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Il fossato
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E-book128 pagine1 ora

Il fossato

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Sul filo di una narrazione preziosa ed elegante si dipana la storia di due famiglie nella Toscana degli anni Cinquanta. Un romanzo corale per Marisa Cecchetti che si conferma attenta interprete dell’animo femminile.

La notizia del matrimonio improvviso di Livio sconvolge la vita di una famiglia di mezzadri, perché la sposa, Eva, porta un figlio già grandicello, Luciano, oggetto di allusioni maligne e di aperti rifiuti. Alla porta accanto abita la piccola Teresa, costretta a crescere anzitempo per badare il fratello malato. I capifamiglia sono abitudinari e testardi, incapaci di comunicare, la violenza è sempre in agguato; i gruppi familiari sono litigiosi e pieni di tensioni. Si scandiscono i tempi del lavoro e del sacrificio, ma ci sono momenti di grande bellezza e umanità su quell’aia e su quei campi che un giorno vengono abbandonati, perché gli stessi capifamiglia sono invecchiati e i giovani prendono altre strade.

Se il dolore è una costante, e la morte coglie spesso e a sorpresa, la vita finisce per imporsi sopra al dolore, e le tragedie aprono la strada a scelte coraggiose.

Deliziosa la scelta narrativa di inserire una seconda voce narrante che attraverso le pagine di un diario scritto oggi rivela di quei medesimi eventi una lettura intima e struggente.

Marisa Cecchetti è nata a San Giuliano Terme (Pisa) e vive a Lucca. Insegnante di Lettere, ha collaborato con Stilos, Erba d’Arno, Il Corriere d’Arezzo. Attualmente collabora con Atelier e con vari siti web come critico letterario. Tra le sue pubblicazioni in prosa: E cominciò a sognare a colori (Del Cerro 1998); La bici al cancello (Mauro Baroni 2002); Maschile femminile plurale (Giovane Holden 2012). Per la poesia: Il vuoto e le forme (Del Cerro 2000); È filo di seta (Del Cerro 2003); Straniero tu che non mi accogli l’anima (Del Cerro 2004); Schizzi d’eterno (Ed. d’arte Il ragazzo innocuo 2006); Cantieri (Del Cerro 2007); Tibidabo (Ed. d’arte Il ragazzo innocuo 2007); Nonostante la rosa (LietoColle 2009); Come di solo andata (Il Foglio 2013). Traduzioni: Barolong Seboni, Nell’aria inquieta del Kalahari, (LietoColle 2010). Junior: con Sara Landucci La storia di Ilaria del Carretto raccontata ai bambini (Del Bucchia 2010). Alcuni suoi racconti e poesie sono in raccolte antologiche.
LinguaItaliano
Data di uscita31 ott 2014
ISBN9788863965872
Il fossato

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    Anteprima del libro

    Il fossato - Marisa Cecchetti

    2004.

    I

    Non si sposa, ormai non si sposa più! dicevano nella corte e nel paese. Essere ancora scapolo a quarant’anni era un brutto segno. Il fatto è che lui non è capace di trovarsi una donna, dicevano.

    Livio era un omone alto e corpulento, dagli occhi rotondi e grandi pronti allo stupore come quelli di un bambino, dai gesti parsimoniosi e lenti, silenzioso e paziente come un bue. Assomigliava tutto a sua madre, la Rosa, che portava vestiti neri lunghi fino ai piedi e un fazzolettone annodato dietro la nuca e non si fermava mai dalla mattina alla sera.

    La Rosa non era più giovane, è vero che per le fatiche c’era anche la nuora, la Wanda, ma lei aveva due gemelle a cui star dietro. Considerato il marito della Wanda, quello scapolone di Livio e il vecchio Capoccia, c’era tanta gente da mettere a tavola, tanti panni da mettere in conca e da lavare al pozzo. Ma la Rosa non si lamentava mai.

    La cognata non se lo tiene in casa, mormorava la gente. Se chiudono gli occhi i vecchi, lui finisce in mezzo a una strada.

    Nella famiglia contadina un uomo non era abituato a sbrigare le cose pratiche di ogni giorno, i ruoli erano netti e definiti, dipendeva dalle femmine che gli preparavano da mangiare, gli facevano il letto e lo mandavano pulito. Erano donne che lavoravano tutto il giorno nei campi, poi posavano la zappa e andavano a preparare la cena, mentre gli uomini pulivano la stalla e governavano le bestie.

    Invece la Rosa stava in casa. Al mattino tirava su le lenzuola in fretta, passava la scopa di saggina sui vecchi pavimenti di mattoni e ci spruzzava sopra un po’ d’acqua tuffando le mani nel secchio. La polvere piano piano si posava e i mattoni rimanevano segnati di macchie scure. Accendeva i carboni nella buca del focolare, d’estate e d’inverno, e metteva a bollire la pentola dei fagioli, accendeva il fuoco nel camino grande che si apriva sulla parete come una bocca spalancata e attaccava il paiolo pieno d’acqua alla catena. Dalla stalla arrivava forte l’odore delle bestie e del letame rimosso. Poi Rosa riempiva di granturco il grembiule nero e andava sull’aia, prendeva un sasso e si inginocchiava a pestare i chicchi per pulcini e chiocce. Quando arrivavano a coda ritta pigolando, allora entrava nel pollaio per ripulirlo dalla pollina.

    Lei se lo teneva volentieri quel figlio così tranquillo. Non si accorgeva nemmeno che c’era, non si lamentava mai, gli andava bene tutto. E alla gente che le diceva che non sarebbe stata eterna accanto al figlio rispondeva non vi preoccupate.

    Il Capoccia parlava poco, si limitava a borbottare qualcosa sotto i baffoni mandando occhiate di tralice al figliolo. Almeno Renato ci aveva pensato in tempo a farsi la famiglia e aveva portato in casa la Wanda, piantata su un paio di cosce salde come tronchi d’olivo. Peccato che avesse messo al mondo quelle due bimbette, la Primetta e la Derna, che non servivano a portare avanti il nome di famiglia, sperava ci provassero ancora a cercare il maschio! Intanto guardava Livio con occhi indagatori che volevano chiedere quando ti decidi? Livio non la sapeva leggere quella domanda negli occhi di suo padre e tirava avanti, silenzioso, il sorriso mite stampato in faccia.

    Ma un giorno nella corte e nel vicinato corse voce che Livio si sposava. No, non si parlava di fidanzamento, quel rito lungo per cui lui doveva andare da lei in sere canoniche - martedì, giovedì e sabato - e stavano seduti sulla seggiola vicino al tavolo di cucina, sotto gli occhi degli anziani. No, lui si sposava subito e correvano domande che non trovavano risposta, chi è, com’è, dove l’ha trovata. Lavoravano già le malelingue che ripetevano che era contro le usanze, e prendere in casa una donna così su due piedi non stava bene. Ci doveva essere qualche mistero. Allo stesso tempo una donna sconosciuta, una giovane sposa che entrava nella comunità, stuzzicava la curiosità e la fantasia sulla camera da letto, la stanza che dava più materiale di chiacchiere e di storie per la sera a veglia. Ai maschi, che erano stati lasciati fuori da quella storia, non restò altro che bollire d’invidia.

    Livio glielo disse una mattina alla Rosa. Quella volta era l’inizio dell’estate. Lui sollevò la faccia dalla ciotola del latte, mamma mi sposo, disse, e la Rosa che stava soffiando sui carboni soffiò più forte, tanto che si sollevò la cenere e le andò in faccia. Non trovò subito la voce, mentre si strofinava gli occhi con le mani annerite ma poi disse così?, all’improvviso? E lui rispose sì e lei gli chiese quando e lui le disse subito, appena il tempo di comprare il letto e un armadio e preparare le carte. Ma le disse anche non dovete preoccuparvi di nulla e sarà una cosa semplicissima. Rosa voleva sapere qualcosa di più e le uscì fuori chi è?, la conosco? Livio rispose solo è una brava ragazza e tornò a chinare il viso sulla ciotola del latte.

    Anche Rosa tornò ai suoi carboni che quella mattina non volevano pigliar fuoco e pensava a quel figlio così particolare. Ora poteva accettare la propria vecchiaia perché lui non sarebbe stato solo. Tirò un sospiro di sollievo, soffiò con tutto il fiato che aveva e le faville sprizzarono alte, come in festa. In due si invecchia meglio, pensava la Rosa, anche se il suo Capoccia burbero le aveva fatto fare tanti pianti, accanto a lui si sentiva sicura. Finalmente, disse alle faville, e si asciugò il sudore con la manica del vestito nero.

    Nel silenzio che accompagnava i pensieri, porta un figlio con sé, disse Livio. Le parole che si alzarono decise e salirono insieme alle faville non potevano essere reali, erano suoni immaginati da una mente stanca. Erano il farneticare di una vecchia. Rosa sbarrò gli occhi e li piantò in quelli di lui. Un figlio di cinque anni, confermò Livio.

    Ora per asciugarsi la fronte si slegò il grembiule.

    II

    Alla Vigna abitavano due famiglie di mezzadri ognuna col suo bel podere, nella piana tra il Serchio e l’Arno. La casa colonica si allungava, tutta gialla, con due porte d’ingresso poco distanti tra loro. Un granaio si sollevava quasi al centro come una torre, da un lato si apriva il portico pieno di attrezzi agricoli e di carri, dall’altro la facciata si abbassava seguendo la linea di stalle, pollai e conigliere. Poco distanti le concimaie a cielo aperto fumavano un filo sottile di vapori.

    Le finestre erano piccole, occhi miopi allineati sulla facciata, gli stoini vi si srotolavano sopra dall’alto e un po’ ballavano quando arrivava il vento dal mare. L’aia rotonda di cemento si inarcava leggermente al centro, poi i canneti e un noce portavano alla rete di recinzione. Lì un cancello si apriva sui campi.

    Teresa bambina temeva gli spazi della sua casa, la rincuorava solo la cucina grande dove fin dal mattino anche la Nonna agitava il ventaglio davanti alla buca del focolare per tenere vivi i carboni sotto la pentola.

    Il camino era come quello della Rosa, ampio e profondo, e Teresa vi si arrampicava dentro, saliva sul vecchio sedile di pietra, i piedi che non le toccavano terra, e si incantava a guardare le faville che andavano a farsi inghiottire dalla cappa nera di fuliggine. Inutili le parole della Nonna, scendi di lì, Teresa, perché lei ascoltava gli schiocchi della legna o il pianto sottile del tronco umido che usciva fumando. E se faceva appena oscillare il paiolo, un po’ d’acqua schizzava fuori sfrigolando sul rame rovente poi si asciugava sulla fiamma. Scendi di lì, Teresa.

    Anche se una nuvola di fumo qualche volta usciva dalla cappa e si allargava in cucina, mescolandosi alla polvere sollevata dalla scopa di saggina della Nonna e lei si strofinava gli occhi in attesa di riprendere contatto con le cose, quello del camino era l’angolo dove c’era sempre luce.

    Invece una scala buia portava al primo piano dove quattro camere stavano in fila sul lungo ballatoio che si stringeva in un anfratto da cui partiva un’erta scala di legno issata verso il granaio. Un uomo tutto nero, tranne il luccicar dei denti, rovesciava periodicamente in quell’anfratto un sacco di carbone e allora si alzava una nuvola densa che ricadeva come un velo nero sulle regnatele e sulle pareti. Sul ballatoio brillava spesso la fiammella di un lumino di cera.

    Se la Nonna le chiedeva un po’ di carbone, ma svelta che la pentola perde bollore, Teresa prendeva il coraggio a due mani, si

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