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Il caso Pungilupo
Il caso Pungilupo
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E-book259 pagine3 ore

Il caso Pungilupo

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Info su questo ebook

Una vicenda storica, avvenuta a Ferrara nel 1269, dà l’avvio a una feroce disputa teologica, al tempo delle eresie catare che insanguinarono il Medioevo. Un legal thriller che si svolge tra Ferrara e Roma, sullo sfondo delle lotte politiche per l’ascesa al potere degli Estensi e degli aspri contrasti insorti fra gli ordini dei frati francescani e domenicani per la difesa della fede. Un’opera corale ricca di sorprese e di colpi di scena, avvenuta in un periodo storicamente intenso ma poco conosciuto, in cui l’eterno alternarsi della fortuna e della sfortuna non risulta poi molto diverso dalle nostre quotidiane storie personali, dalle quali si differenzia solo in ragione delle grandi ingiustizie e delle altrettanto vistose e favorevoli coincidenze che un destino beffardo ha deciso di avvicendare.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2019
ISBN9788835332404
Il caso Pungilupo

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    Anteprima del libro

    Il caso Pungilupo - Franco Mari

    DIGITALI

    Intro

    Una vicenda storica, avvenuta a Ferrara nel 1269, dà l’avvio a una feroce disputa teologica, al tempo delle eresie catare che insanguinarono il Medioevo. Un legal thriller che si svolge tra Ferrara e Roma, sullo sfondo delle lotte politiche per l’ascesa al potere degli Estensi e degli aspri contrasti insorti fra gli ordini dei frati francescani e domenicani per la difesa della fede. Un’opera corale ricca di sorprese e di colpi di scena, avvenuta in un periodo storicamente intenso ma poco conosciuto, in cui l’eterno alternarsi della fortuna e della sfortuna non risulta poi molto diverso dalle nostre quotidiane storie personali, dalle quali si differenzia solo in ragione delle grandi ingiustizie e delle altrettanto vistose e favorevoli coincidenze che un destino beffardo ha deciso di avvicendare.

    IL CASO PUNGILUPO

    Dai vincitori non si riesce mai a capire la verità degli eventi. Invece, molto spesso, è proprio dai rassegnati e dagli sconfitti che si riesce a comprendere come sono davvero andate le cose.

    1.

    Ite! Missa est! disse il celebrante, rivolgendosi verso i banchi vuoti della chiesa.

    Le sue parole lasciarono, nell’aria buia e gelata, una nuvola di vapore.

    La temperatura era così rigida che persino la fiamma delle due candele accese sull’altare sembrava tremare di freddo.

    Deo gratias! risposero in coro le suore mezzo nascoste dietro le fitte grate di ferro sulla parte sinistra della chiesa, là dove l’edificio si continuava, senza alcuna interruzione, con il convento di clausura.

    Il loro volto era stato concentrato per tutta la cerimonia non tanto sull’officiante quanto sulle parole latine che aveva pronunciato durante la messa.

    A vederlo, il celebrante sembrava poco più di un ragazzo. Di incarnato pallido, lineamenti delicati e collo sottile come un adolescente, dimostrava molto meno dei suoi venticinque anni e, se non fosse stato per la grande chierica che luccicava in cima alla testa, in mezzo ai suoi capelli castani, sarebbe stato più facile scambiarlo per un chierichetto.

    Ricompose metodicamente il calice e il fazzoletto inamidato poi si volse di nuovo verso i banchi completamente deserti della chiesa ancora avvolta dall’oscurità.

    Erano solamente le cinque del mattino e la luce non era ancora potuta entrare dalle finestre, piccole come feritoie, poste in alto subito sotto al tetto.

    Senza poter contare sull’aiuto di nessun assistente, il celebrante si diresse verso la vicina sacrestia dove potersi spogliare dei paramenti sacri.

    Non fece in tempo ad arrivare di fronte al grande armadio in legno che conteneva le stole e le pianete in dotazione alla chiesa che la sua attenzione fu catturata dalla scricchiolante apertura di una stretta finestra posta sul lato destro della camera.

    Si trattava di una piccola apertura nel muro, anch’essa munita di grata di ferro, che metteva in comunicazione la sacrestia e il vicino corridoio del convento di Sant’Antonio in Polesine.

    Frate Anselmo! Frate Anselmo! disse una voce femminile.

    Era madre Venanzia, la portinaia del convento, una delle poche ad avere la liberatoria dal voto del silenzio cui quasi tutte le consorelle erano tenute.

    Il Frate si avvicinò alla finestrella e quasi sottovoce chiese: Di che si tratta, sorella?

    La suora, ritraendosi per regola e abitudine dietro lo stipite della finestra, disse con un filo di voce: La reverenda madre Assunta, la nostra superiora, mi ha chiesto se potete trattenervi un attimo ancora perché vi deve parlare.

    Frate Anselmo rimase un poco contrariato da questo contrattempo. Alle sette e trenta aveva un’altra messa in cattedrale e sapeva di non avere molto tempo a disposizione per questo imprevisto.

    Ciò nonostante, non seppe rifiutarsi di concedere il proprio consenso a quanto gli veniva richiesto: Dite alla reverendissima madre Assunta che, fra pochi minuti, non appena mi sarò cambiato d’abito, sarò a sua disposizione.

    Il battente della finestra si richiuse e Frate Anselmo fu lasciato solo. Ripose ordinatamente, come era solito fare, i paramenti sacri appendendoli alle grucce, richiuse il calice d’argento dorato nel tabernacolo forzando un poco la vecchia serratura arrugginita e poi si sedette, con giovanile impazienza, su una panca di legno ad aspettare il colloquio che gli era stato chiesto.

    Non si accorse che la madre superiora era già arrivata e se ne stava da qualche minuto a osservarlo silenziosamente attraverso una fessura della finestrella.

    La suora rimase a lungo con i suoi occhi luminosi su quel giovane Frate francescano, fermandosi sui particolari del volto, delle mani, del povero saio cinto in vita da una corda e sui calzari di grezzo cuoio indossati senza calze.

    L’espressione del suo viso tradiva una partecipazione molto intensa e un fremito sottile animava le sue mani.

    Da circa due anni Frate Anselmo era stato comandato dal Vescovo di officiare, tre volte la settimana, la prima messa della giornata, quella riservata alle suore di clausura. Fin dal primo momento la madre superiora aveva avuto verso di lui un particolare interesse, facendo bene attenzione a non manifestarlo in alcun modo e cercando di mantenere i loro rapporti improntati sul più stretto rigore assegnato dalle rispettive parti.

    Ma nel buio del corridoio, protetta dalla spessa grata metallica, lasciava che i tremori e i palpiti affiorassero liberamente, sino a fare scaturire sul suo volto severo l’ombra di un sorriso.

    Era infatti molto raro vedere il viso di quella austera donna di quarantacinque anni tradire una qualunque emozione.

    Che si trattasse di una banale difficoltà o della morte per malattia di una consorella, non veniva mai meno al proprio comportamento neutro che, se non di indifferenza, dava comunque segno di costante controllo emotivo.

    Frate Anselmo, nella sua imperizia di vita e nella costrizione imposta dalle severe regole dei conventi di clausura, si era a malapena accorto della curiosità suscitata e di quella specie di simpatia che gli veniva riservata, arrivando a ricambiarla senza venir meno al doveroso rispetto verso l’età e l’autorità della madre superiora.

    Dopo aver atteso, non poco spazientito, il colloquio richiesto, finalmente vide aprirsi del tutto la copertura lignea e comparire il profilo mezzo nascosto dall’oscurità di una suora.

    Sia lodato Gesù Cristo, madre reverendissima!

    Sempre sia lodato! rispose di rimando la suora, continuando quasi immediatamente a parlare.

    Perdonatemi, Frate Anselmo, se vi trattengo ben oltre i vostri uffici ma è d’uopo organizzare per tempo le giornate penitenziali che ci aspettano per celebrare degnamente la santa Quaresima. Purtroppo il nostro abituale penitenziere, il prevosto Ulderico, è afflitto e sempre più invalidato dalle sofferenze della gotta e non sembra quest’anno capace di assolvere l’abituale compito. Ecco, pertanto che, dopo essermi consultata con le mie consorelle, avrei pensato di proporre il vostro nome a Sua Eccellenza il nostro Arcivescovo. Che ne dite?

    Frate Anselmo rimase molto sorpreso delle parole essenziali e dirette che la suora gli aveva rivolto.

    Di norma l’espressione di certi pensieri e la manifestazione dei desideri, seguivano sentieri più contorti e allusivi e qui gli veniva invece fatta una domanda brusca, a bruciapelo.

    Opposti pensieri cominciarono ad agitarsi dentro la sua testa. Da una parte si sentiva innegabilmente compiaciuto per la grande considerazione di cui veniva fatto oggetto, dall’altra non riusciva a nascondersi quanto pericoloso e imbarazzante sarebbe stato partecipare di questo privilegio di fronte ai molti confratelli e ai tanti religiosi molto più anziani e, probabilmente, molto più meritevoli di lui.

    Nonostante la sua giovane età, da quando aveva preso i voti cinque anni prima, aveva avuto modo di rendersi conto molto velocemente di quante insidie nascoste si proponessero alla sua attenzione, proprio all’interno dei ministeri che era tenuto a celebrare.

    Come sua consuetudine, si prese qualche attimo di tempo prima di rispondere ma quella pausa non fu così generosa da permettergli una buona risposta.

    Si rischiarì la gola e poi cominciò a balbettare: Ecco, reverenda madre, io non so proprio che cosa dire… La vostra proposta non può che compiacere il mio orgoglio personale… del resto non posso neppure misconoscere il grado di perizia assai scarsa con cui mi vedo chiamato ad amministrare il sacramento della penitenza. In effetti, vi confesso che proprio la scarsa propensione personale e l’ancor minore consuetudine con il mondo secolare hanno determinato in me un timore crescente ogni volta che sono stato chiamato ad ascoltare e giudicare i penitenti. Non ritengo, almeno per il momento, di essere la persona avveduta e provvista della dovuta esperienza circa le cose terrene che è necessaria per ricoprire degnamente questo incarico. Pur essendo tenuto, fra le altre cose, al voto dell’obbedienza, personalmente ritengo che vi siano altri miei confratelli molto più esperti e confacenti alle vostre necessità. Ritengo pertanto più saggio non prendere decisioni affrettate. Penso che voi dobbiate consultarvi anche con Sua Eccellenza l’Arcivescovo Pandoni e con padre Donato, il nostro priore.

    Poi, approfittando della replica che tardava a venire, si attaccò con la mano alla grata della finestra e aggiunse: Ecco, se la reverenda madre non ha altro da dirmi, io dovrei congedarmi perché atteso fra poco ad altro ufficio in cattedrale…

    La voce della suora lo interruppe: Sono la madre superiora di questo convento di clausura dal 1262, dopo la morte della santa madre Beatrice e dopo l’investitura di Sua Eccellenza l’Arcivescovo Pandoni. Sono quasi sette anni! Con l’aiuto della santa Provvidenza e della nostra illuminata fondatrice, ho provveduto in tanti anni a conferire ogni genere di incarichi e di incombenze. Spesso la naturale modestia o il comprensibile timore hanno prodotto, nelle persone da me incaricate, più di una riserva quando non addirittura il tentativo di un rifiuto. Mai, comunque, sono dovuta tornare sulle mie decisioni! Il Cielo non carica mai nessuno dei suoi figli di impegni e responsabilità, senza dar loro poi la necessaria forza per sopportarli. Capisco il significato delle vostre parole e il senso di modestia ad esse legato ma insisto nel formularvi la mia proposta, sottolineando che essa non è figlia dell’imprudenza ma di lunga riflessione. Nei cinque anni in cui avete frequentato il nostro convento non è mai mancata la nostra discreta osservazione sul vostro comportamento e sulle vostre parole. Neppure quando siete uscito da queste mura la nostra attenzione è venuta meno. La santa Chiesa possiede persone attente e scrupolose dappertutto e le referenze raccolte circa la vostra persona sono tutte unanimi nel decretarvi come certamente meritevole di tale onore.

    Frate Anselmo rimase quasi interdetto dalle parole dure e perentorie con cui la madre superiora esercitava su di lui il proprio potere disciplinare. Mentre cercava di organizzare una replica con le scarse forze che gli rimanevano, con un misto di incredulità e di sorpresa, sentì la mano della suora che scorreva, come una carezza, sulle dita della sua mano stretta attorno all’inferriata della finestra.

    Prima ancora di riuscire a dare un significato a quel gesto, il tocco inatteso sulle sue dita gli fece immediatamente ritrarre la mano, come se si fosse scottato con il lume di una candela.

    Quello che, in altre circostanze e, soprattutto, fuori da un convento di suore di clausura, sarebbe stato un gesto banale e abitudinario, in quelle diverse condizioni assumeva un carattere del tutto sconcertante.

    La madre superiora non poteva ignorare le rigide regole che imponevano alle suore, salvo dispense eccezionali, l’assoluta astensione di qualsiasi tipo di rapporto sia fisico che verbale con le persone all’esterno del convento. Persino all’interno di quelle mura i rapporti erano regolati al minimo indispensabile e comunque sempre improntati alla regola del silenzio. Le poche deroghe alla regola non avrebbero poi comunque permesso, nemmeno alla madre superiora, comportamenti di tal genere.

    Turbato da quel gesto inatteso, senza intrufolare ulteriormente il suo sguardo sull’immagine della suora al di là della grata, Frate Anselmo si allontanò di qualche passo dalla finestrella e ne approfittò per dire: Io, reverenda madre, adesso sono proprio costretto ad andare. Spero che voi e i miei superiori teniate nel debito conto le perplessità che turbano il mio animo. Mi dichiaro comunque sempre disposto all’obbedienza. Sia lodato Gesù Cristo!

    Sempre sia lodato! disse la voce della donna poco prima di richiudere l’anta della finestra.

    Frate Anselmo, continuando a far finta di nulla, se ne uscì di tutta fretta dalla chiesa, rischiando persino di cadere dopo essere buffamente inciampato in uno degli scalini del sagrato.

    La sua sembrava più una fuga che non il cammino affrettato di chi ha poco tempo da perdere.

    Mentre i suoi passi si susseguivano velocemente lungo la strada di periferia, non foss’altro per il tentativo di restituire un po’ di calore al suo corpo infreddolito dalla protratta immobilità davanti all’altare, la sua mente continuava a ripensare a quello che era appena accaduto. Il tocco di quella mano non era certamente stato casuale o fortuito. A ripensarci, era chiaro che, per toccargli le dita, la suora aveva dovuto alzare ed estendere tutto il braccio. E poi il tocco non era stato un gesto rapido ma un atto prolungato, almeno finché lui non aveva retratto la mano… No, no, ne conveniva, quello era stato certamente un gesto voluto e premeditato.

    Si guardò più volte le dita della mano destra come se quell’incidente avesse potuto davvero averle alterate e rimase quasi deluso nel trovarle del tutto uguali a prima. Ma il bruciore che sentiva dentro di esse, quello continuava percepirlo ancora molto bene.

    Ebbe paura di quel bruciore perché, per la prima volta nella sua vita, si trovò ad avere paura di sé stesso. Sentiva che quel gesto scandaloso, alla fin fine, non gli era del tutto spiaciuto e che il ricordo che ne conservava non lo atterriva come si sarebbe aspettato.

    Mentre guadagnava a lunghi passi il centro della città, si chiese più volte se avesse dovuto farne cenno ai suoi superiori e se, quel sentimento contrastante che provava dentro, poteva assumere la dignità di un peccato e pertanto essere meritevole di penitenza confessionale.

    Ogni passo stimolava senza sosta il successivo senza che la sua mente riuscisse a dare un significato definitivo a quanto era successo.

    La madre superiora era persona di grande evidenza e tenuta in gran conto da tutta la Chiesa ferrarese e anche solo il gesto di esporre il suo nome al sospetto di un comportamento improprio, pur se non peccaminoso, sarebbe stato oltremodo pericoloso per chiunque.

    L’eco mattutina dei suoi passi richiamava alla memoria le parole scambiate con la badessa e non gli consentiva nessuna possibilità di oblio.

    Per tutto il suo cammino di ritorno, strani moniti sembrarono cadergli continuamente addosso dai tetti degli alti palazzi e dalle torri cittadine.

    2.

    Le strade erano deserte perché la gente, per ripararsi dal freddo intenso di quell’inverno, era costretta a stare intere giornate a letto. Solamente chi doveva accudire le stalle e gli ovili si faceva forza ad alzarsi per il governo degli animali.

    Persino i commercianti in città avevano preferito non aprire bottega al pensiero di quanti pochi viandanti sarebbero transitati per le strade rese impraticabili dalla neve.

    Nella piazza davanti alla cattedrale il freddo faceva piegare la schiena dei pochi passanti che a quell’ora del mattino si erano costretti a uscire di casa.

    Le loro schiene, battute dal vento gelido, erano ricurve come se stessero proteggendo o nascondendo qualcosa in grembo.

    La campagna circostante la città di Ferrara sembrava immensa, senza rumori: dopo la tempesta di neve della notte precedente, sembrava che il freddo avesse reso tutti sordi.

    Anselmo, per abbreviare il percorso, decise di entrare nella cattedrale attraverso il portico posto di lato alla navata di destra. Ma la neve quella notte era andata ad ammucchiarsi anche negli angoli del portico e lo costrinse ad attraversare in più punti il cortile.

    Sentì i calzari che affondavano nella neve che ricadeva sul dorso dei suoi piedi nudi e ormai insensibili.

    Nonostante avesse pensato di essere in ritardo, si accorse invece che era arrivato con largo anticipo sull’orario in cui avrebbe dovuto dir messa e ne approfittò per isolarsi nella cappella dedicata a San Maurelio. I raggi del sole penetravano attraverso le alte vetrate e strappavano bagliori accecanti dai candelabri e dai paramenti dorati degli altari.

    Si inginocchiò e cominciò a pregare con fervore. Ma, dopo pochi minuti, i pensieri momentaneamente accantonati si fecero di nuovo prepotenti e ricominciarono ad assediarlo. Persino la fiamma delle candele sull’altare sembrava tremare e torcersi nel dubbio di che cosa fosse più giusto

    fare.

    Come tutte le mattine, cominciò a recitare una preghiera interiore con cui era solito innalzare al Signore la lode per i doni e le meraviglie di cui gratificava gli uomini. Dopo quella specie di stato di grazia necessario alla sua contemplazione, ne usciva di solito rinfrancato, rassicurato dalla continua ripetizione dell’ordine creato da Dio. Ma quel mattino le cose sembravano non avere nessuna voglia di disporsi in quel modo.

    Nella sua vita spirituale, fino ad allora, gli erano stati risparmiati i momenti del dubbio, quelli in cui l’improvvisa mancanza delle forze consegna le persone insicure nelle mani affettuose di Satana. I precetti ricevuti gli avevano sempre impedito di lasciarsi sopraffare da una buona parte dei desideri dell’umana condizione ma in quel momento il turbamento interiore suscitato dalla carezza della madre superiora e quella specie di lotta inaspettata fra opposti sentimenti non lasciavano indifferente la sua anima.

    Un ciabattare di sandali sui marmi intarsiati del pavimento della cattedrale attirò la sua attenzione.

    Era don Agilulfo, uno dei maestri di cappella del capitolo del duomo. Un omone grande e grosso come un orso che, con il suo caracollare caratteristico, si faceva sempre riconoscere anche quando c’era poca luce. Anselmo vide che si dirigeva proprio verso di lui. Si segnò velocemente il capo e il petto con il segno della croce e si alzò dall’inginocchiatoio, quasi contento di quell’imprevisto salvifico che lo avrebbe, almeno per un po’, tenuto lontano dalle sue confusioni.

    Anselmo, Sua Eccellenza l’Arcivescovo ci ha radunati tutti questa mattina alle dieci nella sala delle udienze. Gli altri confratelli sono già stati avvertiti. Subito dopo aver detto messa, affrettati anche tu nel raggiungerci!

    Anselmo, che ancora non aveva digerito la sorpresa di poco tempo prima, chiese visibilmente sorpreso e incuriosito: Ma di che cosa si tratta? È strano imparare così, all’improvviso, di una convocazione plenaria e senza una motivazione esplicita. Siamo forse di nuovo in guerra con l’imperatore o con i veneziani?

    No, non credo che sia per motivi politici o bellici. Forse è arrivata qualche missiva da Roma. O forse no. Insomma nessuno di noi sa niente! Mi raccomando! Ti aspettiamo!

    Come se non fosse bastato quello che aveva dovuto momentaneamente depositare in un angolo della mente, anche questo nuovo evento inaspettato si prese con prepotenza la sua parte di spazio e Anselmo celebrò la messa distrattamente, sbagliando in più punti il rituale e affrettandosi verso una rapida conclusione. L’unico conforto del momento fu rappresentato dalla scarsa partecipazione delle poche pie donne intirizzite sui banchi della chiesa che, pure loro, non vedevano l’ora di potersi rialzare e guadagnare di nuovo la vicinanza del focolare domestico.

    Dopo aver compiuto, per la seconda volta in quel mattino, i consueti gesti di fine messa in sagrestia, Anselmo congedò i due chierichetti e si incamminò, con i piedi e i sandali ancora bagnati dalla neve, verso il vicino arcivescovado.

    Questo era un grande palazzo adiacente al duomo e ad esso collegato da un lungo portico colonnato che dava su un ampio spazio interno. Le piante del giardino, prostrate sotto il peso della neve, sembrava non fossero mai esistite, altezzose e lucide di verde sotto il sole, appena poche settimane prima.

    Man mano che si avvicinava alla sala delle udienze, Anselmo cominciò a percepire un brusio crescente che arrivò presto a configurare una vera e propria esplosione di parole sgangherate. Voci rimescolate con gli echi provenienti dai corridoi dell’arcivescovado non gli consentirono di capire nulla di quello che stava succedendo se non che c’era dappertutto una gran confusione.

    Anselmo accelerò ancora di più il passo ed entrò nella grande sala. Tutti i frati e i religiosi del capitolo del duomo stavano animatamente discutendo sui fatti recentemente accaduti sull’altare eretto poche settimane prima ad Armanno Pungilupo, un Sant’uomo deceduto a Ravenna e di là traslato in più degna sistemazione nella sua Ferrara.

    Alcuni prelati manifestavano apertamente la propria convinzione circa la santità del Pungilupo, altri ne mettevano in dubbio la probità. Altri ancora si facevano molte domande circa l’opportunità di utilizzare l’evento a fini di proselitismo religioso.

    L’arrivo atteso di Sua Eccellenza l’Arcivescovo Pandoni ebbe almeno l’effetto calmierante e pacificatore che la circostanza richiedeva. Pandoni era Arcivescovo della città dal 1257

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