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La parabola del criceto
La parabola del criceto
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E-book257 pagine3 ore

La parabola del criceto

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Info su questo ebook

Stanco di collezionare solo storie senza futuro, Alfredo vorrebbe una vita

affettiva stabile. L'occasione gli si presenta con Viola, donna algida e

perversa, che lo trascina in un progetto di vita in cui include anche le

sue figlie. La realizzazione del loro sogno segnerà però l'apice della

parabola: da quel momento Viola metterà inspiegabilmente in atto una fredda

e spietata strategia distruttiva, tracciando un percorso torturante verso

cui farà confluire Alfredo e tutti coloro che la amano. Un romanzo crudo e

claustrofobico in cui si fondono e si sublimano storie reali raccolte

dall'autore, a testimonianza dell'effetto devastante che il moderno

edonismo femminile ha sulle relazioni.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ott 2019
ISBN9788831639194
La parabola del criceto

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    Anteprima del libro

    La parabola del criceto - Davide Stasi

    Russell

    PRELUDIO

    Un muro bianco, ampio, spoglio, chiazzato qua e là da macchie giallognole, si elevava da un vecchio pavimento in graniglia, a tratti aperto in lunghe venature ormai suturate dalla polvere. I mobili della cucina, arrangiati alla meglio dopo un rapido trasloco, avevano l’aspetto dimesso del design pretenzioso smobilitato e rimontato fuori misura,  con i suoi colori abbinati panna e mogano ormai fuori moda. La tavola era coperta da una tovaglia di plastica bianca a fiori, slabbrata in più punti e chiazzata. Cinque sedie erano posizionate attorno, tutte con cuscini troppo larghi rispetto alla seduta, legati con il velcro alle barre dello schienale. E poi il silenzio. Un silenzio di quelli così totali e profondi che a concentrarsi pare di sentire nelle orecchie il lontano ronzio della propria corrente interiore.

    Un uomo magro dal viso scavato sedeva guardandosi attorno solo muovendo gli occhi. Aveva capelli cortissimi quasi completamente bianchi e gli angoli delle labbra carnose angolati verso il basso, quasi a proseguire le rughe che dalle narici gli solcavano la pelle del viso, tesa sul teschio come una copertura d’alluminio. Stava concentrato su quel suo flusso interiore sibilante e irregolare, testimone risonante di un’essenza trascinata tra apici, vortici e abissi con una tale virulenza da obbligarlo alla fissità e alla contemplazione passiva di ciò che lo circondava.

    Gli aromi del cibo cucinato, il suono delle voci, la percezione delle presenze, erano ormai spettri che con quella fissità cercava di riportare alla carne e alla verità del reale. Un miracolo impossibile, che rifiutava di accettare come tale.

    L’unico odore che impregnava l’ambiente era quello del fumo della sua sigaretta e i suoi soli alleati nel tentativo irrazionale di mediare tra il presente e il passato erano la bottiglia di liquore alla mandorla e il bicchierino pieno, uniche presenze costanti, insieme al portacenere, su quella tavola.

    Alle sue spalle, fuori dalla porta-finestra che portava al balcone, una nuova estate veleggiava selvaggiamente sulle ali di gabbiani, rondini e pappagalli, sulle loro incessanti voci che ne accompagnavano le evoluzioni e gli inseguimenti, in un bagno di luce che sfolgorava sui palazzi e sulle vie attorno. Là fuori, con quel sole, era tutto chiaro, limpido e caldo. Un conforto per gli spiriti rinati in primavera e pronti a esplodere in una gaiezza fruttifera che è spettacolo e bellezza in sé. Qualcosa che avrebbe avuto molto senso contemplare e vivere insieme a tutta l’umanità che, oltre il balcone, brulicava, operava, viveva.

    Ma l’immobile attenzione di Alfredo viaggiava altrove. Trascorreva gelidamente sui suoi lineamenti smagriti e rigidi, che rendevano la sua espressione così simile al muro macchiato, lì al suo fianco, e si slanciava verso ciò che lo circondava chiedendo, supplicando che tutto tornasse a prendere vita. La lavagna vicino al frigo era muta nel suo biancore sbavato di pennarello nero e lui avrebbe voluto che tornasse a parlare. Il calendario con le foto di cani e gatti era fermo al mese precedente e avrebbe voluto portarlo indietro, molto più indietro. E poi c’era il varco dall’altra parte della stanza. Faceva ogni sforzo per evitare di porvi lo sguardo, ma quel vuoto oscuro oltre la porta lo calamitava con una forza irresistibile.

    Oltre il rettangolo della soglia, attraverso cui si accedeva all’interminabile corridoio, a quello sconfinato mondo di centocinquanta metri quadrati in cui viveva, c’era buio, solo buio. Profondo, nero, eloquente. Una tenebra che lo chiamava a voce alta e perentoria affinché, ancora una volta, vi si avventurasse con la mente e la memoria più che col corpo. Al di là del varco, lungo quel corridoio e nelle stanze che vi si aprivano, c’era ancora qualcosa di perfettamente noto e nonostante questo profondamente angosciante. Una via crucis di purificazione attraverso il fuoco dei ricordi, la facoltà più peculiare e sublime degli esseri evoluti, nonché la loro più atroce condanna.

    Avrebbe voluto restare lì, Alfredo, ancorato alla sua sedia, al suo bicchierino sempre pieno, alla sua ennesima sigaretta, ma sapeva che era tutto inutile. Né i farmaci né l’abuso di alcol bastavano a rallentare o frenare quell’altro da sé che ancora una volta lo abbandonava alla sua paralisi per azzardare un passo sofferente e autolesionista oltre quella soglia, dentro il buio. Là dove tutto era incominciato e terminato.

    Capitolo 1

    Ogni attività sportiva comporta qualche rischio. Nella pallavolo, tolte le pallonate in faccia che sono la norma, i pericoli più grandi sono le distorsioni alle dita delle mani e ai polsi, ma soprattutto i possibili danni alle caviglie. Accade di frequente che il tizio di fronte, al di là della rete, rientrando da un salto ficchi il suo piede dall’altra parte. Atterrarci sopra significa avere la certezza che la caviglia si piegherà inaspettatamente e in modo innaturale. Se si è fortunati se ne esce con una contrattura o una slogatura. Se si è sfortunati qualcosa si rompe.

    Alfredo era stato sfortunato. Anni prima il suo muro era andato a segno, ma era atterrato col sinistro sul numero quarantacinque dell’avversario. Il piede era ruotato malamente esponendo l’osso articolare alla tibia, che su di esso aveva scaricato tutto il peso, colpendolo come un maglio e spezzandolo diagonalmente a metà. Si era ritrovato per terra con la suola della scarpa che lo guardava e i suoi compagni di squadra inorriditi, in attesa del suo urlo di dolore. Il destino però non gli era stato avverso fino in fondo: forse la posizione, forse l’adrenalina, a parte il tendine esterno teso al massimo, non aveva patito alcuna sofferenza, nemmeno quando al pronto soccorso due medici avevano tentato di ricomporgli di forza l’arto bloccato. Ci pensò poi il chirurgo a rimetterlo più o meno in sesto.

    «Ti ho inserito due chiodi riassorbibili», gli aveva detto dopo l’intervento. «Te lo dico subito, è un tentativo. Di norma in questi casi bisogna amputare». Aveva fatto una pausa vedendo Alfredo deglutire angosciato. «Vediamo se quello che ho fatto funziona. Però non c’è praticamente più cartilagine, è esploso tutto là sotto. Se ti rimetti in piedi è probabile che avrai sempre un bel po’ di dolori e limitazioni. E sicuro verso i cinquant’anni ti servirà il bastone».

    Allora Alfredo di anni ne aveva trentasei. Ce ne mise quasi due per recuperare un’andatura decente e riadattarsi a una vita da quasi menomato. Niente più corse dietro gli autobus, né passeggiate troppo lunghe in montagna, dolori assortiti a seconda delle posizioni del piede, più una capacità straordinaria di prevedere l’arrivo della pioggia. Addio anche al grande amore della sua vita, la pallavolo. La rinuncia gli provocò grande sofferenza. Erano anni che giocava, per un certo periodo, da giovane, era stato pure una promessa, e la squadretta di trentenni era ormai parte integrante della sua vita. I compagni, quando si riprese dall’incidente, lo invitarono a essere comunque presente alle partite, lo fecero arbitrare e riuscirono pure a strappargli un sorriso soprannominandolo Dottor House. Alla fine però decise di allontanarsi, pieno di amarezza, dal mondo a cui aveva così appassionatamente appartenuto. Continuare ad esserci non leniva né il dolore fisico né quello interiore per la rinuncia, anzi il più delle volte lo acuiva.

    Quella cesura netta nella sua biografia fu tuttavia provvidenziale sotto certi aspetti. Gli diede l’occasione di ripensare se stesso, nel momento in cui approcciava a grandi passi, seppur zoppi, la metà della propria vita. Nelle giornate particolarmente umide la caviglia gli doleva fino a pulsargli, e allora malediva la scelta della pallavolo come sport d’elezione.

    Se avessi giocato a calcio come tutti gli altri..., pensava con rabbia, per poi rendersi conto che no, non sarebbe potuto accadere. Semplicemente perché lui non era mai stato come tutti gli altri. Fin da adolescente aveva dovuto fare i conti con un irrefrenabile istinto a risalire la corrente, non importava quanto forti e impetuosi fossero i flutti che lo spingevano indietro. Per qualche motivo, ben più profondo del semplice desiderio di volersi distinguere o farsi notare, nel momento in cui individuava una tendenza generale, un flusso a cui tutti o una maggioranza tendeva ad adeguarsi, d’istinto vi opponeva resistenza. Elaborava immediatamente ragioni critiche, andava alla ricerca di incoerenze e difetti, e il più delle volte trovava molto più convincente posizionarsi ostinatamente contro. Un modo innato per cercare di rendere il mondo intelligibile a se stesso, pur se il prezzo da pagare erano spesso battaglie sfiancanti e solitarie.

    Dovette combattere fino a sbeffeggiare in modo sfrontato una squadra di psicologi chiamati a valutarlo e consigliarlo per la scelta della scuola superiore. Lui aveva deciso per il liceo e più lo si cercava di sospingere verso una scuola professionale, più si impuntava. Alla fine la vinse e dopo grandi fatiche e qualche caduta si diplomò con la media dell’otto, che gli permise di introdursi con tutte le credenziali in ordine nel mondo universitario. Non proprio tutte, in realtà: vigeva allora l’obbligo di leva, un’imposizione che riteneva iniqua, un rallentamento del suo percorso che non accettava, sebbene tutti si adeguassero e lo spingessero ad adeguarsi. Scrisse lettere accorate a tutte le istituzioni possibili e immaginabili, confuse a tal punto la burocrazia che alla fine lo riformarono, probabilmente per sfinimento.

    Il suo anticonformismo lo obbligò però ad affrontare anche momenti complicati, che si ripeterono per anni, ogni volta che la frangia più ribelle dei suoi compagni di scuola deliberava per l’occupazione. Avveniva solitamente un po’ prima di qualche periodo di vacanza, per protestare contro questioni fondamentali come il colore delle mattonelle dell’ingresso o la proibizione agli allievi di usare l’ascensore. Ogni volta lui forzava i blocchi ed entrava. Insieme a pochi ardimentosi, sedeva in aula a seguire quelle che finivano per essere normali chiacchierate a tu per tu, più che lezioni. Il problema si ripresentava all’uscita, dove una massa di coetanei giocava al ’68, con una fastidiosa tendenza a trasformarlo nel ’77, prendendolo regolarmente di mira, chiamandolo crumiro e talvolta venendo alle mani.

    In ogni caso quella era la sua pelle. Mano a mano che maturava se ne rese conto e venne a patti con il dato di fatto, e con lui tutti coloro che lo circondavano. Non servì a nulla dunque dileggiarlo per le sue scelte sportive, fargli notare che la pallavolo è sport da femmine, noioso, poco dinamico, che sarebbe stato meglio darsi al calcio, sport virile quanto un intrattenimento gladiatorio. «Scimmioni sgraziati che passeggiano su un prato sperando che vinca il peggiore» diceva, lui che sul campo di volley levitava come un falco oltre la rete scaricando dall’altra parte cannonate imprendibili.

    Eccentrico, Alfredo, da sempre, per natura. E nel fiore della sua ultima giovinezza infine spezzato, come il suo osso articolare, quale estrema assunzione di responsabilità per le sue scelte fuori dal comune. Che finì per maledire masticando amaro quando dovette riprogrammare la gestione della sua vita, dopo l’incidente.

    Trascorso il tempo del recupero della mobilità, riuscì gradualmente a smettere di sentirsi offeso contro se stesso e trovò un compromesso che gli parve ottimale. Tutti gli ex giocatori troppo vecchi per continuare o fermati da un infortunio finiscono lì: in panchina, ad allenare. Fece allora il giro di alcune società sportive, proponendosi con timidezza. Un conto è combattere in campo, altro conto è insegnare. Per di più a delle femmine, perché il settore maschile, oltre a essere minimale ovunque, era già saturo di coach in gamba e più esperti. Alla fine venne arruolato, ma con l’obbligo della gavetta. Sarebbe dovuto partire dal basso, farsi le ossa, e se tutto fosse andato liscio avrebbe fatto il corso per allenatori, per poi salire di grado.

    Entrò in ruolo in settembre, poco prima dell’inizio delle scuole. Il suo settore di competenza sarebbe stato il minivolley. Bimbe dagli otto agli undici anni. Già così era una grande sfida. Quando se le vide davanti, attente a esaminarlo da capo a piedi con l’occhietto critico da donne in potenza, capì che sarebbe stata non una sfida, ma una vera e propria impresa. Erano trenta e avrebbe dovuto gestirle da solo. Meglio che la rinuncia, in ogni caso. Avrebbe continuato a vedere la rete, le linee del campo, gli spalti, le palle che volteggiano in alto ed era già tanto. Un accomodamento che, sul momento, gli apparì più che accettabile.

    Come per altre sue scelte coraggiose e controcorrente prese in precedenza, solo dopo avrebbe capito di aver imboccato di nuovo una strada tortuosa, al termine della quale sarebbe stato chiamato a responsabilità capaci di spaccare a metà non un semplice osso, ma tutta intera un’esistenza.

    Capitolo 2

    La frattura alla caviglia non cambiò la sua vita soltanto dal punto di vista sportivo o della deambulazione, ma anche da quello sentimentale. Quando accadde, Camilla, la ragazza con cui stava ormai da diversi anni, gli restò al fianco pigramente e controvoglia. Pareva spazientita, insofferente.

    «È molto che stiamo insieme ormai», gli disse un giorno. «E non siamo più ventenni…».

    Veniva da una famiglia meridionale tradizionale, di quelle per cui il fidanzamento è accettabile, ma non deve protrarsi troppo. In un senso o nell’altro, si deve arrivare a un punto. Così si aprì tra loro il confronto sul percorso da prendere: prima matrimonio e poi figli o viceversa? Per Camilla non faceva differenza. Le sue innumerevoli cugine, il confronto con le quali pareva qualcosa di imprescindibile, avevano tutte preso l’una o l’altra strada. Bastava fare qualcosa.

    «Certo che con la caviglia in quello stato come farai con un bambino? Se devi corrergli dietro o ci devi giocare a palla…». Verità che urtarono Alfredo. Inoltre, sebbene in cuor suo l’idea di un figlio non gli dispiacesse, l’atteggiamento di Camilla non lo convinceva. Una coppia decide di procreare come coronamento di un sentimento così totale ed esplosivo da non poter più essere contenuto in due sole persone, non per altro. Non era convinto che tale fosse la natura della pulsione di lei.

    «Ma tu vuoi un figlio o vuoi un figlio da me?», le chiese un giorno, mentre faceva i suoi esercizi fisioterapici. Camilla abbassò lo sguardo e non rispose. Né quella volta, né quando Alfredo tornò a chiederglielo successivamente. Iniziarono così ad accumularsi pensieri mai tradotti in parole. Una sorta di balletto delle indecisioni sul da farsi. Alfredo non sapeva intuire cosa passasse per la testa della fidanzata, ne registrava solo l’altalenarsi sempre più ampio di malumori ed euforie, queste ultime trascorse a bombardarlo di richieste per provare a fare un figlio. Si trovò in mezzo a un guado: crederle, darle fiducia, regalarle ciò che tanto desiderava, anche se pareva più un fatto di noia che non d’amore, o allontanarsi e magari rompere?

    Quando Alfredo ebbe recuperato la mobilità in maniera accettabile, Camilla tornò a mostrarsi piena di attenzioni e di sensualità, come nei primi tempi. Un mutamento inaspettato, da cui Alfredo si lasciò coinvolgere. Fecero tantissimo l’amore, per un tacito accordo omettendo ogni profilassi, ma ogni mese, puntuale, arrivavano il ciclo e le lacrime.

    «Inutile, non è destino», mormorava lei, vagamente colpevolizzante, mostrandogli il pacchettino viola dentro cui avvolgeva l’assorbente insanguinato destinato alla pattumiera. E glielo disse per sei mesi consecutivi, durante i quali degradò di nuovo in un’abulia frustrata e scivolosa. Lì la loro storia si avviò al precipizio, fino a terminare, giusto alla fine di un inverno.

    Alfredo ne uscì intristito, ma non troppo. La solitudine non gli faceva paura. E poi Camilla aveva gestito gli ultimi anni della loro relazione, ancor più dopo l’incidente alla caviglia, in modo troppo smaccatamente strumentale a scopi mai abbastanza chiaramente prossimi al desiderio del coronamento di una relazione d’amore. Alfredo si convinse di aver scampato una vita molto diversa da quella che si era sempre figurato. La prospettiva era stata quella di essere un mero produttore di seme per una donna che desiderava la maternità in sé e per sé e non per la creazione di un nucleo unico composto da tre elementi cementati dal sentimento. L’idea di un figlio continuava ad attirarlo, ma il contesto entro cui tutto sarebbe dovuto avvenire lo immaginava ben diverso dall’offerta che gli era stata fatta da Camilla.

    Non diversamente da ciò che fanno tutti coloro che escono da lunghe storie, Alfredo dedicò allora tempo a se stesso. Sfruttò il suo recuperato status di celibe collezionando piccoli flirt passeggeri, consumati in uno, due, massimo tre incontri. L’utilizzo di internet lo facilitò in questa pesca a strascico tanto generosa quanto malinconica. A trentanove anni sentiva di essere un po’ fuori tempo per fare il casanova, per spingere oltre i limiti la sperimentazione sempre un po’ fine a se stessa delle sue fantasie. Ma ciò che trovava nelle reti alla fine non gli dava molte alternative. Quel nuovo modello di vita, però, contribuì a chiarirgli una parte del suo passato.

    «Ho un ritardo di dieci giorni…», gli scrisse un giorno una delle sue amiche. Non era una prospettiva promettente. Tutto poteva desiderare tranne che un figlio da un amorazzo passeggero. Soprattutto con una ragazza come quella, nota per avere numerosi diversivi oltre a lui.

    «Come fai a dire che è mio? Sono sempre stato attento».

    «Non lo so infatti», gli rispose. «Sicuramente sei uno dei candidati».

    Camilla, al tempo dei tentativi falliti mese dopo mese, gli aveva chiesto insistentemente di fare un test della fertilità e lui, virilmente offeso, aveva sempre rifiutato. In quel momento capì che l’unico modo per uscire dal novero dei possibili padri di un figlio non voluto da una donna improponibile era proprio andare a fondo su quell’aspetto.

    La coincidenza fu quasi buffa.

    «Mi sono venute…», gli scrisse la ragazza in un messaggio, proprio mentre leggeva il referto relativo alla capacità di spermatogenesi del suo apparato riproduttivo.

    ASSENTE.

    Così diceva la relazione clinica, scrivendolo tutto in lettere maiuscole. Fece altri esami, consultò diversi medici e alla fine comprese il motivo dei vari fallimenti con Camilla. Era sterile. In modo irrecuperabile. Per motivi congeniti i pochi spermatozoi che il suo corpo riusciva a produrre arrivavano all’uscita già inattivi. Gli vennero proposti farmaci specifici, visto che la chirurgia non avrebbe potuto correggere nulla, ma rifiutò. Evidentemente quello era il suo destino e non era il caso di farcirsi di prodotti chimici per cambiarlo, ancor più non avendo accanto una compagna con cui condividere un progetto di vita.

    Accolse dunque la notizia della propria sterilità con apparente leggerezza. «Non esiste più nursery», diceva agli amici, «ma resta il parco giochi». Che a quel punto, essendo del tutto inoffensivo, aprì all’accesso di quante più donne avessero desiderio di divertirsi con lui. E ne trovò tante, tutte invariabilmente disponibili non a vivere il piacere insieme a lui, bensì per mezzo di lui, per poi rivestirsi e, nella maggior parte dei casi, tornare come se nulla fosse dal fidanzato o dal marito. Alfredo divenne così uno strumento di piacere intellettuale, sentimentale e sessuale a disposizione di un numero imprecisato di donne moderne, mamme perfette e donne irreprensibili tra la gente e sui social network, ma viziose, irrisolte, tormentate e sleali nel privato della sua alcova.

    Fossero pure ciò che ritenevano di dover essere, pensava. Il punto era che alla fine, dopo tanta intimità, a rimanere solo era lui, con in bocca quel cattivo sapore di fidanzato a chiamata. Lui che, alle porte dei quarant’anni, portava ancora nel cuore un acceso micro-universo: un desiderio di paternità e famiglia. E, insieme ad esso, un’unica passione vera

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