Profumo di focaccia
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Su tutto aleggia sensuale un tentatore profumo di focaccia.
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Anteprima del libro
Profumo di focaccia - Tiziana Fresia
Prologo
Olfatto, pensiero e respiro.
Queste le uniche facoltà di cui in queste condizioni faccio largo uso, anche se, a dire il vero, della prima in questa situazione farei volentieri a meno perché l’odore affetta il respiro.
Pensare, solo pensare, forse troppo tardi farlo ora.
Schiacciato da sacchetti e sporcizia marcescente mi accorgo dei liquami e del viscidume e non oso pensare cos’è che sta lentamente colando lungo il margine superiore del mio labbro, sotto il naso. Sembra un sottile e lungo lumacone, basta lumaconi per stasera. Devo respirare piano, non vorrei ritrovarmelo anche su da una narice. Certo, se prima non sentivo nulla e ora avverto questo schifo, forse è un buon segno.
Sto recuperando altre facoltà o solo ora l’impermeabilità di un sacchetto ha ceduto?
Non so da quanto sono qui, forse solo da un’ora, forse da due, mi riesce difficile conservare il senso del tempo che passa e il mio polso è piegato dietro la schiena, comunque, anche se l’avessi davanti agli occhi, in questo buio pesto non riuscirei a leggere l’ora dal mio bel Rolex d’oro anche se la vista, prima di entrare qui, ricordo, l’avevo di certo.
Non so se riuscirò a muovermi in tempo, mi sforzo di farlo, ma la sensazione è quella di essere in un blocco di cemento.
Il tempo trascorre lento, qui dentro, mentre nessun segno di ripresa giunge dal mio corpo e allo stesso tempo vola velocissimo fuori da dove il mio udito, e giurerei che anche quello era rimasto intatto, teme di avvertire da un momento all’altro l’imminente arrivo del camion fatale.
Ma come ho fatto a mettermi in questa situazione?
Tutto ha avuto inizio a quella festa, anzi subito dopo.
Festa di fine estate
Appoggiato al parapetto del balcone della ricca casa, Gianfranco Rebagliati, Gianfi per gli amici, sorseggiava annoiato il suo aperitivo, in attesa che il tempo passasse presto.
Era una bella serata autunnale, nel cielo ancora si poteva ammirare l’eco di quello che doveva essere stato uno dei tramonti più rossi degli ultimi tempi e il silenzio, la profondità e l’oscurità della campagna delle Manie avevano il sopravvento sul vociare e la luminosità che provenivano dall’interno, ma purtroppo il DNA di Gianfi non era programmato per accorgersi di certe sciocchezze.
Ripensava invece a quando aveva ricevuto l’invito a quella festa. Non aveva molta voglia di accettare, ma nello stesso tempo gli era sembrato stupido mancare a una delle più ambite occasioni mondane di tutto il savonese.
Essere invitati nella casa di campagna dei Calcagno per l’annuale festa autunnale, prima della chiusura della villa per l’inverno, era considerato da tutta la Savona che conta
un onore e un privilegio. Nel suo caso, poi, sarebbe stata l’opportunità ideale per fare un ritorno alla grande
nel vecchio giro di amicizie, quelle giuste. Vent’anni prima si era sposato con Carla, una ragazza triestina, e per mille motivi, tra cui quello che lei lavorava e lui no, si era trasferito così lontano ed era stato sempre troppo pigro per ritornare nella sua città.
Il matrimonio era di recente andato a rotoli per la classica incompatibilità di carattere: lei amava lavorare anche se non ne avevano bisogno e non capiva come mai lui, che era laureato in scienze politiche, si ostinasse a non prendere in considerazione le innumerevoli occasioni che, instancabilmente e a fatica, lei riusciva a procurargli.
Gianfi adorava dormire fino a tardi alla mattina, pigrare ciondolando per casa tutto il giorno e proprio non capiva perché Carla cercasse di farlo sentire colpevole per questo. Lui non provava alcun senso di colpa nel veder scritto sulla sua carta d’identità benestante
, anzi ne era fiero e spesso se ne vantava con gli amici. L’unica ambizione che aveva era quella di vivere tranquillo col minor sforzo possibile e col massimo di stile o perlomeno quello che lui riteneva tale e, potendo permetterselo economicamente, gli sembrava coerente col tipo di vita che aveva intrapreso. Gli era già sembrata una cosa estenuante essere riuscito a prendere una laurea in una materia della quale nulla gli era mai interessato e avrebbe voluto godersi in pace un lungo, lunghissimo periodo di meritato riposo senza avere una rompiscatole di quel calibro a boicottare i suoi programmi.
Certo, considerava, se avesse avuto la fortuna di alcuni suoi amici, la cui agiatezza economica derivava dalla gestione di un’impresa familiare ancora in essere, avrebbe potuto come loro far finta di essere impegnato in cose importanti, autonominandosi, a seconda dei casi, consigliere, amministratore o presidente, giocando così di volta in volta a fare l’imprenditore e forse in quel caso avrebbe salvato il matrimonio ma, in fin dei conti, perché prendersi questo mal di pancia? In fondo sì, voleva bene a Carla, ma doveva ancora nascere la donna che, lasciandolo, l’avrebbe fatto piangere.
Lui, di donne ne aveva sempre avute e i motivi di questo successo, secondo lui, erano sempre stati molto evidenti.
Negli anni del liceo era l’unico ad avere l’intera collezione di scarpe Barrow’s
, quelle a punta con le frangette, tanto scomode ma così indispensabili a quei tempi se volevi essere qualcuno. Ne possedeva un paio per ogni colore della produzione, sia in pelle che in camoscio, mica come quei poveracci che se la tiravano
già quando riuscivano ad avere il permesso di comprarsene un solo paio.
I suoi genitori, dapprima titolari di una catena di lavanderie, nel caso di Savona una catenina, e poi proprietari di parecchi immobili di prestigio, stravedevano per l’unico figlio maschio e poiché queste sue richieste erano di per sé innocenti, preferivano assecondare totalmente quelli che loro reputavano i suoi interessi verso il mondo, per non turbare il suo equilibrio psichico sempre così precario a causa della forte sensibilità d’animo di cui era dotato il loro figlioletto e non rischiare che il suo orgoglio personale ne patisse. Così dopo la volta delle Barrow’s, ci fu quella delle magliette col coccodrillino, poi dei pantaloni di quel tipo o le camicie di quella marca o gli orologi di quell’altra, per non parlare di motorini, moto e auto. Lo stesso con gli sport: aveva un’attrezzatura completa e perfetta per ogni attività che aveva iniziato a praticare e che regolarmente non aveva mai continuato dopo i primi mesi. A mamma e papà dispiaceva farlo iniziare con l’handicap di un’attrezzatura provvisoria o addirittura affittata. Orrore!
Avrebbe potuto influire negativamente sulla sua psiche e tale inadeguatezza ripercuotersi sulla sicurezza del figlio e decretare il fallimento nello sport del momento.
Si sentiva felice per essere stato così amato e capiva come mai tante, ma soprattutto certe donne, sembravano non aver occhi che per lui. Lui stesso se fosse stato donna si sarebbe amato. Dove avrebbero trovato un altro così raffinato, belloccio e benestante come appunto amava definirsi?
Aveva perfino preso una laurea praticamente solo per rifinire il quadretto.
Non gli era mai venuto il sospetto che lo cercassero perché, nell’animo un po’ puttane, fossero interessate a quello che aveva piuttosto che a quello che era. Non poteva pensarlo, perché per lui quello che aveva si identificava da sempre con quello che era. Di solito era scelto e, certamente come è capitato a tutti, quando aveva provato a scegliere lui qualche volta era stato rifiutato ma, a pensarci bene, solo da quelle zotiche un po’ rivoluzionarie che non capivano l’importanza delle cose che contavano davvero e che, per questo, sicuramente avrebbero avuto una misera riuscita nella vita.
Le savonesi raffinate, quelle sì, erano dalla sua parte e come c’erano rimaste male quando si erano viste soffiare sotto il naso, da una triestina, quel bocconcino prelibato!
Guardando sul fondo del bicchiere ormai vuoto gli venne da sorridere pensando che ora, col suo ritorno, ci sarebbe stata la fila.
Certo se i suoi fossero stati ancora vivi e avessero potuto vedere il loro prodotto a quarantasette anni suonati, considerando il timore che in vita avevano avuto di nuocere all’ego del proprio figliolo, avrebbero ben potuto dirsi soddisfatti del loro lavoro. Fin troppo.
Anche definirsi belloccio
era da attribuirsi alla sua scarsa obiettività nel giudicarsi.
In realtà Gianfi era, fisicamente parlando, una persona normalissima e insignificante, di quelle che non si notano né per bellezza né per il contrario. Alto più o meno un metro e settanta, né magro né grasso, ma con un po’ di pancetta incipiente. Gli ultimi capelli castano chiari si facevano largo a fatica tra quelli grigi ormai in netta preponderanza. Gli occhi chiari e un po’ slavati, ma potenzialmente attraenti, in realtà non si notavano neppure, probabilmente perché lo sguardo era totalmente privo di quella luce che ti fa scegliere di parlare con quella persona piuttosto che con un’altra.
Nell’insieme non si notava.
Se non fosse stato per la sua voglia di mettersi in mostra, col suo fisico avrebbe potuto fare tranquillamente l’agente segreto perché era proprio uno qualunque, così qualunque da passare tranquillamente inosservato.
Decise di rientrare. Le stanze della villa cominciavano a riempirsi e il freddo pungente dell’aria delle Manie e la curiosità di vedere i nuovi arrivi ebbero il sopravvento sui suoi pensieri di autocompiacimento e poi aveva intravisto degli stuzzichini d’accompagnamento all’aperitivo ai quali, a Trieste, si era disabituato.
La stanza che si affacciava sulla terrazza, come del resto tutta la casa, risultava ridicola anche a uno come lui che apprezzava l’abbigliamento di donne che pareva ordinassero i loro vestiti direttamente alla Mattel, la ditta americana produttrice della famosa Barbie. I proprietari, infatti, nel tentativo congiunto di rendere la magione di campagna esageratamente rustica e ricca allo stesso tempo, ne avevano fatto un museo degli orrori.
Alle pareti erano appese vecchie pentole e padelle di rame volutamente mal tenute e sporche perché sembrassero più antiche e un’enorme testa di cinghiale troneggiava sul caminetto finto: una composizione di tronchi in legno fatti su misura celava al suo interno una lampadina rossa e una specie di girandola che, azionate contemporaneamente da un interruttore, riproducevano alla meglio il movimento e il colore del fuoco.
La giustificazione a tutto ciò era stata data dalla iperingioiellata padrona di casa: «A cosa serve un caminetto vero al mare? E poi sporca! Invece così godiamo lo stesso della sua atmosfera semplicemente schiacciando un pulsante. Pratico no? Ma per onestà devo dirlo: è stata una delle idee di GioBatta. Mica voglio prendermi tutto il merito!».
Pur essendo finto, il camino era fornito di un barocco e pesante porta-attrezzi in ferro battuto.
Una vecchia carcassa di pianoforte fungeva da mobile bar. La parte sopra la tastiera, dove una volta c’erano telaio, corde e martelletti, era stata attrezzata con dei ripiani sui quali facevano bella mostra di sé bottiglie colorate e bicchieri di cristallo Baccarat. La parte inferiore serviva come cantina di riserva, nel caso che una delle bottiglie al piano alto finisse, ma restava chiusa ed era usata solo in quel caso, mentre la parte superiore veniva aperta a ogni ricevimento e richiusa col suo pannello originale alla fine.
La parete di una stanza era rivestita con una tappezzeria che riproduceva un muro in pietra e in mezzo a questa, non si sa perché, c’era una finestra vera ma finta. Vera perché in effetti lo era, finta perché non si affacciava da nessuna parte ma, semplicemente, incorniciava le due ante esterne chiuse mettendo in risalto l’abete intagliato al loro centro, leit-motiv di tutta la casa. Sul davanzale interno, una fioriera in ferro battuto con edera variegata e petunie multicolori in seta, sottolineavano quella presenza. Forse alla padrona di casa sembrava che la stanza fosse un po’ spoglia. I rivestimenti dei divani, le tende e tutti i tessuti erano, a seconda della stanza, rigorosamente a fiori o a quadri e, ancor più rigidamente, in negativo e positivo: stessa fantasia in negativo sulle tende e positivo sui divani, o viceversa.
Questo per tutta la casa.
A unire il tutto una pesante perlinatura in legno scuro e nodoso interrotta solo dalle porte con maniglie barocche e vetro centrale tagliato a forma di cuore, ingentilito, però, da due virgole alla base e alla sommità dell’intaglio. La restante parte non vetrata era occupata da serigrafie di pastorelli e pastorelle che danzavano felici nell’aia popolata di conigli e galline.
Nel prato sottostante carretti di legno, botti, botticelle e perfino un pozzo finto traboccavano di fiori. I nanetti li avevano tolti ultimamente perché avevano sentito dire che non faceva fine
.
Arretrando nel prato o arrivando dalla strada non si poteva fare a meno di rimanere stupiti e meravigliati dalla torretta che sovrastava la casa, aggiunta alla costruzione originale dopo l’acquisto da parte dei Calcagno, e considerata da loro il fiore all’occhiello: quel tocco in più che necessitava per conferirle una certa signorilità.
Tutto ciò non incontrava sempre il gusto dei più, ma quasi tutti, in ossequio alla potenza economica – e non solo – della famiglia Calcagno, non ne facevano cenno non per educazione verso chi li ospitava ma piuttosto per timore e se da qualche maligno, che poteva permettersi il lusso di non aver bisogno dei Calcagno, erano chiamati a dir la loro sull’arredamento, lo definivano prudentemente con termini tipo: squisitamente naïf, volutamente kitsch, intelligentemente spiritoso.
In realtà, quella casa altro non era che la risposta dei Calcagno alla frustrazione che avevano dovuto subire da un noto architetto savonese che aveva progettato e interpretato il loro grande appartamento in città con un rigore e un’eleganza non comuni, ma troppo semplici ed estranei a loro.
La padrona di casa si sentiva talmente spaesata da non riuscire a gestirla, la trattava come una cosa preziosa che non sapeva maneggiare e, per essere sicura di non sbagliare, chiamava l’architetto anche solo per spostare un soprammobile.
Posizionati fra il tavolo degli stuzzichini e il piano-bar
Gianfi vide vecchie conoscenze. Decise di unirsi al gruppetto di uomini ma prima si soffermò incantato davanti a quella parte di buffet dedicata alla focaccia.
E quasi si commosse.
Sette grossi piatti ricolmi di piccoli quadrati, rombetti e triangoli di focaccia: uno per tipo. Oltre alla tradizionale, quella alle cipolle, alle olive, integrale, al prosciutto, al formaggio, ai cereali. Anche in un tipo piatto
come lui riaffiorarono sentimenti e ricordi e un’emozione strana lo avvolse quando risentì sulla lingua e fra i denti quell’antica piacevolezza della consistenza morbida e croccante a un tempo, madida d’olio e secca all’altro. Un attimo prima di ingoiarla, nel sommo momento del gusto, chiuse gli