Il Ragazzo di Strada
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Anteprima del libro
Il Ragazzo di Strada - Carmela Abate
PARTE
PRIMA PARTE
Da generazioni i capi famiglia maschi chiamavano le donne Giovannina, ma quando sono nata io mia nonna si è ribellata.
Il tuttofare di mio padre non aveva mai tempo, sempre impegnato non solo con il lavoro, ma anche con le belle donne, e se individuava anche qualche ragazza di turno vergine, meglio. E mentre stava per andare a rivelarmi al comune, mia nonna lo avvisa: «Ehi tu, non ti permettere di rivelare mia nipote Giovannina, altrimenti sono guai per te! Rivelala con il nome Nina».
E così è stato. Comincio da quando mi ricordo. I miei genitori sono stati sempre assenti, troppo impegnati. Sono stata cresciuta dalla tata, brava persona e ottima mamma, con l’aiuto straordinario di mia nonna, autoritaria, sempre lamentosa e con gli acciacchi della vecchiaia per i lavori di fatica che ha dovuto fare per tutta la vita. Mio padre era un bel giovane con un difetto speciale: da quando aveva iniziato la pubertà, oltre a studiare, aveva incominciato ad amare le belle donne! Lui, ragazzo, per fare esperienza, le voleva donne fatte. Man mano che cresceva succedeva il contrario: sempre più giovani; e non solo. Si stancava sempre con la stessa, se il rapporto durava un po’ di più dipendeva dall’intelligenza di lei e da come lo intrigava, finché a trent’anni ha conosciuto mia madre. Non solo era bella ed intelligente, con una dote non indifferente, simile a lui: ricca e tanto tanto intrigante! Si sono innamorati si sono amati e, una volta rimasta incinta, si sono sposati e dal loro amore sono nata io. Se si fossero amati o fosse stato soltanto sesso io non lo so. Fatto sta che è durata poco, perché come ho già detto mio padre aveva un pregio al contrario: amava sempre cambiare le belle ragazze.
Torniamo a noi. Da piccola la tata mi portava sempre in chiesa a messa, io non ci andavo contenta, ma mia nonna cattolica praticante, così ordinava alla tata:
«Nina non deve essere come i suoi genitori, miscredenti idioti, cominciando da suo padre, mio figlio, senza parlare di sua madre, si sono assortiti bene in tutto!» terminava scuotendo la testa.
A sei anni i miei genitori, sempre assenti, hanno pensato per me a un’istitutrice per la scuola a casa. Niente scuola statale. Ho detto allora alla mia tata: «Chi mi ha allevata? Tu, no? I miei genitori dove sono andati a scuola, mami? Alla scuola statale? E ci vado anch’io» «No, Nina i tuoi genitori hanno già deciso!» «Ah sì? Gli parlo io o lo fai tu? Voglio andare a scuola e ci andrò!».
C’è stata una lite furibonda tra i miei genitori, alla fine ho vinto io. Ho cominciato la prima elementare nella classe mista. Differivo tra loro per le scarpe, i calzettoni e i capelli puliti e profumati, e soprattutto senza pidocchi, ma durante la scuola li ho presi anch’io. Grembiule blu scuro, collettino bianco e fiocco blu. Seconda fila in un banco insieme a una ragazzina come me, ma diversa di carattere, rideva sempre per qualsiasi cosa, perfino il cognome del professore secondo lei era divertente. A un ragazzino gli piacevo, mi lanciava dei bigliettini, li prendeva sempre la mia compagna di banco, li apriva e, vedendo che erano scarabocchi, perché il ragazzino non sapeva né scrivere né leggere, rideva toccandomi, mi coinvolgeva e ridevo anch’io disturbando tutta la classe. Il professore ci chiamava alla cattedra: «Vieni anche tu, Rossini» e via rigate che facevano male. Io le prendevo zitta, la mia compagna di banco, artefice delle risate, rideva e più rideva e di più le rigate suonavano sulle mani. Io mi arrabbiavo, una volta al banco non le parlavo più, lei come se niente fosse, continuava. Mi toccava e si avvicinava con la testa come per fare la pace, così non solo ho preso i pidocchi, ma non passava giorno che non prendessi le rigate, finché una volta il professore, stanco delle nostre risate idiote, ha persino rotto la riga sulle mie mani. «Voi due mi fate impazzire!» ma non ci cambiava di banco. Un giorno il ragazzino del bigliettino, che come ho detto glielo prendeva la mia compagna di banco, mi chiama, io mi giro e guarda caso mi prende nell’occhio. Io percepisco il pericolo e chiudo le palpebre, ma non è sufficiente. Il dolore e l’occhio gonfio me li sono portati dietro per parecchi giorni causando non pochi problemi a casa.
Stanca di prendere sempre rigate, mi sono arrabbiata con tutti e due, la mia compagna di banco e l’idiota del ragazzino. Niente punizione del maestro, ma il secondo anno mi hanno cambiata di classe, tutta femminile, con un’insegnante zitella, acida, in menopausa e non solo. «Nina» diceva sempre la mia tata «se lo sa tua madre che hai preso i pidocchi sono guai!». Non solo i pidocchi, quante rigate, ma mi sono anche divertita.
Durante il secondo anno con la zitella, la mia compagna di banco era una ragazzina tranquilla, stavamo bene insieme, niente risate né parole, ma nemmeno tanto attenta alle lezioni. Un giorno la zitella mi chiama alla lavagna: «Rossini, risolvi queste divisioni» prendo il gessetto senza esitare e risolvo le divisioni. La zitella mi guarda con uno sguardo feroce come dire: «E perché non stavi attenta?». Senza dirmi niente del risultato: «Vai al posto, Rossini». Cosa avesse capito o cosa avesse pensato in non lo so, so soltanto che dopo quel giorno mi ha ignorata e, non solo, non mi ha più nemmeno chiamata alla lavagna. Anche i compagni di classe mi ignoravano. A me non piaceva, non ero di indole una che rideva, almeno così pensavo a sei anni, ma socievole sì, così è stata dura durante gli anni successivi. Alla fine, all’esame del quinto, sono uscita con appena la sufficienza per la gioia dei miei compagni di classe che erano migliori di me, però io ero contenta.
Un giorno domando a mia nonna: «A chi somiglio io?» «A nessuno, sei solo Nina».
Erano litigi con mia nonna se ogni domenica non andavo a messa, io avevo certi palloni! Finché a peggiorarli non ci si è messo il catechismo, tutti i giorni per fare la prima comunione.
Alla vigilia della prima comunione tutte a confessarsi, poi a me è successo qualcosa per cui per tanti anni non sono più andata in chiesa, e i sacerdoti mi sono andati su quel qualcosa che non ho! Sentite.
Inginocchiata nel confessionale il sacerdote, che conosceva bene i miei genitori, anche se non li aveva mai visti in chiesa, dice: «Figliola, confessa tutto, altrimenti quando prendi il corpo di Cristo morirai!». La paura di morire a soli dieci anni mi faceva tremare. «Padre, mi faccia lei le domande, io non so se e cosa vuol dire sbagliare.» Così lui comincia le domande: «Hai fatto questo» «Sì, padre» «Hai fatto quest’altro?» «Sì, padre». La paura è tanta che rispondo sì a tutto. Infine la domanda pazzesca: «Con i ragazzi fai dei giochetti?» «Che tipo padre?» «Carezze, bacetti e poi vi appartate da soli?». Immediatamente torno alla prima elementare, al ragazzino che mi lanciava i bigliettini, e se fosse peccato? Così rispondo impaurita: «Sì, padre l’ho fatto…» «Oh figliola, questo è grave, non farlo mai più, vai al banco in ginocchio e per penitenza prega dieci rosari!». Dieci rosari equivale a cinquanta ave Maria e altrettanti Padre Nostro e Gloria al Padre, Salve oh Regina. L’ho fatto, ma sono stati gli ultimi per tanto tanto tempo. E questo non è ancora niente. Nonostante tutti i sì, la paura resta e se il sacerdote non mi avesse fatto tutte le domande? Che avrebbe fatto Dio, mi avrebbe fatto morire? Non pensarci era difficile, quella notte non ho dormito. Ero vestita da sposa in miniatura con il giglio della purezza in mano, e lo ero veramente, per pochi anni ancora, fino a quando avrebbe preso il sopravvento il DNA dei miei genitori. Allineati tutti vicini all’altare, il mio cuore batteva all’impazzata man mano che il sacerdote si avvicinava, poi è arrivato a me. «Il corpo di Cristo» «Amen». E non sono morta! Ma tu guarda questo sacerdote, non mi piaceva prima andare in chiesa, puoi immaginare dopo: poi qualcuno dice che perdi la fede…
Dopo questo episodio triste non è cambiato niente nella mia vita, è stata un’esperienza negativa come è successo in altre occasioni. Solo che in chiesa non ci andavo più, non per Dio, io ci credevo perché è un essere superiore a noi, e pensavo che si dovesse credere a qualcuno per andare avanti nella vita. Tutte le domeniche mia nonna insisteva per andare a messa e io niente, ero determinata «Almeno la cresima la farai?» «Vedremo».
I miei genitori erano in crisi, ma non facevano capire niente a nessuno: dormivano nello stesso letto e qualche notte, per cambiare o ricordare la prima volta, facevano l’amore. Mia madre conosceva bene l’uomo che aveva sposato, perché l’ha fatto quindi? Innamorata? Forse. Il fatto sta che dopo tanti litigi violenti, e non solo in camera da letto, facevano sempre pace. Amore con amore si paga, dicevano loro, di comune accordo. Mio padre le sue donnine, mia madre i suoi maschietti, e non tutti ricchi, alcuni li facevano ricchi loro. Poi, finita la passione, avanti altri. Chissà se a me sarebbe rimasto qualcosa della loro immensa ricchezza. Ma sì, in fondo ce n’era tanta, ma a me non importava più di tanto, l’importante per me era la pace a casa e nella mia vita.Mio padre beveva normalmente qualche bicchiere di vino quando pranzava e cenava, se era in compagnia un po’ di più, ma niente di che, restava solo allegro. Mia madre, invece, beveva di più e non solo vino, diceva, per non pensare a tutti i tradimenti di mio padre. «E tu mamma, cosa stai facendo? I tuoi non si chiamano tradimenti, e non solo?» le domandavo, ma senza risposta. La donna che beve di più di un uomo e poi non ragiona fa schifo, e per mia disgrazia ho preso da lei. Non so se glielo avrei perdonato questo maledetto DNA che mi ha lasciato.
Una volta cominciate le medie, sono sempre andata alla scuola statale, ho cambiato insegnante, ma la situazione è restata sempre la stessa, anzi è peggiorata. I poveri prendevano pesci in faccia, i benestanti andavano meglio, io ero l’unica ricca che non indossava più la divisa: «Ma ‘sta ricca cosa ci fa qui? Ci prende in giro?». E ho incominciato a prendere anch’io pesci in faccia. Prendere pesci in faccia non era esattamente quello che mi sarei aspettata da quella scuola. Se dovevo prenderli li avrei presi, ma li avrei presi d’oro questi pesci, che è meglio.
Così per tre anni ho conosciuto un po’ dell’altro mondo, non è che mi piacesse tanto il mio, ma per il momento preferivo l’oro a diciotto carati. E così sono uscita dalla terza media con lo stesso punteggio delle elementari: appena la sufficienza. Per la gioia di mia nonna, finite le medie, ho fatto anche la cresima, ma l’antipatia per i sacerdoti è rimasta. Per le superiori mia madre, se avesse fatto una scommessa con mio padre, l’avrebbe vinta. Una settimana di sesso sfrenato con mio padre, perché io ho deciso di andare in collegio, ma i miei genitori non lo sapevano. Sentite. Eravamo a tavola per cenare, non tutte le sere i miei genitori si presentavano, quella sera c’erano. «Nina» mi dice a un certo punto mio padre «che intenzione hai per le superiori? Non dirmi che vuoi andare ancora alla statale? Ho saputo che sei uscita con la sufficienza e che hai preso anche i pidocchi!» «Sì, è vero papà, ma ora i pidocchi non ci sono più!» «E con questo cosa vuoi dire, che vai alla statale?». Oh