Il nuovo Stato gli appariva come il frutto della protervia di un’inattesa invasione militare, seguita da guerra fratricida, menzogna, inganno, tradimento di miti e speranze comuni.

    Non sarebbe riuscito a adeguarsi al nuovo corso, e poi non era uomo da mezze misure. Quel giorno, il 25 agosto 1874, mentre con la discreta e affettuosa compagnia di Astolfo e Marfisa provava a condensare a Mongiana il senso degli ultimi anni, in città, a Catanzaro, si teneva la vendita all’asta dell’ex complesso siderurgico. Il lotto comprendeva una quarantina di alloggi, caserme e quartieri per la truppa, officine, fabbriche, forni di prima e di seconda fusione, boschi e segherie, terreni e miniere, tutti disseminati in un territorio vastissimo, compreso tra Mongiana, Pazzano e Ferdinandea. Risulterà aggiudicatario un avventuriero senza alcuna esperienza industriale o tecnica, un ex sarto emigrato in America, da cui era ritornato, più povero, in tempo per aggregarsi alla spedizione di Agramante in Sicilia; un viscido Maganzese, tipico esponente della schiatta avversa ai Chiaramonte di Orlando e Rinaldo, che diventerà più volte parlamentare del nuovo Stato e intimo addirittura di Agramante in persona e di suo figlio Menotti, con il quale avvierà diverse speculazioni d’affari, incappando in altrettanti scandali e procedimenti giudiziari, fino a finire coinvolto in una colossale truffa ai danni dello Stato. La Ferriera invece finirà abbandonata, mentre la residenza reale di Ferdinandea sarà adibita a casino di caccia e ad accoglienza di personalità di riguardo del nuovo regime.

    Se mai l’avesse vissuto, Orlando – ma, con sfumature diverse, anche Astolfo – era ormai oltre il conflitto fra Chiaramonte e Maganza che arroventava Calabria e Sicilia, dove le due famiglie erano radicate. Ai suoi occhi contava solo che entrambe le schiere avevano aderito al nuovo ordine e contendevano per appannaggi e concessioni esattamente come prima, come se nulla fosse successo e nessuna traccia avessero lasciato i moti unitari, la partecipazione di volontari duosiciliani alle battaglie contro l’Austria in Lombardia, il giuramento di fedeltà alla patria e al re, l’esteso dibattito risorgimentale su pari dignità fra gli Stati preunitari, consenso delle popolazioni e nuovi assetti nelle campagne. Il carteggio di Orlando con la madre, benché incompleto, permette di seguire gli atteggiamenti della famiglia in quei giorni, dall’iniziale incoraggiamento a sbaragliare i filibustieri di Agramante fino alla repentina titubanza dopo Calatafimi, dalla cauta attesa - quando Palermo capitolò per la sorprendente inoperosità dell’esercito borbonico, ben armato e venti volte più numeroso degli avversari – fino al deciso schierarsi per l’annessione al Piemonte di re Marsilio II, ritenuto unico tutore dell’ordine sociale e dei tradizionali assetti proprietari – mentre lui, Orlando, pur variando motivazioni e obiettivi, continuava a combattere lo stesso nemico, di volta in volta invasore della patria, prevaricatore dei popoli, strenuo difensore delle antiche stratificazioni gerarchiche.

    Anche Astolfo riteneva ininfluente il conflitto fra Chiaramontesi e Maganzesi. I Chiaramonte appartenevano all’antica nobiltà, da sempre sostenitori fedeli dei Borbone, ai quali dovevano buona parte di fortune e privilegi - da ultimo, la ducea concessa a Bradamante. I Maganzesi, invece, costituivano la consorteria più forte fra il recente notabilato, costretti ad arrancare dietro piccole ma lucrose concessioni e prebende, ma già in concorrenza con baroni e latifondisti per il controllo delle giunte locali, pronti a sfruttare ogni occasione per rimettere in gioco gli assetti proprietari e di potere. In Sicilia, poi, dove originava il ramo principale delle due famiglie, i giochi venivano rimescolati dalla tradizionale tendenza autonomistica dell’isola, finendo per radicalizzare lo scontro fra sostenitori della dinastia napoletana e coloro che in un cambio di regime, quale che sia, vedevano l’occasione per ribaltare ordini e gerarchie.

    In gioventù, Astolfo era stato un gaudente rampollo della nobiltà cosentina, con frequenti soggiorni a Napoli e nelle capitali europee, attento però alle novità culturali e di costume. Come tutti gli appartenenti al baronato, era stato educato a un forte senso identitario che in lui, però, maturando e viaggiando, era andato via via affinandosi fino a divenire un modo di essere e agire, fatto di stile, gusto e raziocinio, ma sempre rapportandosi alle novità che andava cercando con curiosità quasi morbosa. I Maganzesi gli parevano delle volgari e chiassose caricature. Non aspiravano a cambiamenti reali, ma solo a scimmiottare i nobili, colmando il deficit di tradizione, prestigio e conoscenze con il ricorso alla forza, alla paura, ai picciotti. Costituivano solo una caduta di tono, un arretramento.

    Con lo sbarco di Agramante, però, Astolfo vide nobili e notabili uniti e solidali nella difesa dell’ordine tradizionale, di rendite e privilegi, al prezzo del sacrificio del resto della popolazione e della subalternità di tutto un territorio, della sua storia, della sua cultura, agli interessi che avevano promosso la guerra di conquista. Proprio nel riscatto della sua terra trovava invece radici la nuova identità, che ora, a processo concluso, insieme a Marfisa stava cercando di delineare, immaginandone salvaguardie e sviluppi.

    Prima di allentare le briglie al racconto è forse necessario, caro lettore, che ti fornisca qualche informazione sulla mia numerosa e ramificata famiglia, almeno per quanto riguarda quei giorni cruciali del 1860. Capo della dinastia era Amone di Chiaramonte, primogenito e perciò principe dei feudi siciliani, ramo principale del casato. Suo primogenito era Rinaldo, signore di Montalbano, capo carismatico e imbattibile guerriero, maggiore dei Cacciatori nell’esercito duosiciliano a Trapani, già ben inserito nella classe dirigente isolana, di fatto l’erede riconosciuto dell’intera famiglia. Fra i numerosi figli di Amone ci torna comodo, poiché li ritroveremo nella nostra storia, ricordare i gemelli Ricciardetto e Bradamante, da alcuni mesi, per meriti politici e cavallereschi, nominata da re Ferdinando, già gravemente malato e prossimo alla morte, duchessa di Erice e Favignana.

    Fratelli di Amone erano i cosentini Milone, duca di Rogliano e governatore della Sila Piccola, e Ottone, marchese di Praia e Scalea. Figlio di Milone era Orlando, conte di Anglante e di Belsito, cadetto ma ritenuto da Rinaldo l’esponente più prestigioso del ramo calabrese della famiglia. All’epoca, i due cugini erano molto legati, si cercavano a ogni occasione ed epiche sono rimaste le loro esercitazioni di scherma, alle quali spesso si univa la statuaria Bradamante, accrescendo l’affettuoso dispetto dei due conti che mai riuscirono a disarcionarla o a disarmarla. Poi, le vicende di quegli anni spinsero Orlando e i due cugini su fronti contrapposti, rischiando addirittura di combattersi a viso aperto. Io discendo dal fratello minore di Orlando, subentratogli, nel corso degli eventi narrati, al feudo di Anglante.

    Astolfo, conte di Cetraro, era invece figlio di Ottone. Pure lui, nel corso di quegli eventi, finì per contrapporsi alle scelte familiari e condurre una sua personale battaglia, rompendo i rapporti con i parenti, a parte Orlando, e osservando da lontano l’irresistibile ascesa, nel nuovo Stato, di Rinaldo e soprattutto di Bradamante e suo marito Ruggiero di Reggio, fra l’altro fratello di Marfisa.

    Ultimo fratello di Amone era Buovo d’Agrismonte, duca di Serra San Bruno. Questo ramo della famiglia è stato affettuosamente frequentato da Orlando nel lungo periodo di permanenza nella vicina Mongiana. Figli di Buovo erano Aldigieri, Viviano e Malagigi, giocoso e stravagante cultore di magie e incantesimi.

    Colgo al volo l’occasione, paziente lettore e arguta lettrice, per richiamare la vostra attenzione su una curiosa circostanza. In quegli anni, come spesso accade nei tumultuosi periodi di crisi e transizione, non c’era piena corrispondenza fra parole e cose: a volte alle parole mancavano chiari contenuti oggettivi da designare, rimanendo come gusci vuoti, pure segnature sospese nell’incomprensione – patria, libertà, indipendenza, diritti. D’altra parte, si assisteva a fenomeni sconosciuti per i quali mancavano i nomi, le definizioni, e per spiegarli si ricorreva a magie, incantesimi, spiritelli; nacquero così leggende e miti, che incontreremo nel nostro viaggio e con cui capita ancora oggi di avere a che fare. Non stupitevi, pertanto, cari lettori, se ci occuperemo anche di cose maravigliose; di una, addirittura fra poco, in finale di capitolo. Disincantati e svegli come siamo, sapremo di sicuro riconoscerle e magari, chissà?, ci spingeremo a scoprire anche quelle del nostro tempo.

    Come ho già accennato, tutto cominciò nel marzo del 1860, con un’allarmata lettera di Rinaldo che informava Orlando delle crescenti voci di preparativi insurrezionali in Sicilia e di un imminente sbarco, proprio dalle loro parti, nel trapanese, del grande Agramante, l’eroe dei due mondi, con una schiera di volontari, per rovesciare i Borbone e consegnare le Due Sicilie a re Marsilio II. La missiva paventava il rischio che le mire dei baroni autonomisti si saldassero con ambizioni e smanie del notabilato, riuscendo magari a coagulare le rivendicazioni di tutti gli scontenti, siano essi le plebi urbane e rurali, i settari esaltati, i fuorilegge incalzati dalla polizia di don Salvatore Maniscalco. Che fare, si chiedeva l’accorto Rinaldo, con chi schierarsi, tenendo anche conto che i Maganzesi si sono già posti alla testa dei ribaldi e si danno un gran daffare?

    Sapeva Orlando dei precedenti tentativi di sbarco nelle Due Sicilie, tutti finiti male, uno addirittura alle porte di Cosenza. Ancora adolescente, si era infervorato per la purezza e la generosità dei volontari: un giovane ufficiale borbonico che pone all’incanto il futuro e la sua stessa vita; due fratelli veneziani, allora sudditi dell’impero austriaco e figli di un ammiraglio della marina absburgica, che si sacrificano in buona fede per il riscatto di una terra lontana. E tutto questo, nella convinzione che il sud borbonico fosse una polveriera pronta a esplodere e che bastasse accendere una miccia, senza preoccuparsi di preparare il contesto. Era vero, agli occhi di Orlando, che il mezzogiorno ribollisse di rabbia a stento trattenuta: vedeva braccianti e contadini in miseria, mortificati e sfruttati da generazioni; plebi urbane costrette a occupazioni servili e poco remunerate; giovani e intellettuali ansiosi di libertà e opportunità. Il disagio dilagava ovunque ma anche la disillusione, la rassegnazione esacerbata di fronte all’intangibilità di sperequazioni e privilegi. Sembrava a Orlando, però, che gente del sud e volontari stranieri parlassero linguaggi incommensurabili; che, in buona sostanza, il bisogno di equità degli uni e gli ideali di libertà e indipendenza degli altri non riuscissero ad amalgamarsi. I moti liberali degli anni ’20 e ’30, le rivoluzioni del ’48, i tentativi di repubblica a Napoli e Roma avevano avuto il difetto, secondo lui, di ignorare la questione sociale, restando movimenti di minoranze elitarie o divenendo faccende fra stati, e gli stati, le case regnanti, non sono portatori di ideali ma di interessi e ambizioni.

    Già frequentando a Napoli il Collegio della Nunziatella – tradizionale fucina di idee francesi, e in specie murattiane – Orlando era cresciuto affiancato dalla presenza di Angelica, emblema di libertà e giustizia, l’angelico sembiante originario dell’antica Grecia, con ramificazioni europee e americane, inseguito da uomini di diverse generazioni e nazioni. Nel 1848, appena uscito dalla Nunziatella col grado di Alfiere, si era aggregato alle schiere duosiciliane del generale Pepe nella guerra italiana contro l’esercito austriaco occupante, ben meritando a Curtatone e Montanara. Rimase a combattere, seppure deluso dal progetto espansionistico del Piemonte, che intendeva proseguire la guerra da solo facendo fallire la Lega Italica fra i maggiori stati della penisola, e nel 1859, ancora da volontario, partecipò con onore alla battaglia di Albracca che, nonostante la disastrosa débâcle piemontese, aprì la via agli alleati francesi per la conquista di Milano.

    Nel ’48, ritornato in patria dalla guerra, fu assegnato alla Ferriera di Mongiana. Con l’angelico sembiante sempre in mente, cominciò per Orlando, in aggiunta allo straordinario impegno professionale, un periodo d’intensa attività intellettuale, fatta di studi, frequentazioni e confronti. Sentiva il giogo borbonico e il peso della lunga immobilità sociale e culturale, ancora poco scalfiti dall’anelito di libertà, uguaglianza e solidarietà che altrove aveva preso piede. Smaniava per la secolare condizione di minorità della penisola, frantumata in una miriade di staterelli assoggettati o condizionati dallo straniero e macerata nel rimpianto di un passato di straordinario valore.

    Di necessità, la battaglia per la modernizzazione e il riscatto di ciascuno Stato preunitario doveva passare attraverso l’emancipazione della nazione, cioè la liberazione e l’unificazione della penisola. Ma in che modo? In passato, si era affacciata l’idea di una confederazione fra gli stati italici, con l’obiettivo dell’indipendenza dallo straniero e l’intento di procedere a una progressiva integrazione di rapporti e istituzioni. La proposta prevedeva solo un’interlocuzione fra apparati statali, senza coinvolgere i tradizionali assetti interni e le aspettative delle popolazioni, e trovò comunque un ostacolo insormontabile nell’intento espansionista sabaudo. Sembrò affermarsi allora la tesi, unitaria e repubblicana, dell’insurrezione dal basso in ciascuno Stato, magari sostenuta, di volta in volta, da volontari esterni, fino ad arrivare alla completa liberazione e unificazione. Tale progetto, però, era osteggiato dal tacito accordo fra le potenze europee, a tutela dell’ordine tradizionale contro qualsiasi forma di sovversione.

    Cominciò allora a farsi strada il progetto piemontese, delineato e perseguito con lucidità dal Conte, di assumere la guida del processo unitario, portando con sapienza e opportunismo il problema italiano nel concerto internazionale, mediando con abilità e spregiudicatezza fra aspettative interne e rassicurazione verso ciascuna potenza europea. Orlando era contrario all’intervento di un singolo Stato, specie se monarchico, che attraverso la guerra procedesse all’annessione, foglia per foglia, come un carciofo, di tutta la penisola. Si chiedeva come avrebbero dovuto schierarsi gli unitaristi di ciascun paese invaso e perché privilegiare, e in base a quali criteri, uno Stato o una casa regnante. Temeva il precipizio di una guerra di conquista fra eserciti o, addirittura, una guerra civile. Cosa sarebbe cambiato per le province e le popolazioni annesse?

    Nella primavera del 1860, con l’arrivo delle lettere di Rinaldo, fra meditazioni e il costante confronto con l’angelico sembiante, Orlando si arrovellava su quegli interrogativi. Due in particolare lo angustiavano. Come era possibile, nell’insurrezione che andava preparandosi in Sicilia, tenere insieme obiettivi così diversi? Terra ai contadini e difesa del latifondo, aspettative dei ceti in ascesa e mantenimento dell’assetto tradizionale, libertà e giustizia ma anche privilegio e arbitrio baronale, indipendenza isolana e unitarismo filosabaudo. Al dunque, quali interessi avrebbero prevalso e quali invece sarebbero stati sacrificati? E qui si affacciava la seconda questione. Cosa avevano in comune i proclami rivoluzionari fatti in quegli anni da Agramante e il disegno egemonico del Conte?

    Orlando intravvedeva il rischio che la spedizione finisse per suscitare entusiasmi, sobillare le popolazioni, promettere rivoluzioni per poi lasciare tutto com’era e consegnare l’eventuale unificazione nelle mani di re Marsilio II. Se Agramante fosse davvero riuscito a coagulare sia gli ideali unitari e patriottardi che le rivendicazioni dei ceti subalterni, promuovendo la tanto invocata iniziativa dal basso, perché poi escluderne i protagonisti e ridurre tutto a una semplice espansione del Piemonte sabaudo? Quali reali interessi e convenienze muovevano la spedizione?

    I Savoia avevano domato la rivolta di Genova bombardando la città a tappeto, senza scrupoli o riguardi, forse anche peggio del Borbone a Messina, eppure solo Ferdinando II era stato chiamato re Bomba. Il Conte non era di certo morbido con avversari e dissidenti. Mazzini e gli altri oppositori radicali erano banditi dal regno e perseguitati ovunque, anche ricorrendo a servizi segreti e sicari. Almeno formalmente, sul capo dello stesso Agramante pendeva ancora una pesante condanna. Il Piemonte poteva garantire che con l’unificazione le cose sarebbero cambiate?

    Agli interrogativi di Orlando si aggiungevano le inquietudini di Rinaldo e di tutta la famiglia siciliana. A Palermo come a Napoli, gli anziani capi militari e i dignitari del regime sembravano paralizzati, incapaci di capire e reagire alla minaccia. Il giovane e inesperto re Francesco, circondato da ministri e generali pavidi o infedeli, non sapeva di chi fidarsi e con chi consigliarsi. Paura e opportunismo sembravano diffondersi come un’epidemia nei gangli dello stato. Intanto, aggiungeva Rinaldo, Gano di Maganza e i suoi, ma anche noti sovversivi come Giuseppe La Masa, Giovanni Corrao e Rosolino Pilo, continuano indisturbati a fare proseliti fra baroni, notabili e picciotti, mobilitando pure tutti i settari dell’isola.

    In una successiva lettera, Rinaldo informa il cugino che le cose stavano precipitando. A fine marzo, un certo Francesco Riso aveva nascosto armi e munizioni in un magazzino del convento della Gancia, a Palermo. La notte del 3 aprile, complice il frate guardiano, vi fece irruzione un manipolo di insorti che, all’alba, da tetti e finestre sparò contro una pattuglia, uccidendo un soldato. Un reparto dell’esercito in poche ore liberò il convento, uccidendo 19 congiurati e catturandone la maggior parte. Tra i feriti, il figlio di Riso che, morente, svelò tutti i particolari della congiura. Altri moti scoppiarono nell’isola fra il 13 e il 18 aprile ma, privi di partecipazione popolare, furono rapidamente sedati. Intanto - continuava allarmato Rinaldo - le voci sull’imminente sbarco di Agramante nel sud dell’isola, prima sussurrate o riservate ai dispacci diplomatici e dei servizi di sicurezza, ora circolano in piena libertà e con abbondanza di dettagli. Da giorni, settari e picciotti reclutati da Corrao e Rosolino Pilo si sono accampati, in attesa dell’arrivo di Agramante, sulle colline intorno a Palermo, accendendo fuochi durante la notte per intimidazione e propaganda. Rinaldo chiudeva la lettera invitando il cugino a raggiungerlo appena possibile, per discutere e decidere.

    Una ridda di pensieri contrastanti affollò la mente di Orlando, ponendo in gioco i doveri di ufficiale duosiciliano, lo status di conte di Anglante, il ruolo di giovane patriota del suo tempo e volontario dell’unità d’Italia. Doveva affrontare gli eventi e capire se si trattasse di un’invasione o di un’insurrezione, se fosse la solita spedizione velleitaria o raccogliesse gli aneliti radicati nel popolo, se mirasse solo a una sostituzione dinastica o all’emancipazione dei deboli. Quale sarebbe lo schieramento più appropriato per l’angelico sembiante? Decise di accogliere l’invito di Rinaldo e porsi subito in viaggio, ma intanto già Angelica si aggirava fra Calabria e Sicilia.

    Lasciamo Orlando in partenza per Chiaramonte e poniamoci sulle tracce dell’angelico sembiante di libertà e giustizia, da decenni, e a vario titolo, vagheggiato e inseguito da cavalieri, paladini e patrioti di mezzo mondo. Mi sono imbattuto, esimio lettore e adorabile lettrice, in molteplici riscontri di voci e allegorie, rapidamente attecchite fra le genti, secondo le quali, dopo un lungo ed effervescente girovagare nel nord della penisola, Angelica si trovava in uno stato di afflizione. Per volere del Conte, le era stato rubato, dal nano Brunello, l’anello fatato che, portato al dito, proteggeva da ogni incantesimo e, tenuto in bocca, rendeva invisibili. Con l’anello, Angelica riusciva a muoversi in libertà, portando ovunque scintille patriottarde ed entusiastico scompiglio. L’incarico di Brunello era di farsi inseguire, trascinando l’angelico sembiante presso cavalieri e paladini duosiciliani, per traviarli, scompaginarne le schiere e portarseli dietro.

    Completato il lavoro in Calabria, sarebbe venuto il turno della Sicilia: il nano appariva e poi si nascondeva, e Angelica a correre, cercare, inseguire, attirando suo malgrado cavalieri e rivoltosi, che immancabilmente si mobilitavano a frotte al suo seguito, pur ignorando il reale obiettivo della trama, innescando così un carosello sempre più ampio e frenetico.

    Ma voglio questo canto abbia qui fine,

    e di quel che voglio io, siate contenti;

    che meglio cose vi prometto dire,

    s’all’altro canto mi verrete a udire.

    (L. Ariosto, Orlando furioso, XXXVI,84,5-8)

    CAPITOLO 2

    MENTI RAFFINATISSIME

    Inseguendo Brunello, l’Angelico Sembiante appicca nuovi fuochi a Vibo Valentia, poi all’interno, a Soveria Mannelli, proseguendo a nord fino a Rogliano e Cosenza, per poi tornare indietro verso Reggio – ormai inconsapevole strumento dei disegni del Conte. Varcato lo Stretto, porta lo scompiglio nelle guarnigioni duosiciliane a Messina, Milazzo e Palermo, eccitando anche i fervidi cuori di liberali e democratici, le speranze dei cafoni senza terra nonché le mire rapaci di baroni, notabili e gabellotti. Infine, scende verso Trapani e Marsala.

    Orlando seguì invece diverso itinerario. Da Mongiana giunse a Stilo e Monasterace, proseguendo lungo la costa jonica e la Locride. Contava di imbarcarsi da lì per la Sicilia e quindi raggiungere Rinaldo, il quale, intanto, non ricevendo risposta al suo invito, medita di mettersi in viaggio per Mongiana. Ma poiché il diavolo, come si sa, fabbrica le pentole ma non i coperchi,

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