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La felicità altrove
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E-book429 pagine6 ore

La felicità altrove

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Info su questo ebook

Animo complesso, gravato da timori talmente radicati da essere difficilmente cancellati, Rocco sin da piccolo sogna prevalentemente ciò che non può avere: nella nativa Farri, bambino, sogna di raggiungere il padre e il fratello a Milano; una volta qui, appena adolescente, desidera vivere il miracolo americano. A New York, infine, vive un'altalena di sentimenti che alternativamente lo spingono da una parte all'altra, senza riuscire a trovare in nessun luogo quella felicità che invece ha sempre avuto come scopo. Eccolo, allora, l'altrove di Arcuri: un luogo che in effetti, forse, non esiste; un non-luogo che, prima ancora di essere fisico, è morale, intimo. A dimostrazione che, se non si è felici dentro di sé, non lo si potrà essere in alcun posto. Che se il nostro percorso non è chiaro a noi, non potrà esserlo nemmeno la strada da fare.
LinguaItaliano
Data di uscita30 lug 2019
ISBN9788831632966
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    Anteprima del libro

    La felicità altrove - Rocco Arcuri

    633/1941.

    INTRODUZIONE

    La storia di Rocco, che ancora bambino abbandona la sua terra con la famiglia per trovare fortuna altrove, è la storia di molti nostri connazionali, alla ricerca, nel secondo dopoguerra, di un benessere a lungo sognato e ancora lontano. La magia di queste vicende sta proprio nel loro essere simili ma, allo stesso tempo, completamente diverse le une dalle altre. Alla loro base, infatti, non c’è l’invenzione narrativa, non c’è la fantasia dell’autore, ma la realtà più semplice: ciascuna storia è diversa perché diversi sono i protagonisti, diverse le circostanze, diverse, ancora una volta, le famiglie, le condizioni. Diversi, infine, sono i sentimenti, le emozioni che li hanno mossi e che nel corso del tempo ne hanno determinato le decisioni.

    È con questa doverosa premessa che vogliamo affacciarci alla lettura di La felicità altrove, romanzo autobiografico di Rocco Arcuri e sua prima incursione nel mondo editoriale. Un altrove, il suo, che di volta in volta assume aspetti diversi; aspetti che mutano, in un vortice di dubbi che sembrano certezze, al mutare degli eventi o, più semplicemente, al cospetto di una difficoltà o di un successo, entrambi imprevisti. Leggendo la storia di Rocco e della sua famiglia non si può non riflettere su quanto i dubbi, le indecisioni, i timori possano influire, per lo più negativamente, su una singola vita, che da privata, nello stesso momento in cui viene raccontata, diventa pubblica e assume valenza universale.

    Animo complesso, gravato da timori talmente radicati da essere difficilmente cancellati, Rocco sin da piccolo sogna prevalentemente ciò che non può avere: nella nativa Farri, bambino, sogna di raggiungere il padre e il fratello a Milano; una volta qui, appena adolescente, desidera vivere il miracolo americano. A New York, infine, vive un’altalena di sentimenti che alternativamente lo spingono da una parte all’altra, senza riuscire a trovare in nessun luogo quella felicità che invece ha sempre avuto come scopo. Eccolo, allora, l’altrove di Arcuri: un luogo che in effetti, forse, non esiste; un non-luogo che, prima ancora di essere fisico, è morale, intimo. A dimostrazione che, se non si è felici dentro di sé, non lo si potrà essere in alcun posto. Che se il nostro percorso non è chiaro a noi, non potrà esserlo nemmeno la strada da fare.

    E allora la Calabria appare a volte un assolato paesaggio edenico, grembo materno nel quale rifugiarsi, e altre invece un luogo arretrato dominato da un’ignoranza che, sebbene incolpevole, ne mina al profondo le convenzioni; Milano passa repentinamente da rappresentazione fisica del boom economico, del riscatto sociale di intere generazioni, a girone dantesco dominato da scherno, sfruttamento, discriminazione; e nemmeno il sogno americano riesce a convincere il giovane Rocco, perché anche lì, nella New York troppo italiana di Little Italy, non riesce a sentirsi in pace con sé stesso, non riesce proprio a trovarla, una sua pace. Rocco è alla continua ricerca di una dimensione che sia veramente sua, che lo rappresenti, lo faccia essere finalmente fiero di sé, personalmente e professionalmente, e per un paradosso solo apparente è proprio nei confronti di ciò cui tiene di più che manifesta le incertezze più forti: l’amore e lo studio sono gli aspetti che più lo struggono, lo scuotono, in un tormento che si ripresenta, sempre più intenso, ogni qualvolta invece avverte di essere arrivato al suo finalmente. Il ricordo indelebile dei primi insuccessi scolastici è lì, dietro l’angolo, pronto a farsi avanti a ogni promozione; il pensiero di Mirella, di una vita felice insieme alla donna che ama, è interrotto dalla paura della stessa felicità.

    Rieccoci, di nuovo, alla felicità: in un percorso circolare, per la felicità Rocco parte, verso la felicità viaggia – idealmente e realmente –, alla felicità arriva. La sfiora, ne odora il profumo, la raggiunge, pure. Ma no, non ci arriva. Il suo altrove è, appunto, altrove. Un altrove che ha le sembianze della sua terra, che solo nella sua terra può sentire finalmente di aver raggiunto.

    Silvia Beldinanzi

    Alla mia famiglia, con infinito affetto

    "La felicità è la massima ambizione di ogni uomo ma, per natura, essa risulta fuggevole e vacua.

    Ci troviamo, così, di fronte al passato come unica vera fonte di felicità. Tuttavia, il passato vive solo nei ricordi e quindi nelle vestigia di quei tempi".

    (Pietro Luciano Belcastro)

    PARTE PRIMA

    FARRI, 1952-1963

    CAPITOLO 1

    Nell’anno in cui vidi i miei natali, il 1952, nella campagna di Farri si bisticciava anche per la ghianda da dare ai maiali. I miei genitori, come tutti gli altri farrisi, erano sempre prostrati dalle fatiche del lavoro, cercando di dissodare e rendere fruttuoso ogni piccolo pezzo di terreno disponibile. Papà, con altri compaesani, viaggiava a piedi, con scarpe rotte e bucate, fino in montagna e se ne ritornava a casa, dopo un giorno di fatica e una notte buttato sulle foglie secche e umide, con un misero sacco di patate sulle spalle. Era il tempo in cui tutti desideravano lasciare la campagna, tanto che molti poi se ne andarono verso l’Italia settentrionale, le Americhe, l’Australia, ovunque si potesse trovare una migliore sistemazione. Era l’inizio della dolorosa emigrazione, prima gli uomini e poi il resto della famiglia.

    Ma mio papà per molto tempo non ne volle sapere di trascinare sua moglie al Nord. Troppo fiero della sua terra, troppo attaccato alle sue abitudini per piantonarsi in una grande città. Eppure, ormai giunto alla consunzione, cominciò a maturare la consapevolezza dell’assoluta necessità di lasciare il posto natio, sebbene non volesse abbandonare la moglie, incinta di me e già madre di mio fratello Salvo, di due anni. La contrada di Farri era stata sempre povera, e ancora di più dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, e la campagna non ci offriva che qualche frutto, una patata da sgranare e qualche erbetta commestibile, che le donne raccoglievano con tanta fatica fra spine e gramigna.

    ***

    La primavera dell’anno in cui nacqui regalò sempre bel tempo, e la credenza che il mese di marzo fosse pazzerello si rivelò solo un mito. Pioveva di rado nella campagna, quasi mai nevicava, all’infuori che in montagna. I miei genitori furono fortunati, date le condizioni economiche in cui si trovavano, a non dover mai acquistare per me un giaccone né un cappotto: era sufficiente qualche maglione pesante per coprirmi quando mi recavo nelle zone ombrose, ove il sole raramente filtrava. Venni alla luce spinto al mondo dalla forza vitale della levatrice e dalla mamma sofferente, che non vedeva l’ora che nascessi dopo avermi trasportato per nove lunghi mesi, lavorando fin quasi alla fine, anche nei campi. Di rado si partoriva in ospedale, a meno che non ci fossero delle complicazioni, e anche in queste circostanze era difficile, perché le macchine non arrivavano fino in campagna e la clinica era situata a due paesi di distanza. Quindi ci si fidava della risoluta levatrice che dimorava in zona.

    Nacqui sotto la luce di un lume, l’elettricità era ancora lontana, e mi misero, mentre ancora strillavo, in una culla di vimini accanto a quella di mio fratello, un bel marmocchio adorato da tutti e soprannominato il ricciolino per via della folta chioma di capelli di cui la natura l’aveva provvisto. Non vivevamo in un tugurio ma neanche in una di quelle case che solo a vederle si rimane incantati. Si trattava semplicemente di una grande stanza che accomodava la nostra giovane famiglia. A quel tempo, mamma aveva diciotto anni, papà ventidue: nel dopoguerra ci si sposava giovanissimi, per tradizione e per motivi economici.

    Il piano superiore della casa, dove poi i miei genitori avrebbero dormito, non era ancora stato innalzato, sempre per colpa del benedetto denaro; infatti, i pochi spiccioli che papà guadagnava bastavano solo per sfamarci. Anni dopo, la lunga balconata sulla vallata del Torbido sarebbe diventato il suo angolo preferito, il luogo in cui distendersi e godersi un meritato riposo, accarezzato dalla brezza e dall’ombra della quercia che copriva la casa come fosse un mantello. In quel luogo, chiamato delle querce per il gran numero di questi alberi secolari presenti lungo il viottolo che portava a casa, regnava solo il silenzio e raramente si vedeva qualcuno, eccetto qualche zingaro che di tanto in tanto passava per vendere un oggetto di poco uso e di cui mia mamma, sempre in apprensione per noi figli, come tutte le madri del Sud, osservava preoccupata il passaggio, conoscendone l’inquietante abitudine di rapire i bambini. Grazie alle sue attenzioni, nonostante la povertà, crebbi sano, robusto e vivace, fino a diventare un bambino ammirato da tutti e quasi invidiato per la mia bellezza. Non c’erano giocattoli per distrarmi, così la mamma mi faceva passare il tempo portandomi dalle galline, che mi divertivo a rincorrere e a veder razzolare nell’orto. Ormai ragazzino, invece, nella contrada avevo molti amici, per lo più della mia età, con cui svagarmi in divertimenti semplici e senza costo.

    Nell’unico bar che c’era, gli uomini si svagavano ubriacandosi o giocando d’azzardo, mentre le donne, ritornate dai campi, nel pomeriggio si sedevano a filare o si riunivano a pettegolare. C’era anche una bottega che vendeva generi alimentari.

    La campagna pullulava di persone e tutti partecipavano a qualche evento, specialmente a quello della Festa della Madonna. Per questa ricorrenza si usava donare quello che si poteva, nella speranza che la Vergine compisse qualche miracolo, anche se poi il gruzzolo di soldi che si era a fatica raccolto finiva spesso nelle mani di persone di poco scrupolo. Il periodo della novena era il tempo più emozionante dell’anno per i bambini poco più grandi di me. Quando sentivano l’antica campana del Settecento diffondere al crepuscolo il din-don che richiamava i fedeli alla messa, correvano insieme come forsennati per essere i primi a guardare le ragazzine che sfoggiavano i loro vestitini nuovi, di solito cuciti e ricamati dalle rispettive madri.

    Se ne stavano all’entrata della chiesa, dimentichi dei giochi, allineati e appoggiati sul muricciolo, ad ammirare la bellezza di ognuna prima che entrassero nel tempio. Speravano di ricevere dalle compagne uno sguardo furtivo, non disdegnando di concentrarsi anche solo su un frammento del loro corpo scoperto, che già cominciava a destare in essi, ancora fanciulli, pudiche sensazioni. Di nuovo soli, non trovavano di meglio da fare che schiamazzare sul piazzale, provocando l’ira del parroco che d’improvviso interrompeva la predica e usciva a sgridarli, mentre i fedeli, vedendolo correre con la tonaca alzata, a stento trattenevano le risa.

    Io, che ero più piccolo ed ero costretto a stare in chiesa, avrei voluto emularli, parlare come questi amici maggiori di me, e quando potevo mi liberavo dalla stretta della mamma e me ne andavo fuori con loro. Mi piaceva ascoltarli mentre erano seduti in cerchio sotto l’ulivo, lontano dagli occhi sospettosi degli adulti: c’era sempre qualcuno che si vantava d’aver già conquistato il cuore di una di loro e dei baci sulla bocca che ne aveva ricevuto. Naturalmente pochi gli credevano, perché le ragazze raramente erano sole, e anche se lo fossero state non gli avrebbero prestato attenzione per timore dei genitori, che le tenevano sotto rigido controllo. Quando poi parlavano di nudo, l’eccitazione s’impossessava di me; sovente le sognavo mentre si sbracciavano o si toglievano le calze, e quando la mattina mi svegliavo di soprassalto spesso mi ritrovavo bagnato, sentendo vergogna e colpa, pensando che quei pensieri erano scaturiti proprio in chiesa, alla presenza della Madonna.

    ***

    L’arrivo della trebbiatrice nella sassosa fiumara rappresentava un altro motivo di gioia. Per noi ragazzini era come un miracolo, perché ancora non sapevamo neanche come fosse fatto un giocattolo. Eravamo talmente meravigliati e trasportati dalla vista di quell’enorme macchina agricola che sgranava i cereali, li separava dalla pula e imballava centinaia di balle di fieno, che non riuscivamo a staccarcene e ce ne stavamo tutto il giorno a guardarla o tutt’al più a giocare nei dintorni. Quando aveva finito il suo lavoro, ce ne ritornavamo mesti mesti a casa, sconsolati, pensando che avremmo dovuto aspettare un altro anno per sentire tanta allegria nei campi.

    ***

    Il terzo evento più importante dell’anno era rappresentato dal sacrificio del maiale, che di solito si consumava a febbraio, in occasione del carnevale, e che avveniva dopo che l’animale era stato foraggiato per un intero anno di ghiande della vicina quercia e di biada. Non c’erano molti uomini per tener fermo il poverino, quindi bisognava aspettare il proprio turno e non se ne poteva ammazzare più di uno al giorno. In quelle circostanze io mi sentivo sempre abbattuto perché mi affezionavo ogni volta a quel povero animale e avevo l’impressione che con lui morisse anche una parte di me.

    In particolare, un anno, proprio un mese prima del mio nono compleanno, la mamma e il papà mi portarono alla fiera e comprarono un maialino bianco che fecero portare in campagna su di una ambretta. L’animale s’insediò subito nella stalla e per tutto l’anno grugnì di contentezza per il letto di fieno in cui giaceva e per il buon cibo di cui si nutriva. Non avevo mai posseduto un animale domestico e lo desideravo così tanto che adottai Serafino, così lo chiamai, e lo considerai come un vero compagno di giochi. Era dolce e docile e sovente invadevo il suo territorio, e la mamma si divertiva a vedermi corrergli dietro mentre pascolava libero nell’orto. Durante l’anno Serafino crebbe e crebbe fino a diventare enorme, tanto da sembrare un pachiderma, ma rimase sempre mansueto; tuttavia la mamma mi proibì lo stesso di avvicinarmi a lui perché aveva paura che mi facessi male. Mi permetteva comunque di assistere quando lo foraggiava. Poi un giorno si presentarono cinque uomini, cinque contadini, cinque aguzzini, e Serafino smise di grugnire. Forse ebbe un presentimento, sembrava temere che potesse accadergli qualcosa di male. Riluttante, fu portato alla quercia, al ramo ove mio padre era solito improvvisare una rustica altalena per noi ragazzi e che quel giorno invece fu utilizzato per appendere il buon Serafino con un grosso cappio e per scagliarglisi addosso con corde e coltelli. Dopo che ebbe esalato l’ultimo respiro, gli gettarono contro dell’acqua bollente, per rimuovere ogni pelo senza nessun rimorso, lo tolsero dal cappio e lo appoggiarono su una vecchia madia per squartarlo in piccoli pezzi e farne poi salsicce, capocolli e lardo.

    Quel giorno per me fu molto triste. Compresi subito che non avrei più rivisto Serafino, a cui mi ero tanto affezionato, e passò del tempo prima che mi riprendessi dalla tristezza. Provai risentimento per i miei genitori, colpevoli secondo me di avermi portato via un grande amico. Mi promisero addirittura di regalarmene uno nuovo, ma il pensiero che anche lui l’anno successivo avrebbe fatto quella stessa fine mi rese ancora più triste.

    «Non ciangiri figghiu meu… a prossima vota o mercatu t’accattamo nantru» mi disse amorevolmente mamma.

    «No vogghiu n’antru… vogghiu Serafinu… Serafinu era ’u cumpagnu meu… ci vulia bene» mormorai piangendo.

    «Rocco, Serafinu non esti chiù cà… ndà mu accetti ora… chisti cosi succedunu ai maiali» mi rispose duramente.

    Era quella la realtà della vita, ma per me fu comunque assai difficile accettare la morte del mio migliore amico.

    CAPITOLO 2

    Non ero uno scolaro modello e certo non ne ero fiero, perché avrei voluto rendere felici i miei genitori, specialmente la mamma, che si sacrificava tanto per me e mio fratello, frequentando la scuola regolarmente piuttosto che andarmene a zonzo per la campagna. Difettavo però della forza interiore necessaria per dedicarmi appieno ai doveri scolastici, sia per una mia svogliatezza di fondo sia anche per il desiderio di vagare liberamente nella vasta campagna. Marinare la scuola era inoltre un modo per vendicarmi del mio insegnante, che davanti ai miei compagni mi umiliava verbalmente o mi puniva con una verga quando ero incapace di rispondere alle sue domande oppure non avevo svolto i compiti.

    Fosse come fosse, il richiamo degli amici superava ogni altro dovere e io gli obbedivo, senza pensare che avrei recato danno non solo a me stesso ma anche alla mia famiglia. Mi piaceva scorrazzare per la vasta campagna, fra incolti sentieri e campi coltivati in cerca di primizie, oppure soffermarmi su qualche prato e, scalzo, perché non volevo rovinare le scarpe che avrei dovuto calzare fin quando il piede fosse cresciuto, giocare a pallone. A volte ritornavo sanguinante per aver calciato un sasso, e quando la mamma mi vedeva in quello stato e veniva a sapere che non ero andato a scuola si adirava tanto: per lei la scuola era più che sacra e non comprendeva perché non mi rendessi conto di quanto fosse importante imparare. Lei stessa si rammaricava di non averla terminata perché era dovuta andare a lavorare nei campi e certo non voleva che io facessi la stessa sua fine o quella di mio padre. Avrebbe fatto qualunque cosa, qualunque sacrificio per preparami un futuro migliore del loro. Mi voleva troppo bene per picchiarmi e non passava molto tempo che mi desse un abbraccio; prima di mettermi a letto, però, era usanza a volte coricarsi anche alle otto di sera, non mancava di ammonirmi:

    «Se tuo padre viene a sapere che non sei andato a scuola, quando scenderà da Milano ti darà le botte… Rocco, lo sai che non vuole che tu faccia il suo stesso lavoro, non vuole che tu sgobbi tutta la vita alla mercé di un padrone per un misero tozzo di pane… Vuole che tu vada a scuola e ottenga un diploma!».

    Io però, troppo piccolo per comprendere quei saggi discorsi, di fretta rispondevo:

    «Mamma, dai, non ho fatto niente di male, sono andato solo a giocare!».

    Il pallone era stato uno dei pochi regali che avevo ricevuto quando papà era tornato da Milano. Me lo sognavo anche la notte! Quando si bucò tra le spine del campo dove giocavo, mi misi a piangere sconsolato; supplicai la mamma, in una delle sue rare telefonate con lui, di chiedergli di portarcene uno nuovo. Non ricordo se poi me lo portò o meno, ma ricordo che tenni quello bucato per molto tempo.

    ***

    In seconda elementare il maestro informò la mamma che avrei perso l’anno scolastico e questa volta lei si infuriò davvero. Il suo viso cambiò sembiante. Era livida di rabbia e mi sgridò così forte che l’eco della sua voce si sentì fin nella valle. Dovetti prometterle che sarei diventato diligente e responsabile. Era inammissibile che avessi perso un anno. Quando la vidi troncare un ramoscello di ulivo mi allontanai da lei a gambe levate: ero sicuro che l’avrebbe usato come verga su di me! Cercai un nascondiglio ma fu inutile: preso dal panico, e non sapendo dove rifugiarmi, mi rassegnai a essere punito. Dopotutto me la meritavo, mi dissi. Fortunatamente la mamma non fece niente di quanto temevo. Avanzò silenziosa verso me, scura in viso, e mi ripeté che le cose d’ora in avanti sarebbero state diverse: fintanto che non avessi messo la testa a posto non avrei più visto i miei amici, né giocato a pallone, e mi avrebbe portato con sé nei campi.

    La cosa non mi spiacque; mi piaceva il profumo della terra dissodata, inoltre imparai a riconoscere i vari ortaggi che la mamma cresceva con tanta cura, a irrigare i campi con la scarsa acqua che arrivava e che dovevamo pagare a peso d’oro, o ad arrampicarmi su qualche albero; e quando mi stancavo, seduto sotto l’ombra di un pioppo, ricevevo da lei del pane con un pomodoro spalmato e una fetta di provola. Vedendola zappare e sudare fra le zolle, avrei voluto aiutarla invece di star seduto sotto l’ombra dell’albero e mi chiedevo come mai non fosse papà a occuparsi di quel lavoro così faticoso… Lui invece se ne era andato a Milano e chissà cosa faceva… magari si stava divertendo mentre noi… Quelle poche volte che ritornava era sempre desolato e affamato e bestemmiava la sfortuna di essere nato povero e di essersi sposato così giovane. Mamma però non reagiva alla sua ira ma anzi, fortemente credente, lo accusava a sua volta di essersi dimenticato della famiglia e lo rimproverava per la sua arroganza, intimandogli di smettere di imprecare, perché alla fine le nostre condizioni economiche sarebbero migliorate, ed esortandolo a non arrendersi.

    Ricordo che una volta mi permisi di scagliarmi contro di lui, accusandolo di sparire per giorni lasciandoci soli, senza mai portare un bel niente né a me né a mio fratello, e di non rivolgerci mai dolci parole che ci avrebbero rallegrato e avvicinato: mamma lo difese con tutta la forza di una moglie, fiera, devota, risoluta, ammonendomi che non dovevo parlare in tal modo di mio padre:

    «Figlio mio, sei troppo giovane per capire! Tuo padre non ha un mestiere e non siamo nati nella ricchezza, e lui sta facendo del suo meglio per mettere un tozzo di pane sulla nostra tavola».

    Mentre lei era intenta nel suo lavoro, spesso mi allontanavo di nascosto: un giorno, senza accorgermene, finii nella proprietà di un mezzadro che, scoprii dopo, era un uomo cattivo e avaro e che per un pezzo di pane avrebbe sparato a chiunque. Il terreno di questo tale aveva un frutteto ricco di mandorli, peri, meli e un maestoso ciliegio. Fu proprio quest’ultimo albero, carico di frutti bianchi e rossi, ad attrarre la mia attenzione. Il mezzadro, per evitare che qualcuno glieli rubasse, aveva protetto il tronco sistemando ai suoi piedi un mucchio di irte spine, che avrebbero reso arduo avvicinarvisi e ancora di più arrampicarvisi. Io tuttavia non ci feci caso e con l’innocenza che caratterizza i piccoli, pur stentando, riuscii a crearmi un varco fra le spine e a salire sulla chioma, dove mi feci una scorpacciata delle più buone ciliegie che avessi mai mangiato.

    Mentre ero intento ad abbuffarmi, una voce stentorea si mise a gridare:

    «Che fai là sopra, cotraro… scendi giù!».

    Sarei sceso se quella voce cavernicola non mi avesse riempito di paura e quell’aspetto corpulento e barbuto non mi avesse fatto pensare che quell’uomo mi avrebbe sicuramente soppresso! Fortunatamente però la sua corporatura non troppo atletica gli impedì di arrampicarsi sull’albero e così io rimasi, tutto tremante, appoggiato su un ramo così alto che non sapevo nemmeno come avessi fatto a raggiungere.

    D’altro canto lui, vestito di velluto e scoppietta a tracolla, non se ne voleva proprio andare e continuava a inveire contro di me: «Se non scendi giù salgo su e ti ruppu ’a faccia!», ma per quanto fosse torvo e minaccioso non mi misi a piangere né chiamai la mamma.

    «Se voi ve ne andate via, lontano, scendo… Ve lo prometto!» provai, ma lui proprio non se ne voleva andare. Dopotutto aveva ragione, era la sua proprietà… Solo che i suoi modi rozzi non erano così convincenti e cominciai ad avere veramente paura.

    A un certo punto si mise a urlare con più forza e minacciandomi, di nuovo, mi intimò di scendere:

    «Vieni giù, mascalzone… Niente ti salverà dal prenderti una buona legnata appena ti acciufferò!».

    Smisi di rispondergli e, sebbene impaurito, rimasi sull’albero. Non sarei mai sceso.

    Si stava facendo buio. Era una bellissima serata di tarda primavera. Il cielo era arrossito e dall’alto del ciliegio sembrava si potesse toccarlo. Quale splendida visione, e quante fantasticherie avrei potuto immaginare se quel tanghero non fosse stato giù a terrorizzarmi! Pensavo anche che avrei potuto passare la notte su quell’albero, ma avevo così paura del buio, una paura atavica scaturita chissà da quale trauma e che avrei portato a lungo con me, che scartai subito anche quell’ipotesi, sebbene non riuscissi a muovere un solo muscolo.

    Ormai la mamma mi cercava da tempo, e non vedendomi pensava che fossi finito in qualche burrone o sbranato da qualche cane randagio. C’era tanta boscaglia e non udiva nessuna voce. Vagando e vagando, finalmente sentì le urla del mezzadro e subito si mise a correre nella nostra direzione.

    «Mastro Mico, avete veduto per caso un bambino nei dintorni?».

    «Non sarà per caso quel fetente di ragazzino che si è permesso di mangiarsi i frutti del ciliegio che curo con tanto amore e che ora se ne sta pacifico su quel grosso ramo?».

    «Ma che dite, mastro Mico, per una manciata di ciliegie fate tanto rumore… mio figlio non si permetterebbe mai di salire su un albero… è troppo piccolo!».

    Quando però riconobbe la mia voce, la mamma si ricredette. Si scusò con mastro Mico, ma allo stesso tempo lo ammonì:

    «Dovreste vergognarvi di spaventare un bambino così piccolo… Eccovi mille lire, pagatevi quello che ha mangiato e non azzardatevi più a urlargli così! E tu, Rocco, scendi giù immediatamente e chiedi scusa a mastro Mico!».

    Ubbidii controvoglia e feci come mi era stato detto, chiedendo scusa a quell’orco. Proprio questo pensavo di lui ogni volta che, da quel pomeriggio, lo incrociavo: che fosse un orco. E se mi capitava d’incontrarlo che ero solo correvo via da lui come se fosse la peste. Il suo aspetto burbero, la barba lunga, i capelli arruffati e lunghi e una cicatrice sulla parte superiore dell’occhio destro me lo facevano apparire sinistro, anche se talora mi sorrideva.

    La mamma, nonostante quel diverbio, mi disse più volte che in fondo era buono, che era amico del nonno, che non dovevo temerlo, che non mi avrebbe fatto nulla. Eppure le sue feroci grida mi rintronavano in testa e per lungo tempo non riuscii a vederlo sotto un’altra luce. Mi sorprendeva che avessi paura della gente, di solito avevo paura solo del buio. Conoscevo gli abitanti di Farri e loro conoscevano me. Il terrore che m’incuteva mastro Mico mi dava fastidio, perché frenava il mio desiderio di circolare liberamente in campagna, tanto che per molti mesi preferii starmene a casa dopo la scuola. Evitavo la compagnia di chiunque, malgrado la mamma, preoccupata della mia solitudine, mi rincuorasse e mi spronasse a vedere gli amici.

    «Mamma, non mi spingere a uscire» le dissi un giorno arrossendo. Non volevo che mi reputasse un pauroso sapendo quanto la preoccupasse l’idea che i miei compagni mi etichettassero come un fifone.

    «Figlio mio, non devi stare a casa, devi frequentare i tuoi amici. Vai a divertirti!» insistette premurosa.

    Le promisi che sarei uscito, e che per ora ero contento di stare a casa e studiare.

    Sapeva che stavo mentendo ma mi dette il tempo di guarire.

    CAPITOLO 3

    Dopo aver perso l’anno, promisi alla mamma che mi sarei messo a studiare di lena appena la scuola fosse ricominciata. La bocciatura era stata motivo di scherno da parte dei miei compagni e di vergogna per me stesso, non volevo più fare brutta figura davanti alle persone che mi volevano bene e ai pochi amici d’avventura che avevo. Mi sentivo umiliato quando, vigliaccamente, dietro le mie spalle un vocio maligno mi faceva compagnia fino a scuola, tanto che se ne avessi scoperto l’autore mi sarei di sicuro azzuffato con lui. Udire parole come somaro e svogliato fu un campanello d’allarme e allo stesso tempo d’incoraggiamento: desideravo fortemente dimostrare che non ero quello di un tempo, cioè un bambino disubbidiente e pigro. Mi dispiaceva anche per la persona che amavo di più, la mamma, la quale doveva subire anche perniciosi commenti e domande dalle vicine di casa, con cui menava il tempo prendendo l’ombra sotto la quercia. Non avrebbe mai permesso a nessuno di criticare i propri figli, soprattutto agli estranei, e quando una di queste megere comari le disse un giorno: «Comare Rosa, ho sentito che il figlio vostro è scarso a scuola… I compagni lo ingiuriano e lo chiamano asino, e forse se lo merita. Al vostro posto lo terrei chiuso in casa per giorni dandogli solo pane e acqua» lei non ci vide più dalla stizza e replicò: «Comare Concetta, perché ci tenete tanto alla sorte di mio figlio e invece non v’impicciate del vostro, che quando passa sotto il mio balcone emana una puzza che mi arriva fino alle narici?».

    Era come accusarla di non essere un buon genitore. Una donna come lei non si sarebbe fatta impartire lezioni da nessuno su come crescere i propri figli, quantomeno dalla comare Concetta, che era conosciuta per essere una delle donne più sciocche e ignoranti di Farri. No, non le avrebbe mai permesso di parlarle in quel modo, lei che lavorava dalla mattina alla sera nei campi e faceva del suo meglio per portare avanti la famiglia mentre il marito era nel Settentrione a faticare… Quel giorno fu così infastidita che mandò comare Concetta a quel paese, dopodiché non si parlarono per un bel po’ di tempo. La mamma soffrì la mancanza della compagnia ma non le importava: era meglio stare soli, diceva, che male accompagnati.

    Scelse di riposare invece sulla balconata, ove il sole dopo mezzogiorno non picchiava mai. Si accomodava sulla sedia a dondolo sulla quale di solito si sedeva mio padre e pian piano si dimenticò di comare Concetta, della sua linguaccia, abbandonando anche il desiderio di tapparle la bocca affinché rimanesse zitta. Nel silenzio cominciò a immaginare una vita lontana da Farri, in città col marito, in una casa con l’acqua corrente, la luce elettrica, la possibilità di uscire e fare la spesa a due passi da casa invece che percorrere sette chilometri a piedi fino al paese. Un posto dove l’invidia non esisteva, dove poteva circolare libera senza essere riconosciuta e pettegolata dai vicini. Avere tutte le comodità a portata di mano, diceva, l’avrebbe certamente resa felice invece di sgobbare sui campi dalla mattina alla sera, cosa che aveva fatto sotto il padre padrone e che faceva anche adesso sotto il marito, lontano migliaia di chilometri da lei. Sposandosi, aveva sperato che la vita che aveva sempre condotto sarebbe finalmente cambiata, che il matrimonio l’avrebbe esposta a un mondo migliore, invece si era accorta che gli anni passavano e le cose, ora che aveva due figli da sfamare, invece di migliorare peggioravano, sebbene spesso si domandasse se lasciare i luoghi nativi, dove aveva passato ben ventiquattro anni della sua vita, sarebbe stato saggio. Temeva l’ignoto, la lontananza dalla propria madre. Non avrebbe più voluto sentire le malelingue della campagna e mi raccomandava che facessi il bravo bambino e il bravo scolaro. Io ascoltavo ubbidiente, ma sapevo, in cuor mio, che mantenere la promessa sarebbe stata un’altra storia. La campagna era piena di svaghi per i bambini che volevano divertirsi, ma le trappole erano sempre in agguato, e insieme ai miei compagni mi dilettavo a perdermi nella natura e a vivere ogni giorno nuove avventure.

    ***

    In campagna imparai a essere un po’ crudele, contro il mio carattere. Non mi piaceva per niente infierire sulle creature indifese, specialmente quando si agiva in branco, ma ero timido e taciturno e non riuscivo a dire di no. Non sarei stato capace neanche di ferire una formica, ma mi sentivo inferiore, debole dinnanzi all’influenza dei miei amici, alcuni anche più grandi di me. Non avrei mai avuto il coraggio di allontanarmi da loro e ritornare a casa quando si commettevano atti spregevoli, perché la vergogna di essere bollato come un fifone e di non fare più parte della compagnia mi spaventava. Così, malgrado la mia indole, fondamentalmente buona, mi univo agli altri e non disdegnavo di emularli nelle loro nefandezze.

    «Rocco, veni a vidiri come fiondavu ’a lucertola» mi disse una volta Bruno, fiero del suo trofeo.

    «Povera bestiola» commentai semplicemente, vedendo la lucertola mozzata in due dimenarsi come fosse un umano.

    «Quandu ammazzarai ’a prima tua lucertola?» mi sfidò.

    «Cu ’u sapi» risposi senza particolare entusiasmo.

    «Se vo’ fare parti du gruppu nostru ndà ’u uccidi nu animali schifusu, non importa se esti ’na lucertola, ’nu serpenti o ’na salamandra» mi intimò con un tono di voce che mi lasciò indifferente.

    Non avrei mai voluto compiere una così vile azione, ma nello stesso tempo nemmeno perdere la loro amicizia. Certo, questo non mi giustificava. In fondo, se facevo parte del branco, era anche perché ci provavo gusto e il momento dell’azione mi recava quella soddisfazione che non trovavo a scuola.

    Si sa, in compagnia si fanno spesso cose che al momento sono piacevoli ma delle quali poi a volte ci si pente, soprattutto quando si diventa grandi. Uno dei nostri passatempi preferiti era dunque infierire sui poveri animaletti indifesi. Non ci pensavamo due volte a infilzare un’innocua lucertola o

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