Ingranaggi
Di Davide Stasi
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Anteprima del libro
Ingranaggi - Davide Stasi
sbagliata".
PRINCIP
ovvero come fu che la gelosia innescò la prima guerra mondiale
«Gavrilo… Insomma, non puoi essere così morboso!». La ragazza dai riccioli biondi tempestava con la furia di un ciclone. Afferrava ciò che le capitava sotto mano e gettava tutto con stizza attorno a sé. L’ira della giovane si abbatteva soprattutto su vestiti, libri, opuscoli sparsi un po’ ovunque nella stanza piccola, povera e mal arredata dove Gavrilo Princip aveva preso alloggio, un bilocale al secondo piano di una casa vecchia e mal ridotta alla periferia di Sarajevo.
Gavrilo studiava, almeno così diceva.
Da tempo in realtà non apriva più un libro. L’inquietudine giovanile, spesso incline a deviare verso orizzonti poco vicini alla virtù, lo aveva indotto col tempo a distogliere l’attenzione dai volumi di studio, molti dei quali in quel momento Aleksandra stava scaraventando dappertutto. Il suo interesse era stato attirato dal fascino della vita scioperata, vissuta giorno per giorno. Passava le giornate aggirandosi per le strade della città con l’atteggiamento del ribelle bohémien e con l’aspirazione a vivere tutte le emozioni più forti che una città ambigua e ribollente di ideali come Sarajevo poteva offrire.
«Aleksandra, mi stai distruggendo i libri…».
Sedeva sulla branda a gambe larghe, le spalle curve e le mani intrecciate. Le parlava con un tono di impaziente accondiscendenza, come se si rivolgesse a una bambina capricciosa. In fondo era pienamente consapevole della propria inconcludenza e le sfuriate della ragazza lo affliggevano proprio perché ogni volta l’obbligavano a riflettere sull’improduttività delle proprie scelte di vita.
«Cosa te ne frega dei libri?!», urlò lei in risposta. Gavrilo la fissò intensamente.
«Chi sei tu per farmi la predica? Sei mia madre, forse?». L’impazienza si stava mutando in irritazione e Aleksandra se ne accorse. Sapeva che non era prudente fare innervosire un impulsivo come Gavrilo, ma non si lasciò intimidire. Non le avrebbe mai fatto del male, ne era certa, ma in certi momenti di nervosismo assumeva posture e atteggiamenti da pazzo che la impaurivano. Era arrivata a pensare, talvolta, che lui non l’amasse davvero, sebbene lo ripetesse ossessivamente dopo i momenti di intimità.
«Magari lo fossi!», rispose cercando di contenere i toni. «Se fossi tua madre ti darei la lezione che meriti… smetterei di finanziare a vuoto un irresponsabile come te».
Gavrilo balzò in piedi di scatto e lei arretrò intimorita, ma solo di un po’. La sua era una sacrosanta verità e non gli avrebbe dato la soddisfazione di poterla smentire con una semplice minaccia.
Lo fissò impavida negli occhi e spinse in avanti le spalle, aprendo una sfida che durò solo qualche istante. Gavrilo cedette e si lasciò cadere stancamente seduto sul letto.
«Sei solo una stupida donna», disse con noncuranza. E tu solo un cane che ringhia forte ma non è capace a mordere
, avrebbe voluto rispondere Aleksandra, ma accusarlo di essere una montatura l’avrebbe fatto infuriare davvero, dunque si morse la lingua.
Amava fare il duro, Gavrilo. Recitava da ardito privo di scrupoli, incapace di retrocedere davanti ad alcunché, sebbene al fondo la sua natura fosse in realtà fragile e riflessiva. Per affermare l’immagine forte di sé spesso si invischiava, come provocatore o come semplice partecipante, in risse furibonde nei caffè, nei circoli politici, perfino all’università, e raramente ne usciva indenne. Nell’ansia di dimostrare quanto fosse cattivo, senza però averne davvero i requisiti, il più delle volte finiva per essere quello che, ricomposte le zuffe, risultava il più pesto di tutti.
Aleksandra guardò il suo compagno con compassione. Proprio quel sentimento da cui era scaturito il suo amore per lui. Al tempo della prima infatuazione però non la chiamava compassione
ma tenerezza
.
Una tenerezza che col tempo si era gradualmente assottigliata: più la loro storia procedeva, più il sentimento residuo perdeva spessore e radici, livellato com’era dall’impazienza e dalla delusione.
Si erano conosciuti due anni prima, in una sala da ballo. Gavrilo era arrivato da poco a Sarajevo e si era appena iscritto all’università. Vestiva elegantemente, l’aspetto curato, con un taglio di capelli alla moda e un bel paio di baffi neri. Se la passava bene: i suoi genitori, contadini serbi, gli spedivano ogni settimana gran parte del frutto dei loro sacrifici per consentirgli di acquistare i libri di studio, pagare l’affitto della casa, il cibo e i vestiti.
Aleksandra era molto bella. Figlia di uno dei più ricchi commercianti della città, era corteggiata da uomini di buon lignaggio, tutti ottimi partiti, ma tutti troppo affettati e noiosi per attirare la sua attenzione. Finite le scuole superiori si era messa a disposizione del padre, per impararne la professione che poi, essendo figlia unica, dopo sposata avrebbe ereditato.
La sera del loro incontro la sala da ballo era gremita di persone e un’orchestrina suonava scoppiettanti valzer, polke e mazurke. Aleksandra volteggiava sulla pista e i giovani si avvicendavano senza sosta al suo cospetto per chiedere l’onore di un ballo. Adorava la musica e sapeva ballare divinamente, dunque accettava ogni invito e saggiava l’abilità di danzatore di ognuno, prendendo subito il sopravvento e guidando lei l’ordine dei volteggi.
Gavrilo era rimasto per gran parte della sera in piedi a braccia incrociate ai margini della pista, osservando le coppie piroettargli davanti e cercando qualche viso noto o qualcuno con cui gli paresse agevole fare amicizia. A quel tempo a Sarajevo non conosceva nessuno e le prime settimane di solitudine in una città sconosciuta, lontana dalle campagne dove era cresciuto, lo avevano talmente afflitto che aveva iniziato a riflettere sulla possibilità di lasciare gli studi per continuare quella vita di agricoltore da cui i genitori, specie il padre, con grandi sacrifici cercavano di allontanarlo.
Poche erano state le facce che gli avevano ispirato una qualche apertura cordiale. Quando aveva deciso di tornarsene a casa aveva notato Aleksandra, che ballava su un valzer veloce, ridendo di felicità, insieme a un elegantone dinoccolato che faticava l’inferno a starle dietro.
Gavrilo aveva aspettato la fine del brano, combattuto se provare ad avvicinare quella ragazza bellissima, i cui lineamenti rilassati e benevoli gli ispiravano un sentimento di quiete e luminosità, o se desistere e andarsene. La fila di giovani in attesa di ballare con lei era lunga: intrufolarsi e passare davanti a qualcuno poteva far scoppiare una rissa, cosa che ai tempi ancora non gli pareva consigliabile. Era quindi rimasto impalato continuando a pensare: ancora il prossimo, poi mi butto…
. Solo quando la fila di cavalieri si era esaurita si decise a farsi avanti. Lei era visibilmente affaticata, il sudore le imperlava la fronte e rendeva lucida l’attaccatura dei riccioli biondi. Stava avviandosi verso una delle sedie e Gavrilo le si era parato davanti, con aspetto sicuro.
«Signorina, sono nuovo di questi posti… il mio nome è Gavrilo Princip, mi concederebbe un ballo?». Aleksandra l’aveva guardato con curiosità, si era presentata a sua volta e, pur lasciando trapelare una certa stanchezza, aveva accettato l’invito. Lui non aveva mai ballato in vita sua. Si era quindi lasciato trasportare e le aveva schiacciato i piedi più di una volta. Aleksandra aveva continuato a guidarlo, rigido come un manichino, senza lamentarsi.
Finito il brano, conscio della propria imperizia e desideroso di recuperare un po’ di dignità, aveva detto: «signorina Aleksandra, come fa ad apprezzare queste porcate asburgiche?». Non era una frase sua, ma di suo padre. Tutto ciò che in un modo o nell’altro poteva riferirsi all’impero austriaco suo padre lo definiva quella porcata asburgica
. Un’espressione fiera, che aveva sempre dipinto il genitore ai suoi occhi come un patriota valoroso. Ripetendola esattamente aveva sperato di suscitare la stessa reazione in Aleksandra.
«Che linguaggio, signor Gavrilo!». Pur rabbuiandosi, aveva intuito la provenienza del giovane e compreso quanto dovesse sentirsi disorientato in una città moderna come Sarajevo. Si era allora ammorbidita: «sarà anche di un musicista austriaco, ma è armoniosa, questa musica… non trova?».
Fianco a fianco si erano diretti verso due sedie libere. «Scusi, sa, signorina Aleksandra… è da poco che sono qui. Vengo dalle campagne…». Avuta conferma