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Meglio di Grosso ai mondiali: Diario di un backpacker
Meglio di Grosso ai mondiali: Diario di un backpacker
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E-book312 pagine4 ore

Meglio di Grosso ai mondiali: Diario di un backpacker

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Info su questo ebook

Alex De Bernardi è un giovane cuoco italiano che lavora nel ristorante di famiglia gestito dal fratello, considerato il più responsabile tra i due. Alla viglia del matrimonio con la bellissima Elena, molla tutto e vola a Sydney, meta del viaggio di nozze che i due avevano programmato.
Un intero continente si estende davanti alle sue incertezze, alla sua apatia, al suo diritto di scappare da una verità che lo vede perdente in ogni caso. Spaesato, senza conoscere una parola d’inglese si affida a José, un pusher spagnolo conosciuto la prima notte in un pub. I due cominciano a spacciare insieme negli ostelli della città finché José, un giorno, scappa con i soldi e l’ecstasy acquistata in società. Alex quindi intraprende un viaggio, che lo porterà dalla costa est a quella ovest dell’Australia tra ostelli fatiscenti, feste e ogni tipo di eccesso, dapprima per cercare il suo compare e riprendersi i soldi, poi per sfuggire proprio a quest’ultimo.
Lungo la strada la sua storia si incrocerà con quella di altri ragazzi e ragazze provenienti da ogni parte del mondo, in giro come lui senza un soldo, in pura filosofia backpacker: viaggiare con lo zaino in spalla nel modo più economico possibile.
Il romanzo rispetta, sia pure in forma anomala, lo stile diaristico e fotografa una generazione desiderosa di vivere il più intensamente possibile prima di trovare se stessa e diventare adulta.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2019
ISBN9788832924886
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    Anteprima del libro

    Meglio di Grosso ai mondiali - Alex Bertazzolo

    2008

    1

    Sydney mi accoglie con la pioggia e la cosa fa alquanto incazzare. Ma, è il dieci gennaio e venti gradi in più di Milano risollevano decisamente il morale. Anche qui la pioggia bagna, rompe il cazzo ma sembra non innervosire nessuno, eccetto me naturalmente.

    Dopo trentuno ore di volo puzzo come un orso e puzzo d’Italia, ed è questo l’odore più nauseante. Puzzo di crisi, di vecchio, di bugie e delusioni e spero di levarmi di dosso questo odore il prima possibile. Voglio solo arrivare in hotel, farmi una doccia, una sega e bermi una birra. E non necessariamente in questo ordine.

    Trascino il mio imbarazzante trolley rosa formato famiglia fuori dall’aeroporto e con Davide divido un taxi fino in città. Davide è romano, l’ho conosciuto in aereo e dopo un intero giorno di volo insieme sembra di conoscerlo già da una vita. Davide lascia l’Italia perché non ha lavoro e soprattutto perché non sopportava più la sua fidanzata, o così dice lui.

    La suddetta, una sgamata ventenne rumena, aveva vissuto alle sue spalle per quasi due anni portandogli via un sacco di soldi. Troia e furba. Stufo di essere preso per il culo è scappato fin qua in cerca del riscatto personale.

    Però Alessà aveva due tette della madonna! mi dice.

    E io gli credo guardando eccitato le foto della suddetta, mezza nuda, sul suo telefono. A prima vista Davide sembra un coglione e il tempo, ne sono sicuro, me lo dimostrerà.

    Mi chiede perché son venuto fin qua e io resto vago. Liquido tutto con un volevo fare un’esperienza che dice tutto e niente. Il fatto è che, se racconto la mia di storia, per coglione ci passo io. E preferisco sia il tempo a dimostrarlo.

    Saliamo sul taxi e l’autista ci accoglie con un ehi backpacker! Welcome to Australia e nessuno dei due capisce cosa cazzo voglia dirci.

    Cerchiamo di esprimerci e comunicare con il nostro inglese di livello imbarazzante, ma nessuna delle nostre parole viene minimamente compresa, congiunzioni comprese. Fra i due sono quello messo meglio, nel senso che Davide non spiccica una parola d’inglese e io sono poco più avanti del The book is on the table.

    Con mappa alla mano e gesticolando come attori di teatro riusciamo in qualche modo a farci capire.

    We… go to… King Cross… Sydney.

    Ah ah ah, King Cross… ah ah ah… good choice mate! Let’s go, risponde l’autista ridendo e facendoci l’occhiolino.

    Spaesati manco fossimo su Marte, ci fidiamo del nostro sorridente amico e saliamo sul taxi verso la città. Il viaggio dura all’in circa una mezzoretta. Trenta minuti di imbarazzo totale poiché l’autista continua a ridere e a parlare una lingua a noi totalmente sconosciuta. Dovrebbe essere inglese, ma sicuramente non è l’inglese insegnato a scuola da noi.

    Capiamo solo King Cross (risata) red light zone (risata) party (risata). E niente più.

    Arriviamo a destinazione e finalmente ha smesso di piovere. Sganciamo i cinquanta dollari appena cambiati all’aeroporto e salutiamo il nostro autista che non smette di ridere e di chiamarci backpacker.

    Lascio il mio numero a Davide e lo saluto calorosamente, promettendo di tenerci in contatto e di aiutarci a vicenda nel cercare lavoro. Lui infatti se ne va verso il suo squallido ostello e io mi dirigo a piedi verso la mia suite matrimoniale al Grand Hotel.

    La faccia della ragazza alla reception, quando mi vede arrivare da solo e non Mr. e Mrs. De Bernardi in honey moon, non ha prezzo. Prima che faccia domande imbarazzanti, blocco la sua curiosità fulminandola con il mio sguardo stanco e allucinato dal viaggio. Un facchino colorato e sorridente mi aiuta con il trolley e mi accompagna nella mia suite al ventottesimo piano. Arrivati alla porta, un cartellino rosso a forma di cuore con la scritta Just married penzola dalla maniglia, suscitando nel ragazzo la medesima faccia perplessa della receptionist.

    Pago il suo silenzio con cinque dollari, gli prendo bruscamente il trolley dalle mani ed entro solo in camera. Ad attendermi sul letto, due cigni fatti con gli asciugamani e un cuore di petali rossi e cioccolatini. Uccido all’istante i due cigni, sparpaglio i petali, divoro i cioccolatini e poi mi attacco allo champagne francese gentilmente offerto dalla ditta.

    Mi sego sul lettone matrimoniale guardando un vecchio porno sul mio cellulare, mi pulisco con uno dei due cigni e poi mi scolo tutta la disgustosa bottiglia, osservando dall’alto Sydney e il suo meraviglioso skyline. Vorrei uscire e scoprire la città ma, ubriaco e sfatto, crollo nel mio lettone big size. Mi risveglio verso mezzanotte col cazzo duro e con due pacchi di Chesterfield nei pantaloni.

    In Australia non si può entrare con più di due pacchetti a testa, così un crucco conosciuto in aereo e terrorizzato dai controlli in aeroporto, me li aveva lasciati prima di scendere. Dopo i lunghissimi controlli iniziali non l’ho più rivisto e così me li ero tenuti. Airport security show aveva fatto il suo effetto e io avevo guadagnato due pacchetti di sigarette. Non fumo da almeno cinque anni, così decido di celebrare il mio arrivo uscendo sul balcone e accendendomi una paglia come un sigaro della vittoria. Mi sento stupido a cominciare a fumare in un paese dove le sigarette costano venti dollari a pacchetto e soprattutto, non c’è nulla da festeggiare. Ho solamente preso un aereo e sono scappato dalle menzogne degli ultimi mesi. È sabato sera e la zona intorno al mio albergo è piena di locali e di gente festante e ubriaca. King Cross era il vecchio quartiere a luci rosse della città e ora è il centro della movida notturna di Sydney. Per questo il taxista, questa mattina, continuava a ridere e a prenderci in giro. Non riuscendo a prender sonno decido di scendere in strada per fare un giro, mangiare qualcosa di caldo e bermi una birra.

    Le strade brulicano di ubriachi e zoccole, in un caos ordinato e controllato da polizia e buttafuori dei locali. Passeggio totalmente rincoglionito nel vialone centrale tra casinò, pub, night club e barboni così, per sentirmi meno lontano da casa, entro nel posto più italiano che conosco: McDonald’s. Gli odori e i colori sono gli stessi ovunque nel mondo e, appena entro, il mio senso di spaesamento si riduce notevolmente. Lungo la fila ripasso caparbiamente nella mia testa la frase per poter ordinare ma poi, causa prolungate incomprensioni tra me e la cassiera, mi riduco mestamente a puntare il dito sul menu alle sue spalle. E anche così facendo, sbaglio ordinazione. Dopo aver cenato da solo in un angolo del locale cerco di tornare verso l’albergo, scansando ubriachi molesti e non capendo assolutamente alcuna parola dei vari discorsi attorno a me.

    Finché, da un locale super affollato, fuoriesce qualche vocabolo conosciuto, sembrerebbe in italiano. Seguo quindi quelle consonanti famigliari pronunciate da un ragazzo di fronte al pub e, con lo sguardo, lo imploro di darmi un po’ di attenzione e rassicurazioni. Il ragazzo, ubriaco e su di giri, si avvicina comprendendo la mia spaesata situazione. È spagnolo, ma in quella disorientata condizione le sue origini mediterranee mi tranquillizzano come se fosse uno di quartiere. Gli racconto di essere appena arrivato, di essermi completamente perso e in pieno jet-lag. L’ispanico ride, mi tranquillizza, si presenta e poi mi invita a seguirlo nel vicoletto dietro al pub per fumare un Porro insieme a lui e ai suoi amici. Diniego ovviamente la sua offerta tossica ma poi, ritrovatomi nuovamente da solo, decido di seguire l’unica persona compresa da quando sono arrivato. Mi introduce ai suoi amici raccontagli il mio arrivo e, anche loro su di giri, mi accolgono con un comprensibile Welcome to Australia mate, e io mi sento un po’ meno solo. Provano a conversare un po’ con me, ma al mio terzo no speak english demordono lasciandomi in disparte. Quando poi rifiuto il joint appena edificato da José, lo spagnolo, quel poco di interesse suscitato in loro decade del tutto, e io mi sento un invitato indesiderato a una festa privata. José comprende la situazione e mi concede una seconda chance per entrare nel gruppo, rigirandomi il suo cannone e spronandomi a fumare. È un treno che non mi sento di perdere e uno spavaldo quanto insicuro okay esce dalla mia bocca. Acclamato dal pubblico, do un bel tiro secco al suo joint, sbuffando il fumo in faccia alla luna. Se da cinque anni non fumo sigarette, saranno almeno dieci da quando mi son fumato l’ultima canna e così tossisco per un paio di minuti consecutivi. Osannato dal gruppo come se avessi vinto alla lotteria, do un altro paio di tiri e poi ripasso il tutto agli altri.

    José mi racconta un po’ di lui, chiede di me e poi mi invita a seguirlo al pub. La nostra lingua è un mix di spagnolo, inglese e qualche bestemmia in italiano. E in questo stato, funziona alla grande. Lo spagnolo sembra a posto, la canna mi ha stordito completamente e, non capendo già più un cazzo, decido di seguirlo con la promessa che avremmo poi cercato insieme il mio hotel. È l’ultimo chiaro ricordo della serata. Poi… sprazzi di memoria.

    Io che fumo ancora… io che bevo… io che bevo… io che bevo… io che ballo… io che provo a parlare con una cicciona… io che bevo… io che fumo… io che provo a baciare la cicciona… io che bevo… io che abbraccio gente a caso… io che piscio… io che vomito… io che bevo ancora… io che fumo… io che canto… io che provo a baciare un’altra ragazza… io che bevo ancora… io che fumo ancora… e così via.

    Tutto scorre molto velocemente e l’inglese, da ciucco, diventa una lingua quasi comprensibile. Probabilmente droghe e alcool servono solo a questo, a comprendere meglio gli altri.

    Necessitando di aria fresa esco dal locale completamento ubriaco e solo. Dello spagnolo, nessuna traccia. Ricordavo fosse riuscito a rimorchiare la mia cicciona e io, per gelosia e ripicca, gli avevo fatto notare stazza e bruttezza della suddetta.

    José, strafatto quanto me ma infinitamente più saggio, mi aveva liquidato con un veloce ed efficace Ehi mate tienez que sporcarsi tus manos para ser felici… Poco prima di infilare lingua e dita ovunque tra le curve di quell’orrenda ragazza.

    Il suo motto non faceva una piega e avevo già trovato il mio guru in terra australiana. O forse, è stata tutta una mia allucinazione.

    Ritrovatomi da solo, cerco di raggiungere il mio hotel a piedi senza avere la più pallida idea di dove andare. Sicuro ormai delle mie capacità linguistiche perfezionate al pub, chiedo info a una puttana a fine turno che da alcuni minuti mi gironzola intorno. Lei risponde, io non capisco e, senza permesso, comincia a toccarmi il cazzo in maniera amorevole provocandomi una portentosa erezione.

    Io rispondo: No, thank you.

    Il mio corpo dice yes, please.

    E soprattutto, ho speso tutti i dollari scambiati questa mattina in birra e whisky per potermi permettermi altri vizi questa notte. L’anglo-zoccola così mi prende per mano e io, convinto mi stia gentilmente accompagnando verso l’hotel, la seguo fiduciosamente. La suddetta invece mi trascina con forza in un parchetto poco distante e, con violenza, mi scaraventa contro un albero. Mi tira giù velocemente i pantaloni corti, mi accarezza dolcemente, mi sussurra qualcosa in quella loro strana lingua chiamata inglese e poi, con notevole maestria, comincia dolcemente a succhiarmelo.

    In un continente nuovo da meno di ventiquattro ore e sono già a puttane, davvero non male come inizio.

    Per darmi una giustificazione, nella mia mente alcolica e arrapata, cerco di catalogarlo nel mio file inesistente Cazzate fatte al mio addio al celibato.

    Dopo qualche minuto di ottimo spennellamento la mia fidanzata si alza, si tira giù gonna e mutandine, si mette a novanta e mi implora: Please, fuck me now!

    La sua è una richiesta talmente gentile ed educata a cui io non riesco proprio dir di no. Inoltre, è la prima frase in inglese che comprendo totalmente e la reputo quindi un buon segno. Ubriaco a merda e con la vista appannata, mi sputo sulla mano mentre cerco a fatica di fare centro nel suo vano posteriore. Il mio cazzo scivola tra le sue cosce pelose ed entra a fatica nel suo oscuro orifizio asciutto. Comincio con il classico su e giù altalenante, cercando di rimanere concentrato sull’obiettivo finale. Mentre la scopo una sensazione strana, un dubbio, comincia però a picchiettarmi in quel poco di cervello rimasto attivo. Non è per il fatto che mi stia scopando una puttana in un parco di Sydney completamente strafatto e senza goldone, questo può anche capitare.

    È qualcosa di più. Percepisco qualcosa di anomalo… di… grosso. Cercando di metter a fuoco, osservo bene la sua schiena, le sue spalle, i suoi pochi capelli e i miei brividi, in breve, diventano realtà. Conoscendo già cosa troverò alla fine della mia perlustrazione, allungo la mano sul suo presunto apparato vaginale e mi ritrovo tra le dita, ahimè, un salsicciotto nero di pura virilità afromaschile in piena erezione. Pietrificato, mollo subito la presa e comincio a ridere, isterico. Ma, il dondolio, ha preso ormai il sopravvento nel mio cervello e mentre mi inculo questo essere mitologico, mezzo uomo e mezza donna, penso al mio guru spagnolo e alla sua frase del giorno.

    Bisogna sporcarsi le mani per poter esser felici… Me lo urlo in silenzio nella mente, premendo rabbiosamente sull’acceleratore del dondolio.

    Lei/lui urla.

    Io rido, e piango.

    Non provo sensazioni di disgusto, non mi sento strano e nemmeno felice. Sono solo dannatamente arrapato. Arrapato e perdente. Insperabilmente dopo pochi minuti riesco a completare l’opera, venendogli nel culo e chiedendomi dove andrà a finire il mio inutile sperma. Sperma e rabbia. Appena concludo, tutta la mia euforia scende in quattro secondi netti, realizzando quanto è brutto questo satiro australiano. Una mente da donna in un corpo da uomo, il peggio si possa mescolare insieme. E soprattutto, con la faccia da uomo ora che lo posso guardare meglio alla luce dei lampioni. Mi viene nuovamente da vomitare e lo faccio. Il mio primo giorno australiano finisce così sui tacchi a spillo del mio fidanzato notturno.

    Ancora prima di finire, un pugno in pieno volto mi sbatte a terra facendomi cadere sopra il mio stesso vomito. Provo a dire sorry ma quello che mi esce è altro vomito misto a sangue. Il mezzo uomo, incazzato ora come una donna, urla qualcosa a due centimetri dalla mia faccia stropicciata, mentre tenta di levarsi il vomito tra le dita dei suoi piedi.

    Capisco solo Fuck you qualcosa money qualcosa fucking backpacker. Ancora con ’sto cazzo di backpacker, che cazzo vuol dire? Desisto nel chiedere spiegazioni linguistiche e, per salvarmi la faccia, gli allungo gli ultimi dollari rimasti implorandolo di andarsene, in italiano ovviamente.

    Lei/lui se ne va, non prima di avermi rifilato un altro paio di calci in pieno stomaco.

    Probabilmente, tutte quelle monetine consegnateli, non erano più di cinque, dieci dollari messi insieme. Mi addormento lì, appoggiato su quell’albero dove ho appena perso la mia verginità gay-australe e a due passi dal mio vomito.

    Non sento più nessun rumore, solo odori. Vomito, sperma e profumo di donna su corpo di uomo.

    Mi addormento ridendo e piangendo. Se dovevo sporcarmi le mani per essere felice, questa notte ho fatto un vero bagno di merda.

    Vorrei tenermi paranoie e mal di testa per l’indomani, ma questi arrivano a bussare nel mio cervello ancora prima riesca a chiudere gli occhi.

    Accerchiato da un paio di sbirri, mi risveglio la mattina ancora appoggiato al mio albero. Mi aiutano ad alzarmi, chiedono i documenti, martellano domande incomprensibili per mezz’ora e poi mi lasciano andare con un secco go to sleep backpacker!

    E anche in questo caso, non mi sembra il momento migliore per chiedere delucidazioni semantiche. Mostrando le chiavi del mio hotel, mi indicano la retta via verso casa e così mi dirigo verso la meritata branda.

    Denghiu verri machs… È l’unica cosa che riesco a dire con la mia bocca impastata e il mio alito notturno.

    Arrivato in hotel, la receptionist e il facchino colorato che ieri mattina si aspettavano la coppia di felici sposini, mi vedono rientrare strafatto e sporco di vomito, sperma, birra e sangue. Ancora una volta, il mio sguardo allampanato blocca sul nascere eventuali domande indiscrete sulla mia situazione psicofisica. A fatica reggo i due minuti chiusi in ascensore, entro in camera, lancio i vestiti a terra e sprofondo nel letto. Prima di addormentarmi, decido di rovinarmi ulteriormente la giornata leggendo i messaggi e le chiamate perse dei miei che chiedono sempre le solite cose. E io, non ho più voglia né di rispondere né di mentire, e non lo farò più.

    Il mio primo giorno in Australia si è appena concluso e mi sento comunque bene.

    Bene, sporco e solo.

    2

    Definizione di backpacker: termine inglese che sta a indicare un modo di viaggiare indipendente e non organizzato. Deriva dall’inglese backpack e significa zaino . Potrebbe essere tradotto in italiano con il termine saccoapelista e si riferisce a turisti o viaggiatori che dormo nel proprio sacco a pelo , spesso all’aperto. Il backpacker in genere si sposta per periodi lunghi con un budget limitato. Gli scopi sono vari: l’esperienza stessa del viaggio; il raggiungimento della conoscenza del mondo per presa diretta; il conoscere persone del luogo; l’imparare le lingue in loco; il vivere secondo i propri ritmi. Il backpacker si serve di mezzi di trasporto locali, dorme in alloggi a basso costo, mangia in ristoranti economici e considera i propri soldi un bene che deve durare il più a lungo possibile.

    Definizione di transessuale: la transessualità o transessualismo è la condizione di una persona la cui identità sessuale fisica non è corrispondente alla condizione psicologica dell’ identità di genere maschile o femminile e che, sovente, persegue l’obiettivo di un cambiamento del proprio corpo attraverso interventi medico-chirurgici. La persona transessuale soffre del disturbo dell’identità di genere (DIG). Questo senso di distonia e disforia nei confronti del proprio sesso di nascita può svilupparsi già nei primi anni di vita, durante l’adolescenza o, più raramente, in età adulta.

    Dopo essermi acculturato su Wikipedia riprendo vita il pomeriggio tardi, lavo via gli odori della notte, butto via i vestiti e poi scendo in strada in cerca di cibo e acqua. Rifaccio nuovamente tutto il percorso fatto ieri notte, passo davanti al mio parchetto isolato, rivedo il pub dove ho conosciuto lo spagnolo e poi mi fiondo nuovamente da McDonald’s in cerca di cibo sano e sostanzioso. Questa volta, non provo nemmeno a ordinare a voce e il mio dito accusatorio punta le figure del menù dietro la cassiera.

    Dopo aver terminato il mio saporito pasto caldo, faccio due passi per il vialone centrale di King Cross e all’uscita del Bottle Shop rivedo José, lo spagnolo, insieme ai ragazzi conosciuti ieri notte. Appena mi vedono, vengo accolto con un inaspettato boato di giubilo.

    Mi salutano calorosamente, mi chiamano The Italian e anche loro, come me, hanno ancora addosso i segni della nottata appena passata. A differenza mia però stanno facendo di nuovo scorta di alcolici e si dirigono verso il loro ostello per far festa, invitandomi a seguirli. Essendo loro le uniche facce e lingue conosciute, decido di seguirli.

    Appena girato l’angolo, al n. 156 di Victoria Road si trova lo Zing backpacker hostel, a quanto pare un luogo sacro per i backpacker di passaggio a Sydney. L’ostello è attaccato ai principali locali della città ed è un mix tra un orfanotrofio, un centro sociale e un liceo di periferia. Entriamo e, appena ci vedono arrivare riforniti di alcool, riceviamo una standing ovation generale.

    Ad attenderci ci sono giovani zombie che si trascinano con i loro postumi domenicali, tossici in pigiama e qualche bella fighetta mezza nuda. Accompagno lo spagnolo in cucina e scopro di essere già una piccola celebrità in ostello. José in pratica aveva raccontato in giro la nostra notte passata al pub e per tutti ero già The crazy Italian. La mia mente, offuscata da mal di testa e sensi di colpa, impedisce di ricordare appieno cosa avessi combinato la sera prima. Ma, essendo Crazy una delle poche parole che comprendo, sorrido vanitosamente a chiunque mi chiami così.

    Fortunatamente José, non si era accorto della mia esperienza afrofrociosessuale, altrimenti chissà quali altri nomignoli avrei potuto ottenere. Era infatti uscito dal pub poco prima di me con la cicciona rimorchiata e la stava spensieratamente cavalcando in un parchetto poco distante. Forse nel mio parchetto, forse vicino al mio albero.

    José, ridendo, chiede come mai ho un occhio nero e vari lividi sparsi sul corpo. Con il mio italian-spanglish rispondo di non ricordare di preciso tutto quello che era successo. Gli racconto che ero appena uscito dal pub, di essermi infilato nel parco e lì, senza motivo, uno straniero grosso e ubriaco mi aveva tirato un pugno. Non era la pura verità, ma nemmeno del tutto falso. Lui continua a ridere, gli altri pure, io con loro e così facendo faccio amicizia un po’ con tutti. È quindi bastato semplicemente ubriacarsi a merda, fumare erba fino a vomitare, scopare senza protezioni un mezz’uomo di dubbi origini in un parco pubblico e farsi pestare a sangue per diventare una piccola celebrità locale.

    José mi racconta che stanotte ci sarà una festa imperdibile a Bondi beach, una spiaggia non lontano da King Cross. Io, da bravo ragazzo, rifiuto. Rispondo che la mia testa è un pallone che scoppia, ho dolori vari su tutto il corpo e che devo cercare lavoro e casa. José quindi, per farmi passare mal di testa, dolori e pensieri mi passa una altra canna. Io riparto con la stessa sceneggiata di ieri, rifiuto al primo giro e poi cambio idea al secondo tentativo appena mi sento messo in disparte. Fumo, sbuffo orgogliosamente verso il sole e mi sento inaspettatamente fra nuovi amici. Il mal di testa rimane, ma il mio umore migliora nettamente. José mi accenna inoltre che nella sua stanza a breve si libererà un posto poiché, a giorni, l’italiano che ci dorme se ne andrà. Così, mi butta giù l’idea di venire a stare in ostello con lui.

    L’idea non mi aggrada particolarmente, soprattutto dopo che José mi accompagna per un tour dei tre piani dell’ostello dove caos e odori sono davvero molesti. Il corridoio puzza, il bagno puzza, la stanza puzza e la moquette ovunque trasuda birra, vodka e sperma. Approfitto anche io dei bagni promiscui in corridoio e cago rabbiosamente in un cesso sporco di sugo femminile e vomito, cercando di non farci troppo caso. Gli sbalzi di temperatura, il fuso orario, la sbobba mangiata in aereo e la merda bevuta ieri mi faranno cagare a spruzzo per ore e sarà il mio personalissimo jet-lag intestinale.

    Entrando nella stanza di José scopro che l’italiano è Davide, il romano sfigato con il quale ero arrivato in aereo. Rivederlo, da fumato, è una piacevole sensazione e quindi lo abbraccio calorosamente, forse anche troppo.

    Davide però non è di buon umore e mi racconta di non avere ancora chiuso occhio da quando è arrivato. Sia per il jet-lag, sia perché i suoi compagni di stanza avevano fatto casino e baldoria tutto il giorno e tutta la notte. Me lo racconta con quella classica cantilena lamentosa all’italiana fine a se stesso e, nonostante sia l’unica persona che comprendo nella stanza, la sua presenza comincia a infastidirmi. Mi stacco quindi da lui, mi affido totalmente a José e ricomincio a bere.

    Davide, infastidito del mio legame con gli altri, mi squadra dalla testa ai piedi, mi chiede come mi sono procurato tutti quei lividi e poi comincia a farmi prediche del cazzo su lavoro, visto e altre cose del genere. Non volendo prestargli più attenzione continuo così a fumare e, per colpa sua, mi ritrovo di nuovo completamente rincoglionito in tempo zero. Davide, sentendosi in disparte, a fine pomeriggio abbandona la sua camera incazzato e solo, dicendomi che gli sembravo una persona seria su cui poter contare.

    Sono stufo di essere una persona seria. E soprattutto, sono stufo di parlare con Davide. Non perché sia antipatico, ma solo perché parla una lingua che non mi piace e che

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