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Manzoni. La prosa del mondo
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E-book401 pagine6 ore

Manzoni. La prosa del mondo

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A Sartre non piacevano «les textes purgés de leur auteurs». Non piacciono neanche a me, che ho sempre lavorato sulle connessioni profonde autore-opera, vissuto-scrittura. Ciò risulta difficile col Manzoni, che è uno scrittore senza io, del tutto privo di appigli psicologici. Con questo libro ho tentato l'operazione, inedita, del collegamento di una condizione nevrotica dichiarata con un'opera che nulla concede alle confessioni intime. La manzoniana angoscia del vuoto diventa ripudio di ogni forma di lirismo soggettivo, anche nei testi in rima, e adozione della prosa come sicurezza di appoggio sul terreno solido del reale e della storia. È così radicale la scelta del reale storico da portare l'autore alla condanna del genere romanzesco, da lui pure portato alla sua massima espressione e, alla fine, al rifiuto, come «cantafavola», del suo proprio capolavoro, per il credito concesso all'invenzione contro il nudo vero. In Manzoni tutto quanto sfugge alle certezze del reale storico, logico e religioso, viene inesorabilmente eliminato (per fortuna i Promessi sposi erano già in salvo)
LinguaItaliano
EditoreJaca Book
Data di uscita23 apr 2021
ISBN9788816802148
Manzoni. La prosa del mondo
Autore

Elio Gioanola

Elio Gioanola è nato a San Salvatore Monferrato (AL) nel 1934. Ha insegnato per trent’anni Letteratura italiana presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Genova. Con Jaca Book ha pubblicato, tra gli altri, i saggi Fenoglio. Il «libro grosso» in frantumi (2017); Manzoni. La prosa del mondo (2015, finalista al Premio Viareggio e vincitore del premio della critica); Montale. L’arte è la forma di vita di chi propriamente non vive (2011); Svevo’s story. Io non sono colui che visse, ma colui che descrissi (2009); Pirandello’s story. La vita o si vive o si scrive (2007); Psicanalisi e interpretazione letteraria (2005, ult. ed. 2017); Carlo Emilio Gadda. Topazi e altre gioie familiari (2004); Cesare Pavese. La realtà. l’altrove, il silenzio (2003); Giovanni Pascoli. Sentimenti filiali di un parricida (2000); Leopardi. La malinconia (1995, nuova ed. 2015), e i romanzi La malattia dell’altrove (2013); Giallo al Dipartimento di Psichiatria (2006); Martino De Nava ha visto la Madonna (2002); Ma l'amore no (2021). Sua anche La letteratura italiana (2016, in due tomi).

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    Manzoni. La prosa del mondo - Elio Gioanola

    Capitolo primo

    L’ABBANDONO

    Alessandro Manzoni nasce tre anni dopo il matrimonio della madre Giulia Beccaria con l’anziano vedovo Pietro Manzoni, conte di piccola nobiltà e di piccola proprietà terriera. «Nessuno era contento che fosse nato», dice Natalia Ginzburg (1983), il padre legale sospettava che non fosse figlio suo, il probabile padre reale, il bello e mondano Giovanni Verri, fratello dei noti intellettuali e scrittori Pietro e Alessandro, temeva lo fosse, la madre lo considerava un impaccio per la sua vita disinvolta di donna inquieta, intelligente, libera. Tommaso Gallarati Scotti, autore della migliore biografia manzoniana, che si ferma purtroppo all’anno 1820, scrive che «la nascita di Alessandro non dava gioia a nessuno, ma metteva in imbarazzo un po’ tutti» (1969/3). Non è mai un bel nascere quando si viene al mondo indesiderati, tanto più se i genitori, veri o putativi, fanno di tutto per manifestare nei comportamenti il proprio disappunto o la propria indifferenza. Assecondando volentieri il costume dell’epoca, quasi d’obbligo per le famiglie dotate di nobiltà, di censo e di cultura, Giulia affida a un balia di campagna il bambino, che resterà presso di lei ben oltre il periodo dello svezzamento, in una località prossima al Caleotto, la villa della famiglia Manzoni non lontana dal lago di Como e, proprio, di quel ramo del lago destinato alla celebrità.

    Certamente la distratta madre aveva ereditato dal padre Cesare l’intelligenza e il piacere di coltivarla, forse anche il temperamento irrequieto e nervoso, non certo l’affetto che nutre l’intelligenza di sicurezze e stabilità emotiva. Appena in età scolare, era stata messa in convento «per educazione», non davvero un esempio di moralità familiare e di lungimiranza pedagogica in un uomo celebre in tutta Europa per le sue idee illuminate. Da quel luogo non certo aperto ai soffi libertari circolanti negli ambienti dell’illuminismo milanese, Giulia viene tolta a diciannove anni e Pietro Verri, facendo al fratello Alessandro il ritratto della giovane donna, apparentemente uscita indenne dalla lunga clausura, scrive: «È una giovane sana, sensibile, d’un carattere vivo e impetuoso, figura proporzionata e robusta, immaginati come ella soffra il lungo carcere del San Paolo» (1969/3). Ritornata presso il padre, trova la casa occupata dalla seconda moglie del padre, sposata a tre mesi dalla morte della prima, a riprova di una sensibilità non propriamente pari alle riconosciute qualità intellettive. Ma Cesare Beccaria è un uomo ormai molto lontano dalla giovinezza tanto originale e creativa, vittima di una «stupida indolenza», come testimonia più di un documento, interessato solo a godersi i vantaggi della celebrità, le gioie della tavola (è parecchio goloso e ormai obeso) e quelle che gli offre la nuova moglie. Per questo, dice Gallarati Scotti, non sentì «nemmeno i suoi più elementari doveri di padre, pensando solo a sbarazzarsi comechesia della figliola – la cui presenza in casa sopportava con immenso fastidio». Se prima era stato il convento a liberarlo di una convivenza non accettata per quieto vivere, ora sarà una combinazione matrimoniale a togliergli dal cuore ogni peso di responsabilità, diciamo così, paterna. Ne nasce un vero e proprio complotto ai danni di questa ragazza tanto sola, fortunatamente abbastanza dotata di spirito per cedere a qualche visibile forma di sofferenza nevrotica.

    L’autore di uno dei libri più celebri del Settecento non esita a complottare, in maniera offensiva per i suoi principi libertari, con l’amico e sodale in avventure intellettuali Pietro Verri per sistemare convenientemente la figlia. Lui non gradiva l’interessamento amoroso di Giulia per il brillante e farfallone Giovanni e Pietro temeva un possibile matrimonio tra i due, che avrebbe dissestato il proprio patrimonio a causa della dovuta quota di eredità, quando il fratello Alessandro era già stato destinato, non si sa con quanta docilità, a un’esistenza di scapolo (la legge medievale del maggiorascato per un esponente della nuova nobiltà intellettuale!). Cesare Beccaria era pure quello che aveva scritto nel libro Dei delitti e delle pene: «Gli ereditari pregiudizi reggono i matrimoni, dove la domestica povertà li combina e li scioglie», ma per l’occasione passa sopra tranquillamente alle sue parole e combina, per la doppia convenienza sua e del Verri, il matrimonio della figlia ventenne con l’anziano vedovo Pietro Manzoni, la cui grigia figura aduggia fin subito le aspirazioni affettive della moglie avuta in dono che, per parte sua, cerca compensi amorosi con Giovanni. Casa Manzoni, un tetro edificio sui navigli, dominato dall’occhiuta presenza di monsignor Paolo, fratello del marito e vero capo della famiglia, canonico del duomo, vede anche la presenza di una monaca intrigante e di altre sei cognate nubili, «sette cupe ombre nere che soffocavano e spiavano la povera Giulia sola e sperduta» (1969/3). Ci sono tutti gli ingredienti per una convivenza difficile, se non impossibile, come mostra esplicitamente la lettera di lei a Pietro Verri, durissima nei confronti del destinatario e del padre, colpevoli entrambi di averla sacrificata per interessi familiari: «Mio marito, animato da un santo zelo, vuole a tutti i costi procurarmi il Paradiso a forza di patimenti qua in terra. Monsignore sta nel suo Casino raffinando le sue idee e imponendone la pratica al fratello, il quale ritorna a casa, scorre tutte le stanze, e credo non ometta osservare dietro i quadri… L’ex monaca si prende, ad ogni momento, la pena di calar pian pianino le scale interne per sentire ogni cosa si dice e poi va a riferirle al Prelato… Ecco il quadro della famiglia. Ella poi non ignora tutte le altre circostanze. A lei ho aperto il mio cuore, ho parlato e ho scritto e ho creduto davvero interessare la sua umanità in suo favore. Purtroppo temo d’essermi ingannata giacché vedo il conte Verri sempre conseguente a quell’amicizia alla quale fui un giorno innocentemente sacrificata. […] Mio Padre solo volle la mia infelicità, egli mi conosceva e conosceva quello che mi destinava. Il conte Verri ignorava tutte le particolarità dunque la sua premura per il mio collocamento partiva da una bontà sua per mio padre e per me. Ora le cose sono in aspetto ben diverso. Il conte Verri è al fatto delle circostanze e può ancora volere un aggiustamento che mi renderebbe schiava, vile e infelice? E questo solo per non urtare nelle conseguenze del dispotismo di un padre il quale non sente l’orrore della mia situazione, ma solo il dispiacere di vedermi capace di scuotere un giogo da lui impostomi?».

    Giulia per conto suo al giogo è da subito indocile, se volentieri lascia le cupe stanze della casa maritale per frequentare quelle luminose di casa Verri e il bel Giovanni, ma anche i circoli culturali della città, come quello del conte Giuseppe Gorani, amico di Voltaire, che così la descrive: «Adorata dal cavaliere Verri, e poiché aveva molto spirito, e spirito nutrito di grande varietà di conoscenze, con la sua conversazione illuminata, con le grazie di cui era adorna od anche con la vivacità delle sue attrattive esteriori, accresceva di assai il piacere che ci procuravano i suoi discorsi amabili e colti». Ma non per queste libertà, che riesce a prendersi, la sua vita è felice, le maldicenze cittadine la angustiano, il marito sospettoso e bigotto la raggela, non conosce le gioie materne con quel bambino sensibile e lontano. Il famoso ritratto dell’Appiani, voluto da Giovanni per lei, presenta una donna dal volto sfiorito e triste, che non rivolge lo sguardo al bambino sedutole in grembo, che a sua volta non guarda la madre e fissa con occhi intenti qualcosa chissà dove. La separazione tra i due improbabili coniugi avviene a dieci anni di distanza dal matrimonio, quando anche il rapporto con Giovanni Verri, che è andato a convivere con una popolana, è ormai finito e il figlio ha compiuto i sei anni.

    Carlo Emilio Gadda, sviscerato manzonista e compartecipe di nevrosi con il grande concittadino, è particolarmente affezionato ai versi virgiliani della quarta egloga, che cita in questo modo: «Cui non risere parentes, / nec deus hunc mensa, dea nec dignata cubili est». Filologicamente più corretta è la forma «qui non risere parenti», nella quale a non sorridere sono i figli, ma Gadda si riteneva troppo vittima dell’indifferenza e severità dei genitori, e della madre in particolare, per non preferire l’altra versione, che incolpa i parentes di mancanza d’affetto e per conseguenza delle deficienze vitali e amorose del figlio. Certamente al piccolo Alessandro i sorrisi della madre e del padre sono mancati del tutto e non è da credere che questa assenza sia stata senza conseguenze per la sua vita psichica, consapevole e ancor più inconscia. Appena arrivato all’età scolare, il bambino viene messo nel collegio dei Somaschi di Merate e di qui passa a quello di Lugano, dove rimane fino ai tredici anni. L’ultima tappa di questa peregrinatio da un collegio all’altro è il Longone di Milano, per i tre anni di scuola superiore (Manzoni non studia il greco e non frequenterà mai l’università). Lo scrittore non ha mai parlato volentieri della vita di collegio – ma si sa che in generale egli di sé parla anche meno di poco – solo in una breve nota in margine al manoscritto del Fermo e Lucia, là dove si racconta delle tragiche vicende della monaca di Monza, troviamo scritto: «Merate! Merate! In quante maniere tu guasti l’intelletto dei poveri tuoi ospiti per forza». Raccogliendo le confidenze del suocero, Giovan Battista Giorgini, l’amatissimo genero Bista, marito di Vittoria, ci dà questa testimonianza: «Degli anni passati in collegio e di sé bambino non poteva parlare senza un accento di compassione. Quelle mura squallide e nude dei dormitori, quell’aria fredda e tetra delle sale e dei corridoi, quella sorveglianza sospettosa, quel piglio burbero dei maestri, quel fare zotico degli inservienti, quelle nerbate, quelle tirate di orecchi gli tornavano ben sgradite alla mente anche negli ultimi anni e gli rendevano spiacenti quelle memorie che sogliono ricreare la vecchiaia – le memorie cioè dell’infanzia e della puerizia. E più che mai gli dispiaceva il ricordo degli effetti che quel sistema di educazione produce nell’animo dei giovani; quel misto di odio e di paura che fa le veci del rispetto; quella necessaria mancanza di sincerità e quello studio continuo di inganni e di sotterfugi, e la soddisfazione provata ogni volta che si riusciva a eludere una sorveglianza, a tradire un dovere – quella ribellione continua dello spirito, insomma – quell’avversione continua allo studio, ai precetti, alla religione stessa insegnata in quel modo». Certo pensando a sé, soprattutto agli anni ribelli del Longone, il Manzoni scrive all’amico Rosmini: «Per questi collegiali pieni di tutte le passioni dell’amor proprio, confidenti all’eccesso nelle forze della natura umana e senza solidi principi religiosi venne il tempo che si sentirono sopraccarichi di noia e di dispetto inverso ai legami che poneva loro la religione di collegio, sin lì da essi sopportata, ed allora ruppero le pastoie».

    Dall’infanzia alla puerizia all’adolescenza, quindi sempre nelle stagioni dell’esistenza in cui si gettano le fondamenta e le strutture portanti della personalità, Manzoni è stato solo e ha vissuto la condizione dell’abbandono. Non sono necessari i soccorsi della psicanalisi per essere convinti dell’importanza determinante di questo vuoto affettivo, precoce e protratto, nel formarsi dei gravi sintomi nevrotici che hanno segnato tutta la vita dello scrittore. Forse è vero che sia riuscito un cattivo padre, come molti hanno sottolineato pensando alla pessima condotta di alcuni dei suoi figli, ma è probabile che questo sia successo per essere egli stato troppo buono, tenero, permissivo fino alla distrazione, nella tenace memoria della propria deserta condizione di figlio. Quale modello poteva essere per il piccolo Alessandro quel padre dall’immobile mutria, che un certo Sébastien Planta, luogotenente di Napoleone amico di Giulia e Imbonati, definisce «le plus inhumain des mortels, le plus féroce, le plus stupide» (e alle sue spalle c’era nonno Beccaria, altra bella immagine paterna, chiuso al benché minimo interesse per il nipote, gelidamente da lui ricevuto nella sua poltrona di vecchio sepolto dall’adipe e omaggiato di un cioccolatino, di quelli che l’ex intellettuale riservava golosamente per sé. È stata presto fatta l’osservazione che nei Promessi sposi mancano le figure dei padri, Renzo è privo di genitori e Lucia ha solo la madre, ma anche nella redazione definitiva del Carmagnola il padre del condottiero è eliminato. Un padre c’è bensì, quello di Gertrude, ma tutti conoscono la sua feroce funzione di torturatore, pratico di incarcerazioni tra insuperabili mura conventuali, tanto da far dire all’autore che gli manca l’animo di chiamarlo padre. In compenso abbondano nell’opera e nella vita del Manzoni le figure dei padri ideali, dall’Imbonati a fra’ Cristoforo, da Vincenzo Monti a Federigo Borromeo, da Rosmini a Goethe, a conferma di una tenace nostalgia per quanto gli è stato totalmente sottratto. Per molti aspetti il carme In morte di Carlo Imbonati segna la ribellione «a tutte le leggi e le convenzioni sociali e religiose della casa paterna» (1969/3). Quando Pietro Manzoni muore, il figlio non è presente, con la madre è venuto da Parigi in Italia forse per questioni ereditarie e, alla notizia delle gravi condizioni del padre, parte subito per Milano, ma non fa in tempo a vederlo ancora in vita («al mio arrivo mi dissero che non potevo avere la consolazione di vedere mio padre»).

    Non entra nemmeno in città, va a Brusuglio, nella villa e tenuta ereditata dall’Imbonati e, di qui, direttamente a Parigi, senza nemmeno visitare la tomba paterna al Caleotto («a Milano», scrive al Fauriel, «non ci andavo quando mio padre era vivo perché avrei provato ripugnanza a farlo», anche se poi aggiunge di essere sicuro di non avere mai avuto per lui un sentimento riprovevole). Gallarati Scotti commenta con molta acutezza: «Manzoni aveva sentito la tristezza della sua posizione di figliuol prodigo senza patria, senza padre, senza tetto, senza focolare domestico, senza amore, senza una fede per operare e per credere». Ora, a dire la verità, di tetti ne ha due, quello di Brusuglio e quello del Caleotto, dove conserva buone memorie dell’infanzia e della prima giovinezza ma che venderà dopo qualche anno, non per spregio della memoria paterna ma per precise ragioni economiche, dal momento che tutte le risorse sono destinate a valorizzare la tenuta di Brusuglio e il Caleotto è scomodo e di poca rendita. Ha più a che vedere con il rifiuto di quella memoria l’ostinata rinuncia al titolo nobiliare di conte, che gli spettava come figlio unico, ma qui c’entra anche la polemica contro la nobiltà dell’amatissimo Parini e le conquiste libertarie della rivoluzione francese. Napoleone aveva provveduto a eliminare questi titoli ma, al ritorno degli Austriaci, furono ripristinati per chi ne facesse domanda. Manzoni non la fece e per tutta la vita continuò a prendersela contro chi si ostinava a dargli del conte (esasperato, una volta arriva a dire: «Vorrei vedere in galera colla catena ai piedi quelle canaglie che mi danno del conte»). Dopo la conversione, che gli comandava di onorare il padre e la madre, egli cambiò atteggiamento nei confronti del genitore e, chiamando il suo secondogenito col nome di Pietro, come togliendo il primo cognome da Alessandro Beccaria Manzoni, dichiara tacitamente un rimorso e in qualche modo gli chiede perdono, ma non basta la buona volontà dell’uomo fatto nuovo dal ritorno alla fede per cancellare i danni prodotti per sempre, e conservati intatti, nelle buie profondità dell’io.

    E la madre? Non è meno assente del padre, pur essendo l’incarnazione stessa del suo contrario. Troppo occupata di sé per prendersi cura di chi sembrava nato apposta per intralciarne i liberi comportamenti. È pur sempre la madre la prima dispensatrice d’affetto, anche se non di latte, per il figlio ed è il volto materno che il bimbo cerca con angoscia quando il buio minaccia di sottrarglielo. Allora molto più di oggi, perché all’epoca i padri delegavano completamente le incombenze dell’allevamento e accudimento della prole alle donne di casa, ignari di infanzie e puerizie. Rivolto a Carlo Imbonati, a cui nell’aldilà arriva «il pianto / di lei che amasti e ami ancor», il giovane poeta dice: «avrai veduto / grondar la stilla del dolor sul primo bacio materno». Solo a vent’anni Manzoni incontra davvero, per la prima volta in vita sua, la madre cercata invano da sempre e soltanto adesso capace di risarcire il figlio abbandonato con il primo bacio. È tanta l’ammirazione e l’amore di Carlo Emilio Gadda per il suo grande conterraneo che è disposto a passare sopra alla deleteria trascuratezza di Giulia per il figlio, concludendo le sue riflessioni sulla nascita dello scrittore con questa confessione: «fiorisce nel mio animo il fiore della gratitudine e del più spagnolesco rispetto per la indiavolata figlia del marchese Beccaria, che, riffe o raffe, pervenne a essere la madre di Alessandro Manzoni» (1991).

    Insomma, è tale l’acquisto per l’umanità di un personaggio capace di scrivere I promessi sposi, da rendere per nulla importante l’indecidibile responsabilità della sua nascita, non voluta e non accettata, al punto da creare un caso esemplare di figlio intimamente abbandonato. Così Sofia Condorcet, compagna di Fauriel, descrive Giulia conosciuta qualche anno prima della morte dell’Imbonati: «Bellezza espressiva, corpo superbo, avida di amore e dominio, si era aperta giovanissima alle idee innovatrici e rivoluzionarie». E un certo sconosciuto Giuseppe Compagnoni: «Essa sarebbe stata per la sua coltura, per il suo giusto criterio, per la forza del sentire e per l’altezza dell’ingegno la nostra Staël, se avesse avuto minore modestia». Insomma, troppe doti, fisiche, intellettuali e culturali per essere semplicemente una buona madre.

    Alla condizione di vuoto affettivo il precoce «vate trilustre», appena evaso dalle mura del Longone (il «sozzo ovile»), reagisce ribellandosi all’oppressione educativa della famiglia e dei collegi con la scelta dell’ateismo e degli spiriti libertari della rivoluzione. Nell’acceso giacobinismo del Trionfo della libertà, la tirannia è rappresentata in compagnia della religione («colei che in sacri ceppi il volgo allaccia») e le due idre truculente stanno tra loro «avviluppate e strette». Nel secondo canto, paragonando la Roma degli antichi eroi e tirannicidi a quella papale il poeta, ragazzo senza adolescenza, scrive i suoi versi più duri contro la Chiesa, diventata con la donazione di Costantino «la Putta astuta» che «nel roman bordello prostituta, / vile superba, sozza e scellerata, / al maggior offerente era venduta». È vero che in una nota contemporanea del manoscritto, cancellata ma in parte leggibile, si legge: «Io protesto, che qui e dovunque parlo degli abusi. Diffatti ognun vede che qui non si toccan princìpi di sorta alcuna. Altronde il Vangelo insinua la mansuetudine, il dispregio delle ricchezze e del comando, e qui s’attacca la crudeltà, l’avidità della ricchezza e del comando, che diametralmente s’oppongono a quei principi». Ma è pure da questa Chiesa che vengono le persecuzioni ideologiche, come quella di cui è stato vittima Galileo, perché «Quindi la maledetta intolleranza / del detto e del pensier, quindi Sofia / stretta in catene, e in trono l’ignoranza». È questa la religione appresa nella casa paterna e nei vari collegi frequentati che l’alunno appena liberato rigetta violentemente, insieme ad altri compagni di scuola, come Giovanni Battista Pagani, custode dei primi scritti ribelli dell’amico e indiziato di «precoce empietà», a cui scrive, avendo appreso dell’agonia del loro sodale Luigi Arese (e siamo già nel 1806): «Duolmi amaramente che gli amici non abbiano adito al suo letto, e che invece egli debba aver dinanzi agli occhi l’orribile figura di un prete» (i parenti del giovane temevano che i compagni di studi e di idee lo convincessero a rifiutare i sacramenti).

    La ribellione interessa anche i comportamenti di vita del giovane Manzoni che si era dato al gioco d’azzardo, frequentando assiduamente la roulette al ridotto della Scala, come attestano queste parole attribuite al Monti: «Appassionato per il gioco in modo che appena alzato non sognava che il gioco, non desiderava che il gioco, smaniava che venisse presto la sera per andare al Ridotto, non pensava ad altro». Forse il celebre autore della Basvilliana esagera il proprio ruolo di salvatore di quell’autentica promessa della poesia italiana minacciato di débauche, ma è un fatto che tra i due, almeno in quel giro di anni, l’intesa è molto forte: «seguitando di questo passo, tu sarai grande in questa carriera», promette Monti all’allievo, a cui rimprovera, oltre al gioco, le tendenze abuliche. «Voi mi avete più volte ripreso di poltrone e lodato di buon poeta. Per farvi vedere che io non son né l’uno né l’altro vi mando questi versi»: si tratta del poemetto Adda, tradizionale «invito» al maestro, in classicissimi endecasillabi sciolti, a venire come ospite nella villa paterna del Caleotto. In ogni caso il frequentatore della roulette non è stato un giocatore compulsivo: è stata una breve parentesi nella ricerca di uno sfogo alle inquietudini profonde; credo abbia ragione Pietro Citati (1973/4) quando dice che «egli non è stato quel giovine signore libertino in caccia di ancelle, quel frenetico giocatore di roulette, quell’ateo convulsivo che ci rappresentano i biografi romantici. Era solo un giovane candido e ingenuo». Della pigrizia, o abulia che, secondo Freud, accompagna gli stati di angoscia fobica, Manzoni si dichiarerà vittima per tutta la vita: «je suis esclave de ma paresse», scrive a Fauriel nel 1808, e questa pigrizia lo paralizza letteralmente soprattutto quando deve scrivere lettere, come innumerevoli volte confessa per giustificarsi con i corrispondenti, amici, figli, collaboratori: «lo scriver lettere, non solo mi svia, ma mi fa male»; al figlio Pietro negli anni tardi: «Non puoi sapere a che segno sia arrivata la mia malattia (o monomania) antiepistolare. Il solo pensiero basta per tenermi sospeso per parecchi giorni». Non è un semplice tratto caratteriale ma un preciso corollario della sua grande nevrosi.

    La ribellione non passa certamente per il libertinaggio, come ci si aspetterebbe da un ragazzo che intende rompere le «pastoie» di una certa educazione, rappresentando il sesso lo strumento primario di emancipazione dalla morale ricevuta. «Giovane candido e ingenuo», malgrado i furori giacobini, egli non si è reso colpevole delle imprese erotiche che gli si attribuiscono, sulla base di alcune lettere scambiate con gli amici di collegio. La prima di queste è di Luigi Arese al Pagani, ma il Manzoni è partecipe del gioco, se non altro come spettatore: «La donna mia è innupta, vero, ma conosce l’uomo e l’amore, onde non è vergine né donzella. […] Io la considero come libera disponitrice della sua volontà e se quindi consente a darsi in braccio, non credo che la delicatezza richieda di ricusare tanto favore. Io non l’ho sedotta né sollecitata. I parenti mostrano di non curarsene e per il presente contegno a mio riguardo di goderne (ma non mi prendono al laccio). […] Lasciate le ragazze ed appigliatevi alle maritate. E poi non sacrifico anch’io a lei tutte le seccature, le inquietudini, e forse anche i danni che mi apporterà il cristiano sdegno de’ religiosissimi miei genitori? Manzoni doveva rinunciare alla mia amicizia per l’opposizione dei miei?». La ragazza in questione era una serva della casa paterna di Manzoni, che a Pagani conferma la cotta di Arese, ma aggiunge di essere lui stesso interessato alla faccenda: «Vedo ch’egli non se ne adombra; manifesto una persuasione di poter correre carriera con lui; egli se ne mostra lietissimo. Se ne fa un patto; e ci dividiamo già le spoglie della futura preda. Eccomi dunque da zelantissimo consigliatore divenuto fautore e compagno». Si combina un appuntamento, ma Arese mostra gelosia, la donna manda un biglietto di cortesia e non si presenta, il padrone di casa la interroga e viene a sapere che lei non ha mai adescato l’amico e non ha mai avuto questa inclinazione. Insomma, due libertini da commedia e un niente di fatto chiaramente pronosticabile.

    Ma c’è una lettera dell’Arese a Pagani in cui si legge: «Manzoni nell’ultima sua mi dice che non ti scrive – mi dà nuova del parto felice e dell’ottimo stato in cui si trova la cameriera di sua cugina». Parrebbe trattarsi di un amore ancillare concluso con una nascita inopportuna, per cui il diciottenne poeta sarebbe padre illegittimo di una figlia di cui non si trova riscontro da nessuna parte. Gallarati Scotti appare convinto, con amarezza, che le cose siano andate davvero così e fa questa riflessione: «Quella notiziola commentata senza pudore nella cerchia degli ex collegiali ribelli, noi la sentiamo infatti come un’ombra che si appesantirà con gli anni nell’animo del grande tormentato». Naturalmente una specialista in gossip letterari come Maria Luisa Astaldi, nota antipatizzante del Manzoni, avvalora questa interpretazione della paternità clandestina, come dà credito alla voce di incontri con un’attricetta a Pavia dove sarebbe andato per sentire le lezioni universitarie del Monti, come all’altra della sifilide contratta nel soggiorno a Venezia, qui mandato dal padre nel 1804 per sottrarlo alle cattive compagnie milanesi. Cesare Angelini (1973/1), non so in base a quali altri riscontri oggettivi, dice: «è vera la nascita della bambina; ma è anche vero che la cameriera era la sposa regolare del servitore di casa, e tutto lascia credere che la bambina era il frutto regolare di quella legittima unione». Siamo nel giro delle raccomandazioni dell’Arese che esorta gli amici a lasciare le ragazze e ad appigliarsi alle maritate, con gli stessi risultati ottenuti nell’approccio all’ancella «innupta» della lettera citata. Credo proprio che Manzoni sia stato davvero il «giovane candido e ingenuo», di cui parla Citati, oltre che già in preda ai tormenti interiori che lo porteranno alla grande crisi del 1810: «I suoi amici migliori rinunciarono presto a capirlo, quasi fosse un mostro o un prodigio. […] Nelle ore di desolazione e anche in momenti apparentemente più felici, un’abulia, un’accidia, una passività, un torpore, dai quali non sa riscuotersi, lo avvolgono tra le loro spire».

    Siamo al punto: colui al quale i genitori non sorrisero, nessuna dea lo degna del suo letto. Manzoni giovane non affida la sua ribellione alle intemperanze erotiche perché i suoi conti col sesso non tornano. L’abbandono a cui è stato consegnato dalla nascita ha inciso profondamente proprio nel normale sviluppo di questa primaria voce del desiderio, esponendolo a una vicenda di inibizioni ed esaltazioni sentimentali. Nell’Imbonati c’è la deprecazione sullo «spento pudor» e la «brutta lussuria» chiamata amore. Nel sonetto dei diciassette anni Alla sua donna, che è poi Luigia Visconti sorella di Ermes, l’amico destinato a diventare compagno nell’avventura romantica e stretto collaboratore nella revisione del Fermo e Lucia, il poeta attribuisce a merito dell’amata «se non curo il piacer sozzo e vano amor» e se tutto gli sembra impuro al suo confronto. Un classico esempio di sublimazione platonica, in assenza di qualsiasi tipo di approccio reale. Non per niente Luigina è «angelica creatura», con il termine preciso in uso dallo Stilnovo in poi per la donna poeticamente amata, e poi usato, fuori da ogni stilnovismo, per riferirsi alla diletta moglie Enrichetta, in vita e in morte. Al Fauriel scrive, a cinque anni di distanza dalla compilazione del sonetto, di non avere ancora superato il dispiacere di essere lontano dalla donna amata dall’adolescenza in poi: «Non sento molto dolore per essere lontano dall’angelica Luigina. Ho ripreso per lei il sentimento della venerazione, della devozione, se posso esprimermi così: e questo sentimento è piuttosto dolce che cocente». Un mese prima, trovandosi a Genova dove ha ricevuto la notizia dell’agonia del padre, Manzoni è molto colpito dalla notizia che qui risiede, da sposata, la Luigina e ha addirittura la possibilità di rivederla: «Ho avuto nella mia adolescenza (1801) una fortissima e purissima passione per una fanciulla, habitu et vultu adeo modesto, adeo venusto ut nihil supra, passione che forse ha esaurito le forze della mia anima per emozioni di questo tipo. Ebbene, lei è a Genova e l’ho vista. Mia madre, che aveva fondato la speranza di tutta la sua vita sulla nostra unione, ma non la conosceva personalmente, l’ha vista ed è rimasta molto addolorata perché è maritata. Ciò che non poco mi tormenta è il pensiero che è un po’ colpa mia se l’ho perduta e se lei credeva che fosse del tutto colpa mia». Aggiunge il deluso e persino un po’ affranto scrivente che i genitori della ragazza lo avevano allontanato da casa loro (paura che la compromettesse?) e lui, per conservare la propria dignità, se n’era davvero allontanato, mentre lei ha creduto all’indifferenza dello spasimante. Resta ormai solo il rimpianto per l’occasione perduta e la «profonda venerazione», un sentimento però non «così forte come la mia avversione per il matrimonio», ribadita non soltanto in questa occasione.

    Sarebbe questo il ritratto di un libertino, insidiatore di ancelle fino a metterle incinte? Qui c’è solo un ragazzo che si innamora adolescente di una casta fanciulla sublimata e trascina per sei o sette anni questo innamoramento senza saper fare un passo per venirne a capo, fino a quando è messo di fronte al fatto compiuto del matrimonio di lei con un altro. Quanto all’«aversion pour le mariage», è più la presa d’atto di un fallimento che un progetto, tanto che a meno di due mesi da questa affermazione se ne trova una contraria espressa sempre a Fauriel, che gli ha proposto la conoscenza a fini matrimoniali di una parigina molto comme-il-faut, addirittura la figlia del filosofo Destutt de Tracy, ispiratore e frequentatore della cerchia di Auteuil e della Maisonnette: «Non conosco la persona di cui mi parlate, sono da qualche tempo, e credo per sempre, trasportato per il matrimonio in generale». Ma non è la proposta di Fauriel, a quanto parrebbe, a fargli cambiare idea, ci sono delle manovre in atto da parte di Giulia per trovare una sistemazione al figlio, incapace di cavarsela da solo in fatto di donne e inibito a prendere qualsiasi iniziativa per conquistarne una. La parigina è certo un ottimo partito, e non farebbe nemmeno caso alle poco brillanti condizioni economiche del potenziale pretendente, ma certo questa è una donna raffinata, di gusti difficili, abituata alla brillante vita cittadina, che troverebbe ostacoli insormontabili nel carattere e nei gusti della persona che gli viene proposta. Ecco il quadro psicologico di sé che presenta all’amico: «Voi conoscete meglio di me, caro e buon Fauriel, la mia avversione per gli incomodi, il mio assoluto distacco dalla società, la mia completa musoneria, il mio invincibile imbarazzo (che mi rende qualche volta addirittura ridicolo) ecc., che fanno di me un essere piuttosto originale; e di una originalità, che non spero possa piacere a una persona tout-à-fait gentille». Per questo autentico imbranato la donna ideale per il matrimonio è questa: «Un’anima dolce e sensibile […], uno spirito giusto e adorno, abitudini semplici, carattere calmo e uguale, nessun gusto per i piaceri chiassosi, molto gusto, invece, per la campagna, le cure e i veri piaceri del menage familiare, una figura interessante, dei talenti gradevoli, genitori affettuosi tanto stimabili che stimati». Questo ritratto assomiglia molto a quello di Enrichetta, che così viene presentata a Fauriel tre mesi dopo la lettera citata sopra: «Ho visto la giovane di cui vi ho parlato a Milano, l’ho trovata gentilissima; mia madre che ha parlato con lei la trova di cuore eccellente; lei non pensa che alle cose di casa e alla felicità dei suoi genitori che l’adorano, i sentimenti di famiglia l’occupano completamente, […] insomma, un tesoro».

    C’è sempre Giulia di mezzo, è lei che si rammarica della perduta occasione con la Luigina, che le piaceva parecchio, e che ora è andata a scovare questa perla che il figlio non sarebbe mai stato in grado di individuare e, tanto meno, di corteggiare (sarà sempre lei a trovare per il vedovo Alessandro la seconda moglie, Teresa Borri Stampa). Insomma la più volte proclamata avversione per il matrimonio nasconde la radicale incapacità di iniziativa amorosa: è sempre la madre, pratica di queste cose, a rendersi conto delle inibizioni del figlio e del suo bisogno di una compagna che ne soddisfi il desiderio senza urtarne la delicata e complicata sensibilità. Quando alla morte dell’Imbonati il ventenne Manzoni era arrivato a Parigi, era subito scoppiato un vero e proprio innamoramento per la madre (Citati parla di «complesso edipico violentissimo»): «Io ho sentito veramente il bisogno di scriverti», comunica a Vincenzo Monti, «di comunicare la mia felicità, a te che me l’avevi predetta; di dirti ch’io l’ho trovata nelle braccia d’una madre […]. Io non vivo che per la mia Giulia». E all’amico Pagani: «Ella t’ama quanto io t’amo. Ella è continuamente occupata ad amarmi, e a fare la mia felicità». È evidente che urgevano rimedi. E bisogna dire che Giulia è stata di mano felicissima nella scelta della donna per il figlio, avendo avuto modo di conoscerne bene le inclinazioni e i deficit psicologici: «Noi siamo tutt’e tre estremamente felici, questa angelica creatura sembra creata apposta per noi; ella ha

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