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Il sogno e il gelo
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E-book128 pagine1 ora

Il sogno e il gelo

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Una storia di amore che nasce tra sogni e illusioni. Un amore sofferto, vissuto nella lontananza, ma soprattutto vincolato al rispetto di responsabilità prioritarie. Un amore di attesa, visto come la promessa di un futuro migliore, di riscatto, di speranza. Ma quando, dopo anni di sacrifici, le porte si aprono, una scoperta sconcertante: è solo un enorme e bellissimo castello, un castello fiabesco, ma un castello di carte e basta meno di un soffio di vento a portare via tutto.
Di chi è la colpa? Esiste una colpa? E la verità? Esiste la verità? A questo punto è il gelo che subentra, che attanaglia e gradatamente cerca di arrivare fino al cuore. Il gelo, che sta per inaridire ed annullare tutto, che sta quasi per trasformare la materia vivente in solido minerale.
La disperazione però viene vinta di nuovo dalle capacità della mente: ancora una volta la fantasia; sogno e ricordo. Ricordo e sogno: dove è la realtà? Esiste una realtà? A volte, con infinita pazienza, si può ricostruire su misura e viverci comodamente, o almeno passabilmente, come succederà nella vicenda narrata, che ricostruisce fedelmente i processi psicologici del cervello umano. Ma in effetti, in quanti siamo a crearci da soli una prigione e poi a vivere di sogni?
Maggiori informazioni sul libro e sull’autore al sito web di SIMONE TARRONE.
 
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2019
ISBN9788834101407
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    Anteprima del libro

    Il sogno e il gelo - Simone Tarrone

    Epilogo

    Prologo: non conosco il gelo

    Fino a cinque anni di età non credo di aver veramente provato sensazioni di freddo, o perlomeno non credo di aver avuto coscienza di sentirle. Forse perché, a qualche mese dalla nascita, mi hanno portato a vivere in paesi caldi, vicino all’equatore. Forse perché mia madre mi ha sempre trasmesso il suo calore, circondandomi di un affetto semplice, invisibile, che non si traduceva in vezzeggiamenti, in tenerezze ed effusioni; ma in un sentimento costante e profondo che si diffondeva attorno a me senza segnali apparenti e senza parole.

    La prima volta che ho visto il ghiaccio e la neve è stato sulle Grandi Montagne, durante una breve vacanza che la mia famiglia si era concessa al momento di ritornare a stabilirsi in patria. Ero piccolo, con i calzoncini corti, la sciarpa e gli scarponcini e mi divertivo a buttarmi nella neve, attirato da quella curiosissima sensazione pungente alla pelle, quel biancore abbacinante, quei riflessi meravigliosi di tutti i colori dell’iride. Mi piaceva tantissimo. Trovavo bellissimo il ghiaccio.

    Ho poi approfondito la conoscenza quando, sui trent’anni, spinto da un’irresistibile impulso alla scoperta, mi sono avventurato spesso in inverno, da solo con il mio cane, sulle montagne vicino casa. Facevamo lunghe passeggiate nella neve fresca, anche di cinque o sei ore e ritornavamo stanchi morti, ma felici. Lui con i ghiaccioli che gli pendevano dai peli sotto la pancia e i cuscinetti delle zampe tutti rossi ed io con i muscoli delle gambe irrigiditi dallo sforzo di sprofondare e risollevare poi i piedi ad ogni passo. Allora ho conosciuto anche il silenzio che la neve porta e mi sembrava un silenzio di serenità e di calma.

    A cinquant’anni ho invece imparato a conoscere la morsa del freddo che ti attanaglia il corpo, un bruciore intenso che ti riveste, ma che non è realmente pericoloso fino a quando non incomincia a penetrare all’interno del torace. Ho cominciato a buttarmi in mare nell’acqua fredda anche in inverno: una sensazione forte, che ti fa sentire più giovane, che ti schiarisce le idee, che ti sveglia, che ti da una frustata e che ti fa poi stare arzillo e vivace per alcune ore… Roba quasi da masochisti, che però ti da gioia!

    Ma, fino ad ora, non avevo capito che cosa era veramente il gelo… Il vuoto, la sensazione di abbandono e di deserto che si fa nel tuo cuore, quando ti accorgi che sei solo tu che emani calore e che queste tue onde di caldo traversano la persona verso cui le dirigi senza alcun effetto, come fosse di vetro… E poi si perdono nel nulla.

    1 In viaggio verso il Paese di Ghiaccio

    Era una mattina presto d’estate quando Simone aiutò la madre ottantenne a salire in macchina e per la prima volta partirono verso il Paese di Ghiaccio. Il viaggio sarebbe stato molto lungo, almeno otto o nove ore. Date le precarie condizioni di salute della madre, Simone contava di fermarsi almeno tre o quattro volte lungo la strada, per farla riposare e rinfrescare. La strada era buia, ancora non si era fatta l’alba e mentre lui guidava, cercando di ricostruire nella mente i profili di un paesaggio che si ricordava alla luce del sole, ripensava con rammarico a come si era giunti a questo stato di crisi.

    Tutto si era svolto gradatamente, quasi inavvertitamente. I segnali si erano fatti sempre più evidenti: mancanza di appetito, debolezza generale, l’incurvarsi delle spalle, i sorrisi sempre più rari, la fatica di camminare, di alzarsi, la voglia di non uscire più di casa… Sempre più quell’atteggiamento di rinchiudersi in se’ stessa, seduta sulla sedia con la testa china e con gli occhi chiusi, con una fatica, quasi voluta, di tenere chiusi quei begli occhi castani che non volevano più vedere, come a cercare di annullare tutto quello che la circondava e di annullare pure se’ stessa in un sovrumano sforzo continuo di perdersi nel sonno; in un mondo di sogno, di ricordi ricostruiti che le rivivevano attorno, di gioventù rivissuta e di sapori, odori, e suoni di un’infanzia lontanissima.

    Ormai non riusciva quasi più ad alzarsi da sola e dormiva sempre seduta sulla poltrona del salotto. Dormire sdraiata nel letto, diceva, le faceva venire l’affanno. Quel benedetto affanno che le prendeva nel petto, facendola respirare a fatica, a bocca aperta.

    La colpa era sua, di lui stesso; lo sapeva bene Simone. Perché mai quel giorno di tre anni prima le aveva detto, mentre discorrevano del suo lavoro di ufficio, che si era innamorato di Chiara? Era uscito con quella frase all’improvviso, come per inciso, spinto da un impulso irresistibile di dire la verità, o meglio: una delle tantissime verità, che di solito non esprimeva mai a parole e subito dopo aveva cambiato discorso. Anche lei aveva fatto finta di niente, persa nelle sue attività quotidiane di brava donna di casa. Non avevano mai più ripreso quell’argomento, lei non aveva fatto domande, ma fra di loro si era aperta un’invisibile, impercettibile, ineluttabile crepa, che si era sempre più ingrandita ed allargata.

    Quella era stata una mancanza di comunicazione imperdonabile. Perché Simone non aveva mai più aggiunto e sottolineato che si era innamorato per gioco? Che il suo era uno stato d’animo momentaneo, una cosa non seria, che sapeva benissimo superare e che avrebbe poi difatti superato in poco tempo, una volta cambiato ufficio e ambiente di lavoro? Forse perché questo non era un ragionamento conscio, ma una sensazione che provava nel suo intuito e che non aveva mai analizzato approfonditamente e razionalmente? Un’altra mancanza di comunicazione, forse, ma questa volta all’interno di lui stesso; in quel caos di mezze intuizioni sulle cose più disparate che ogni giorno gli affioravano alla mente, gli turbinavano attorno e subito si dileguavano. Quelle intuizioni comunque guidavano la sua vita e le sue azioni in un comportamento che, chi gli stava attorno giudicava molto saggio e responsabile. Ma era solo frutto di decine di impulsi contrastanti, che non riuscivano ad affermarsi gli uni sugli altri.

    Era il suo modo di andare avanti, di lasciarsi guidare dagli eventi, cercando di adattarsi e di trovare un disegno razionale in tutto quello che gli succedeva e che quindi considerava come segno di una incredibile buona sorte.

    Intanto in macchina, la madre di Simone, nonostante l’ora inusuale, si guardava attorno stupita della novità, cercando come al solito di rendersi partecipe di quanto accadeva al figlio, aiutandolo a suo modo a guidare, restando sveglia anche lei per condividere il suo compito.

    Era questo il loro modo di esistere: vivere assieme, in una partecipazione condivisa dei compiti, dei dolori, delle gioie, delle fatiche, dei piaceri.

    Il loro era un legame molto stretto, che era cominciato quando il padre di Simone li aveva abbandonati lasciando, per la seconda e definitiva volta, il figlio di cinque anni e la madre senza quasi fonti di reddito, costringendoli ad un lungo decennio di sacrifici economici ed emotivi. Questo li aveva uniti molto più che in una famiglia normale. Lei aveva fatto a Simone affettivamente da madre e da padre. Lui, da figlio, era diventato con il tempo anche l’uomo di casa, incaricandosi precocemente di tutti quei compiti tecnici e domestici che di solito svolgevano i mariti. Simone era cresciuto molto prima dei suoi coetanei e si era assunto un ruolo di protezione e di responsabilità che si era sempre più affermato. Certo c’erano stati momenti di crisi, momenti di litigio, di disputa, di ribellione: le crisi dell’adolescenza. Ma sempre quel sentimento di unione fra loro due era rimasto e nonostante alcuni periodi di separazione, erano sempre vissuti assieme.

    Si capivano al volo, anzi non c’era più bisogno che si capissero. Ormai reagivano d’istinto all’unisono, in un legame di ruoli che con gli anni si era gradatamente capovolto. Ora, dopo quaranta anni, lui era il padre e lei la figlia. Un padre un po’ despota, che non le lasciava mai fare quello che lei desiderava; per il suo bene, diceva. Una figlia un po’ birichina, che gli nascondeva certe cose, come quando frugava nei cassetti per cercare dolciumi o cioccolatini di cui era golosa, che poi mangiava di nascosto, scartandoli e celando poi gli involucri dietro i mobili o sotto i cuscini.

    Fra poco sarebbe stata l’alba e Simone cominciò a irritarsi. Sentiva che lei si sforzava di restare sveglia per essere partecipe del suo compito di autista e, nonostante tutto, provava una certa stizza al pensiero che, invece, avrebbe potuto chiudere quegli occhi e provare dormire un poco, come di solito faceva sempre tutto il giorno. Così si sarebbe stancata di meno.

    Invece no! Continuava a rimanere bella desta, apposta per dargli fastidio mentre guidava.

    All’improvviso però gli venne in mente che se magari fosse stata invece addormentata, lui si sarebbe sentito ancor più irritato, a causa di quell’impulso inconscio a chiudere gli occhi, che lei gli trasmetteva ogni volta che si appisolava in macchina dopo pranzo, quando la domenica andavano a fare una gita fuori porta.

    I minuti passavano, i chilometri pure, nel rassicurante vibrato del motore e nel fruscio dei pneumatici sull’asfalto della superstrada. Intanto, fuori, inavvertitamente l’oscurità, al di là del fascio di luce dei fari, cedeva il passo ad una varietà di toni di grigio, che facevano risaltare i contorni delle montagne lontane sulla destra e delle colline basse a sinistra. In quel viaggio avevano ancora la macchina vecchia, quella senza il lettore musicale inserito nel cruscotto che, nella nuova, in seguito, avrebbe riempito l’abitacolo delle armonie barocche di uno dei tanti CD che per passione Simone si divertiva a realizzare da solo, scaricando da Internet i brani dei musicisti più sconosciuti che si potessero trovare, tutti rigorosamente vissuti tra la metà del 1600 e la fine del 1700.

    Quel viaggio silenzioso era il viaggio della speranza. Andavano verso uno di quei cosiddetti centri di benessere e di salute, dove gli avevano detto che c’erano

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