Vitae
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Anteprima del libro
Vitae - Raffaella Milite
Raffaella Milite
Vitae
Raffaella Milite
Vitae
Editrice GDS
Via Pozzo 34
20069 Vaprio d’Adda-Mi
Tel 0290970439
www.gdsedizioni.it
www.gdsbookstore.it
Per ogni riferimento a cose, luoghi o persone o altro è da considerarsi del tutto casuale.
Disponibile anche in formato CARTACEO
Baba
Le tirano dei sassi oppure delle pietre.
Sempre così. In ogni villaggio la scena si ripete. Che sia un giorno di pioggia, che scivola sulla pelle confondendo le lacrime, o un giorno di sole, che asciuga anche l’intenzione di piangere, lei arriva curva sotto il peso della sua sacca, invero non molto pesante. Ha le spalle curve e la testa ciondola un po’ verso il basso. L’andatura è però sicura e veloce, come se avesse un posto da raggiungere o qualcuno che la stesse aspettando. Invece lei non ha nessuno da nessuna parte e nemmeno una casa. Ha i capelli lunghi e spruzzati di bianco e vestiti stropicciati e logori che si sono adattati del tutto al suo esile corpo, avvolgendolo come se fosse una larva dentro ad un bozzolo. Cammina lesta, senza esitazioni, ma non riesce ad evitare di essere vista ed i bambini la aspettano e fanno a gara per colpirla.
E’ arrivata Baba!
urlano in coro e tra risate e motteggi la seguono lanciandole pietre e rami che trovano per strada. Lei, Baba, non evita nulla e non pare nemmeno accorgersi di loro; a testa bassa prosegue il suo cammino.
La aspettano sempre. Arriva Baba. E’ quasi un rito, forse quasi una festa. Una volta all’anno, quando le piogge cominciano a cadere copiose e le giornate si fanno lente e monotone, arriva, nel villaggio di Urim, Baba. Cammina veloce e sicura e raggiunge la parte estrema del villaggio, là dove resiste una piccola capanna. I bambini scendono dalle terrazze poste sopra le loro case di mattoni d’argilla e si precipitano nelle vie per correre verso di lei. Arriva davanti alla capanna, appoggia la sua borsa e si lascia cadere al suolo, stremata. Viene da lontano, così lontano che nemmeno lei sa da dove. I suoi piedi rovinati e sudici non mentono, hanno schiacciato terra, acqua e sassi. Ora è molto stanca Baba. Appoggia il capo sul sacco e cade in un profondo sonno, mentre le voci dei bambini si fanno più lontane e le luci del giorno si spengono.
Si sveglia che è notte fonda, perché una capra, fuori dalla sua capanna dimostra strane abitudini e sta annusando la terra vicino a lei. Deve avere un piccolo da qualche parte perché ha le mammelle gonfie. Baba, senza pensarci due volte, si attacca al suo capezzolo e succhia quanto più latte può, tenendo ferma la bestia che cerca di scappare.
Da quanto non mangia? Da Kish o da Uruk? Ha bisogno di cibo solido e come un lupo si aggira nei dintorni, per cercare qualche bacca o qualche frutto. La luce della luna la guida fino al fiume. Cammina a stento sulle pietre, alcune sono aguzze e le strappano un lamento, ma poi immerge i piedi nell’ acqua illuminata dalla luce lunare, come se stesse incedendo sulla scalinata di un tempio, e fa scivolare dalle spalle i suoi vecchi panni. Si scoprono, alla luce argentata, le spalle, le lunghe braccia, la schiena, il petto, le lunghe gambe agili. Solo una collana interrompe ora la sua nudità e brilla come un piccolo firmamento intorno al suo collo, con cerchietti d’oro attaccati a cristallo di rocca. Non è più una ragazzina da molti inverni ormai, ma il suo corpo è tonico e bello e, così amato dalla luna e accarezzato dalla corrente, è carico di vita. Si immerge nel fiume e si lascia annodare i capelli dai flutti, mentre gli occhi si aprono nel buio della profondità. Riemerge, riprende i suoi panni e nel percorso del ritorno addenta un dattero e altri se li prende per portarli alla capanna. Entra, si siede, aspetta.
Oramai al villaggio tutti sanno che è arrivata Baba. Le donne sono in fermento e sui tetti, oltre ad attendere ai lavori domestici, non fanno altro che parlarne. Gli uomini, nei campi, non fanno molti discorsi, ma il suo arrivo è come una buona notizia, anche se non sempre quelle che Baba dà sono buone notizie. I bambini corrono giù dalle scale saltando i gradini e fanno finta di essere Baba
, correndo dietro ad altri di loro che scappano. Tutto il villaggio è in una condizione di euforia, attesa e timore. Quest’ultimo ha preso in particolare Ukagi, sacerdote del tempio di Nanna.
Erano ormai molte sere che, scrutando il percorso delle stelle, si era messo in allarme. Ogni volta che il percorso della luna incrociava quello della stella del sud, Baba arrivava. Ed ogni volta la città era in subbuglio. Ukagi e gli altri sacerdoti non potevano sopportarla. Arrivava, si sistemava ai margini del villaggio, nella capanna, e la gente correva da lei a chiederle notizie, risposte, messaggi. Per tutto il tempo in cui Baba restava a Urim, nessuno si ricordava più del tempio e tutti i doni venivano portati a quella donna, non più ai sacerdoti. Era inaccettabile, e ora era arrivata, puntuale come il sole dietro all’alba, come una piena del fiume nella stagione delle piogge, come le disgrazie. Era stata bella, Baba, da giovane; Ukagi se la ricordava bene. Così leggera ed armoniosa, con quelle gambe lunghe ed il seno sodo. Ai sacerdoti non erano vietate le donne e, a Ukagi, Baba piaceva moltissimo.
Un anno, dopo aver previsto il suo arrivo, l’aveva aspettata. L’aveva vista arrivare da dietro una collina, con la sua borsa sulla spalla e quel suo corpo così sinuoso che si muoveva sotto le vesti grezze, rigide e polverose. Ukagi le si era avvicinato, dopo tutto era un sacerdote e lei era figlia di nessuno, una senza città, famiglia e senza nome, a parte quello che i bambini ripetevano senza che lei lo avesse rivelato.
***
Ukagi attraversa il guado veloce e le si mette davanti, bloccandole il cammino. Baba è costretta a fermarsi, ma senza alzare la testa, continua a fissare il cuoio dei sandali del sacerdote. Allora lui prova a parlarle, prima con tono deciso e imperioso, poi sempre più dolce, finché si trova a spostarle con la mano il tessuto dalla spalla e a sfiorarle con le labbra la pelle. Nemmeno un fiato. Baba è immobile come se fosse stata di cera. Talmente immobile che Ukagi si sposta con paura e la guarda per assicurarsi che sia reale. Solo allora Baba alza la testa e solleva le ciglia fino a guardarlo negli occhi. Ukagi si sente sopraffatto. E’ nudo di fronte a quegli occhi del colore della pietra di luna e a quella pelle che riflette la luce che viene dall’acqua. Non è preparato a vedere la luce delle stelle che spiava di notte, di giorno davanti a lui. Dopo un attimo che a lui sembra interminabile, Ukagi si fa da parte e Baba, abbassata la testa, riprende il cammino.
***
Tutti i sacerdoti del tempio di Nanna temevano il suo arrivo, ma Ukagi più di tutti.
Quando Uri e Thiba ebbero la loro prima figlia, sentirono finalmente di aver raggiunto la felicità.
Mushi, l’indovino, aveva predetto loro l’arrivo di un figlio e loro, anche se increduli, gli avevano dato i fichi che avevano portato con loro e l’orzo che tenevano in serbo per le grandi occasioni.
Mushi lo aveva sparso sul fuoco e aveva letto, nel crepitio dei chicchi e nel fumo intenso che ne ero salito, il lieto evento. Aveva poi aperto un fico in due metà e aveva letto il suo interno.
Uri e Thiba sarebbero stati benedetti dall’arrivo di un figlio.
I due si guardarono carichi di gioia e Uri si accarezzò istintivamente la pancia, ancora piatta e ossuta e, mentre la mano la percorreva, guardò Thiba che rifletteva nei suoi occhi tutta la sua incredulità nei confronti della magia. Mushi disse che avrebbero dovuto coricarsi, la notte stessa, su un graticcio di semi di miva e chorza e che avrebbero dovuto prima bruciare le vecchie stuoie su cui si stendevano e che impedivano il concepimento. Mentre Mushi finiva di mangiare i fichi portati, Uri e Thiba si alzarono e mano nella mano si recarono nella capanna, vicino al ciliegio, per aspettare la notte. La luna, quella si fece attendere e la sua luce rimase un bagliore lattiginoso per molto tempo, oppure così parve a loro. Ligi al comando, accesero un fuoco davanti alla porta e bruciarono le vecchie stuoie, per la verità ancora buone. Thiba esitò un attimo prima di farle cadere sui ceppi accesi, ma Uri condusse la sua mano con decisione ed in fine i loro letti alzarono verso il cielo bagliori di fuoco, nei quali avrebbero giurato di vedere piccoli spiritelli malvagi dissolversi nell’aria. Rimasero così a guardare le lingue di fuoco e fumo, stringendosi forte la mano, con gli occhi illuminati che guardavano l’esodo della malasorte dalla loro vita.
La loro unione era nata sotto buoni auspici, le famiglie avevano svolto tutti i sacri riti previsti da Mushi: il capretto era stato sgozzato davanti agli scalini del tempio; il suo sangue era defluito verso destra, chiaro segno di buona sorte; le sue interiora erano state bruciate e nessuna parte di esse era risultata contorta o malata, segno che il capretto, senza il loro matrimonio, avrebbe potuto vivere una lunga vita felice. Tutto nella norma. Purtroppo però, i figli non erano arrivati a benedire la loro unione e ogni anno che passava, Mushi ripeteva loro che Nanna non aveva piccoli per loro. Ogni anno, per trenta anni di matrimonio. Ma poi Mushi aveva detto che sarebbero stati genitori. Erano anziani, nel tempo in cui gli altri diventano nonni, e la loro carne non era quella della gioventù, ma mai era accaduto che Mushi si sbagliasse. Perciò, dopo aver spento il fuoco, insieme entrarono nella capanna. Fecero uscire la capra ed i maialini che normalmente occupavano la parte destra del loro giaciglio, per potersi concentrare su questo importante rito. Sparsero i semi e si inginocchiarono tenendosi per mano.
Quella sera non fu come le molte altre che avevano vissuto nella loro lunga vita insieme. Quella sera Thiba toccò Uri come se non l’avesse mai conosciuta prima. Sfiorò con delicatezza le sue ginocchia, si piegò a baciarle i piedi, le mani, la fronte. Con entrambe le mani le segnò le anche e affondò la faccia nel suo grembo che non aveva mai visto così luminoso. Uri si sentiva la donna più desiderabile del mondo. Era come Nanna, era come la luna, piegò il collo all’indietro mentre Thiba tra le sue gambe le baciava piano la pelle sottile della pancia e la stringeva come se avesse già suo figlio tra le braccia. Gli occhi di Uri erano aperti e dalle inferriate della finestra entrava finalmente con prepotenza la luce di Nanna che benediva la loro notte. Uri li socchiuse quando sentì che Thiba era entrato dentro di lei e lasciò che i suoi movimenti fluissero come l’acqua del fiume, con armonia e forza.
Quando si svegliarono quella mattina seppero che Mushi aveva ragione.
I mesi passavano e Uri e Thiba erano l’attrazione del villaggio: a quarantaquattro anni lei e quarantasette lui, nessuno avrebbe mai pensato che avrebbero ancora potuto concepire. Eppure il ventre di Uri cresceva e la sua pelle si illuminava di una nuova gioventù. Ai miracolosi semi del giaciglio ne erano stati aggiunti altri ed insieme anche pelli di capra perché Uri non dovesse dormire troppo sul duro.
Arrivò il giorno della luna nuova.
Uri disse a Thiba: Marito, prepara la stanza dove nascerà mia figlia.
Come fai a sapere che sarà una bambina?
chiese Thiba alla moglie.
Nanna me lo ha detto quella notte
rispose Uri. Thiba voleva replicare, ma in quel momento le cosce di Uri si bagnarono e così tutta la terra intorno ai suoi piedi. La vecchia Nami fu fatta arrivare a casa e Thiba lasciato ad aspettare fuori.
Era notte ormai quando alle orecchie del vecchio padre giunse quel miagolio scomposto, che annunciava l’arrivo della nuova vita.
Fu così che Ashmir venne alla luce, la bambina della luna. I genitori non potevano essere più contenti ed orgogliosi ed Ashmir cresceva sana e forte. Ogni sera Uri aspettava il ritorno di Ashmir con un po’ di inquietudine. Il grande dono che era questa bambina le sembrava sempre sul punto di esserle portato via.
Nanna ce l’ha data, Thiba, e lei ce la può togliere
diceva al marito quando non la vedeva rientrare insieme agli altri bambini per il pasto della sera o per coricarsi.
Dov’è Ashmir?
chiedeva ai figli dei vicini.
E’ rimasta nel greto del fiume a sentire la corrente
Si è messa ad osservare un grillo sulla corteccia della palma
E’ corsa dietro ad un uccello blu
Stava ascoltando le foglie degli alberi
Comunque, anche se non era puntuale, Ashmir tornava sempre a casa dai suoi genitori ed aveva per loro delle attenzioni tenerissime. Guardava le mani di Uri e gliele accarezzava dolcemente, gliele baciava e se le portava sul cuore; sistemava i pochi capelli di Thiba e li spostava con attenzione dietro alle orecchie, accarezzandolo con uno sguardo carico di amore.
Sembra che sia lei il nostro genitore, non noi i suoi
disse un giorno Thiba ad Uri, con un po’ di vergogna.
E’ giusto che un figlio si occupi dei genitori anziani, Thiba
disse lei.
Parla per te, moglie
fece Thiba fingendosi arrabbiato con Uri e tutti e due scoppiarono in una sonora risata.
Quando Ashmir ebbe tredici anni, i genitori videro confermati tutti i loro sospetti. Una sera, mentre gli altri bambini sciamavano verso le proprie case per la notte, Thiba ed Uri aspettarono invano il ritorno della figlia.
Dapprima non si preoccuparono troppo, perché non era la prima volta che perdeva la nozione del tempo, ma dopo qualche ora cominciarono a spaventarsi.
Ashmir!
Urlarono vicino al greto del fiume; Ashmir!
risuonava nel bosco di palme; Ashmir!
riecheggiava il vuoto della pianura. Ashmir non si trovava da nessuna parte e i due, disperati, tornarono a casa da soli.
Ecco Thiba, Nanna se la è ripresa
disse Uri quando riuscì a formulare una frase.
Non dirlo nemmeno per scherzo Uri! Ashmir è nostra figlia! Nostra!
e riempito in fretta un sacco con qualche frutto, un pane di lenticchie e delle noci, uscì precipitosamente da casa.
Quanto starai via?
urlò la moglie, ma Thiba era ormai lontano e deciso a riportare a casa la figlia a qualunque costo. La cercò ovunque, si spinse fino alla foce del fiume, dove l’acqua dolce si insala e i pesci risalgono la corrente. Di Ashmir si erano perse le tracce, sembrava che il mondo, che prima brillava ai suoi occhi attraverso la figlia, ora si fosse spento. Thiba non sentiva di avere più ragioni per vivere e si accoccolò vicino ad un masso, lasciando che i suoi piedi si spostassero mossi dalla corrente.
Non sapeva se fossero passati giorni, ore o minuti, ma ad un certo punto il sole alto che lo abbagliava fu oscurato da una sagoma di uccello. Le ali erano enormi ed il suo volo fluido e sincero non temeva l’altezza. Si sforzò, portandosi la mano sopra agli occhi, di seguirlo con lo sguardo e , preso come da una speranza, si alzò a fatica e cercò di uscire dal greto per seguire la direzione del volo. Corse, zoppicando, quanto più veloce poteva, finché una radice non impedì al suo piede di sostenerlo e lui cadde rovinosamente al suolo. Provò a sollevarsi, ma non ne aveva le forze e rimase lì, riverso nella sterpaglia, inanimato come un tronco vecchio abbattuto dal fulmine.
Quanto tempo era passato? Qualche minuto pensava, ma la bocca arsa e le labbra rotte e secche gli dicevano che si sbagliava. La luce sfacciata del sole aveva lasciato il posto a quella più delicata della luna, che stagliava davanti a lui, su una via luminosa, la figura della sua Ashmir. Era solo un’ombra, ma lui era sicuro che fosse lei, una figurina elegante e snella, su un tappeto biancastro che saliva verso il cielo. Gli sembrava di aver gridato il nome di sua figlia, ma la figura nera non si mosse, sembrava pregare con le braccia sollevate sopra il capo.
Quando rinvenne, il sole era già alto ed i suoi occhi gli rimandarono bagliori iridescenti, mentre le sue narici respiravano sabbia rovente. Cercò di sollevarsi, ma ricadde pesantemente al suolo. Ad un certo punto sentì il suo braccio destro alzarsi e seguirlo tutto il lato del corpo, come se una forza esterna lo stesse sollevando. Alcuni uccelli avevano cominciato ad avvicinarsi a lui mentre era così immobile ed ora si allontanavano protestando con acuti e schiocchi. Si lasciò sorreggere da questo insperato aiuto e zoppicando guadagnò l’ombra di un grande noce. Si appoggiò con la schiena al tronco e scivolando si lasciò sedere sulle radici.
Fu allora che la vide.
Era Ashmir, inginocchiata davanti a lui, che lo osservava con preoccupazione.
Figlia mia!
disse Thiba, Finalmente ti ho trovata!
Padre Thiba, come stai?
rispose Ashmir
Bene, ora che ti ho ritrovata!
.
La figlia lo guardava ispezionando ogni lato della sua faccia e con solerzia corse a riempire la sua sacca con l’acqua del fiume. Tornò inciampando sotto il peso del sacco che gocciolava l’acqua che non riusciva a trattenere e, dopo averne rovesciata un po’ sul palmo della mano, sistemato a scodella, ed averlo avvicinato alle labbra del padre, versò il resto sulla sua testa, osservando con soddisfazione i tratti del viso di Thiba che si distendevano per il piacere. Thiba le prese le mani e se le portò al cuore e, per la prima volta da quando Ashmir era scomparsa, riuscì a respirare a pieno di nuovo. Anche Ashmir chiuse gli occhi e rimase immobile.
Che fai?
chiese Thiba.
Il tuo cuore, ora, ha ripreso il suo battito
rispose Ashmir.
Ora che ti ho ritrovata, tutto riprenderà il suo corso
.
Tutto ha il corso che deve avere, padre, e non dipende da noi. Noi siamo sul corso, non siamo il corso.
disse Ashmir.
Come dici?
chiese il padre sollevando un po’ le spalle dal tronco per guardare meglio una figlia che, con le sue parole, lo confondeva.
Nanna mi ha chiamato, padre. Non sono fuggita, sono stata chiamata.
A Thiba pareva di essere appena stato catapultato dalle spiagge di Nanna ai luoghi infernali di Kur. Le peggiori previsioni di Uri sembravano avverarsi.
"Come, sei stata chiamata? Sei solo una bambina che corre dietro ai grilli, Ashmir! tuonò,
i raggi del sole ti hanno sconvolto la mente, torniamo a casa figlia mia."
"No padre, i raggi del sole nulla possono a confronto di quelli di Nanna. Lil ha soffiato su di me ed io