De Vinculis in generale
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Anteprima del libro
De Vinculis in generale - Giordano Bruno
Bruno
Su l'Autore
«[...] Io ho nome Giordano della famiglia di Bruni, della città de Nola vicina a Napoli dodeci miglia, nato et allevato in quella città [...]»
La casa di Gioan Bruno
era situata nella parrocchia di San Paolo, il più ameno dei casali di Nola, nella Campania Felix, a circa un chilometro dalla città, nella parte bassa della costa del Monte Cicala: piccola contrada
, quattro o cinque stanze non troppo magnifiche
, ricorda il filosofo; abitazioni di contadini, stalle, ricoveri, orti, poderi, piccole chiese rurali, e un convento di frati cappuccini, eretto, dopo il 1556, nel luogo dove era andata in rovina una cappella di campagna dedicata a San Giovanni. Peri i nolani, quella specie di contrafforte nel fianco del monte Cicala era appunto San Giovanni dello ciesco
, da caescum, gran sasso
. Quella casa di Gioan Bruno, confortata da podere, aveva costituito la dote non irrilevante che Fraulissa Savolino, proveniente da famiglia modesta ma non umile, aveva portato al marito. In San Paolo si contavano quattordici famiglie Savolino, tutte di qualche capacità e reddito, agricolo o artigianale. E con qualche amore per le leggende e fiabe, per il mito antico e le storie di dame e cavalieri. Fra i Savolino, e altre famiglie della zona, come lamentavano le autorità ecclesiastiche del tempo, questo amore era segnato dalla ricorrente scelta di nomi un po' esotici e davvero poco cristiani per i battenzandi : piuttosto che all'agiografia, i nolani ricorrevano alle favole pagane e alle saghe nordiche, imponendo ai propri figli nomi come Luna, Scipione, Mercurio e Morgana, Febo e Cassandra e, per l'appunto, Fraulissa. Questi nomi piaceranno moltissimo a Bruno, che li adopererà spesso per i personaggi dei suoi dialoghi italiani, sia che evochino effettivamente divinità ed eroi dell'antichità, sia che richiamino parenti e amici della sua famiglia, personaggi della sua infanzia.
Rispetto ai Savolino, Giovanni Bruno era uomo di minor fantasia. Egli volle che al bimbo nato nell'inverno del 1548 fosse dato il nome di Filippo. Giovanni era un uomo d'armi. Combatteva nell'esercito del Re di Spagna, dei cui domini Nola, città del Regno di Napoli, faceva parte a quel tempo. Nola non era una città qualsiasi, né per Bruno né in sé considerata. La città si riprendeva da secolari mortificazioni e sacrifici, in cui aveva però affinato la sua tenacia, dimostrandosi finanche eroica: di quell' eroismo non solo militare, ma più latamente civile, che Bruno avrebbe reso uno dei temi principali della sua gnoseologia e della sua etica. Il passato più distante, quello di estrema piazzaforte etrusca nel retroterra campano, era stato importante, ma non poteva ovviamente costituire, per i nolani del Rinascimento, un modello di riferimento. Conquistata dai Sanniti nel V secolo, si era infine sottomessa a Roma nel 311 a.C. Aveva conosciuto il suo momento di vera gloria durante la guerra annibalica. Dopo la sconfitta romana a Canne e il tradimento di Capua, il partito popolare
nolano cospirava per insorgere contro Roma e arrendersi ai cartaginesi, ma l'aristocrazia scongiurò la defezione, e Nola, da quasi fedifraga, si trasformò in principale baluardo della resistenza ad Annibale, che nel 216 a.C. l'assediò senza vincerla. Questo episodio restò indelebilmente scolpito nella memoria storica dei nolani, e su di esso cominciò a forgiarsi l'immagine della città come avamposto militare, vivaio di generosi guerrieri, fedele fino alla morte agli alleati e alla parola data.
Nessun filosofo dell'età moderna legò con tanta determinazione e tanta fierezza il nome del suo luogo d'origine al proprio nome quanto Giordano Bruno, fino al punto da fissare accanto ad esso l'aggettivo Nolano, e renderne inseparabile la propria identità. I nomi, le parole, avevano un'importanza straordinaria per Bruno: possedevano forza evocativa, rivestivano un valore pratico, nel senso della prassi magica, e della sua riforma, intorno alla quale egli si concentrò negli ultimi anni della sua vita. Una grande forza è insita nei nomi
, scrive in una sua tarda opera sulla magia, il De rerum principiis del 1590. Alla ricerca di cose, e non solo di parole, il giovane Filippo Bruno, di quattordici anni, viene mandato a Napoli, nel 1562, a proseguire i suoi studi. Filippo lascia la contrada nativa, le pendici del Monte Cicala, per dirigersi verso quel Vesuvio che nell'infanzia gli era parso segnare i confini del mondo.
Anch'io da ragazzo, credetti che non vi fosse nulla oltre il Vesuvio, dal momento che non potevo scorgere niente aldilà di esso
.
Nell'esordio del III libro del De immenso il passaggio dal grembo rassicurante del più domestico Cicala alla mole apparentemente minacciosa e spoglia del vulcano è rievocato con un dialogo tra i due monti ed il fanciullo: L'amato Cicala, dolce monte, avvolto d'edera
, mostra a Filippo, verso Sud, il suo fratello Vesuvio:
Ti devo mandare là? Dì, vuoi andare? Rimarrai con lui poi
.
Quell'oscuro ammasso
, visto da lontano, con occhi appena usciti dal ristretto circolo dell'infanzia nolana, incuteva timore; quella dentata china, quel dorso ricurvo, appare così brutto, coperto di fumo; non produce nessun frutto, né mele, né uva, né dolci fichi. È Privo di alberi e giardini, oscuro, tetro, triste, truce, spregevole, avaro
risponde Bruno. Eppure, una volta superate le puerili paure di chi immagina più che osservare, il piccolo Filippo scopre, mentre il Vesuvio gli si fa più chiaro e distinto , venendogli incontro e poi accompagnandolo lungo la strada che da Nola porta a Napoli, che il monte è superbo per la molta vegetazione, ricco di uva pendente abbondantemente dai rami, e di frutta svariata.
Svettante verso il cielo benevolo della patria, a cui nulla mancava delle cose che io conoscevo e di cento altre ancora, per cui
sbalordito per la scoperta feci ricredere innanzi tutto i miei occhi ingannevoli".
Il Vesuvio lo accoglie, lo cinge di varie corone di fronde
, gli riempie le mani di frutti sconosciuti
, metafora di quella scienza che solo a Napoli, a partire dagli studi colà compiuti, comincerà a dischiudersi al giovane Nolano fino ad allora vittima, più che allievo, di maestri di grammatica. Così Bruno racconta del suo viaggio verso la capitale del Regno.
Bisogna dubitare dell'apparenza, poiché la distanza muta l'aspetto delle cose, pur mantenendosi esse le stesse
.
La divina maestà della natura è presente dovunque e dappertutto, né potrei tanto facilmente valutare le cose lontane peggiori o migliori di quelle vicine; così ho scoperto che anche noi siamo cielo per coloro che sono cielo per noi
.
Porta Capuana lo avrà accolto in una delle metropoli più popolose e vivaci del mondo, ancora fresca delle nuove, grandiose fabbriche decise dagli spagnoli, e che lentamente e con qualche resistenza viene adeguandosi alle nuove norme urbanistiche, a quel tentativo di riordino che fu tra i meriti principali del Toledo. Tuttavia, all'esordio del soggiorno di Bruno, Napoli non offre il suo aspetto migliore. Tra l'autunno del 1562 e l'inverno dell'anno seguente la città si presenta avvolta in funeste nebbie, cui la voce comune imputa l'epidemia di mortale influenza che flagella la popolazione. Le strade sono un po' sinistramente illuminate dai fuochi che il vicerè don Pedro Afan de Rivera, duca d'Alcalà ha ordinato di accendere davanti a ogni casa, quale davvero ingenuo rimedio al contagio.
Filippo trovò una stanza piuttosto vicino all'università, nel quartiere di Nido,