Sangue, lacrime e pentimento. Storia di un assassino
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Anteprima del libro
Sangue, lacrime e pentimento. Storia di un assassino - Mariangela Castagna
assassino
PARTE PRIMA: PREFAZIONE
Favelloni Settembre 1314, abbazia di san Norberto.
Pallidi raggi di sole velavano la splendida abbazia di San Norberto. La sontuosa costruzione sovrastava il piccolo villaggio di Favelloni, situato nell’entroterra vibonese. La vita all’interno del complesso religioso scorreva lieta e serena, come avveniva ormai da molti decenni. L’abate Teodoro, uomo di grande spirito e profonda istruzione, governava un piccolo gruppo di dieci monaci, i quali si accingevano ad iniziare la loro giornata di preghiera nel più assoluto silenzio. Il percorso che dalle celle portava alla Chiesa, monumentale simbolo dell’importanza divina all’interno del monastero, si snodava attraverso le colonne e i pilastri di un magnifico chiostro, la cui struttura si rifaceva all’atrium delle ville romane. Sul chiostro si affacciavano anche il capitolo e il refettorio. L’alba, come ogni singolo giorno, segnava l’inizio di una lunga giornata fatta di preghiera e meditazione cui si alternavano lo studio e il lavoro. L’abbazia di San Norberto, con i suoi appena tredici monaci, era tra le più piccole, ma questo permetteva all’abate di seguire con maggior attenzione i suoi discepoli. Ognuno di questi svolgeva precise mansioni che permettevano alla comunità religiosa di procedere senza intoppi. Un certo frate Faustino svolgeva il compito di priore, sostituendo l’abate in sua assenza. Si trattava di un uomo mite e sempre attento, come l’abate Teodoro, ad ascoltare i bisogni dei suoi confratelli. Nonostante l’avanzata età continuava a ricoprire con costanza il suo incarico, il secondo in ordine di responsabilità. Proveniva da una nobile famiglia con la quale aveva dovuto scontrarsi duramente a causa della sua vocazione. Essendo l’unico figlio maschio di un facoltoso conte, avrebbe dovuto portare avanti la stirpe, per questo la sua decisione aveva scatenato l’ira del padre, che per molti anni non rivolse la parola al povero Faustino. Frate Camillo era invece il cantore dell’abbazia. Grande esperto di musica, conduceva i canti religiosi durante la Santa messa. Si trattava di un ossuto ometto sulla cinquantina, dallo sguardo vispo e sempre sorridente. Al contrario del priore, non poteva certo vantare nobili origini. Era il figlio di un boscaiolo e inizialmente la sua entrata in convento era stata vista come un pretesto per poter coltivare un sogno che altrimenti non avrebbe mai potuto realizzare, date le sue modestissime capacità economiche. Vero o falso che fosse, Frate Camillo era comunque un brav’uomo e dava il suo contributo alla piccola comunità di monaci. Il ruolo di portinaio era ricoperto da frate Terenzio, forse il meno adatto a rivestirlo. Si trattava di un uomo cupo e di poche parole. La sua era stata una triste storia. Era entrato in convento a quarant’ anni dopo che la peste nera aveva distrutto la sua famiglia e da quel momento si era dedicato completamente a Dio. Di anni ormai ne erano passati più di venti, ma quell’aria di tristezza, dovuta al suo passato, non lo aveva mai abbandonato. Pur tuttavia si trattava di un uomo particolarmente buono e generoso. Forse la storia meno felice era quella del sagrestano, Fulgenzio. Era un uomo segnato dalla vita, aveva trent’ anni, ma i mali che lo avevano colto all’esterno dell’abbazia gliene avevano caricati altri trenta sulle spalle. Basso, tarchiato e senza lingua. Sì, senza lingua. Dei banditi gliela avevano recisa con un coltello durante un assalto alla carrozza del suo signore. Fulgenzio infatti, prima di entrare in convento, era il fedele servo di un barone locale, deputato soprattutto alla tutela della sua persona. Durante quell’assalto maledetto il suo padrone perse la vita e così il poveretto si ritrovò da solo, storpio e senza un soldo. Venne perciò raccomandato da alcuni paesani all’abate il quale lo aveva assunto per provvedere alla chiesa e ai paramenti sacri. Fulgenzio però non aveva preso i voti, era un semplice laico al servizio dell’abbazia e svolgeva con accortezza e devozione il proprio incarico. Frate Martino era il cellerario. Si trattava di uomo che faceva del suo compito una ragion d’essere e questo lo si percepiva immediatamente dal suo aspetto. Di statura media e di corporatura enorme, grande amante del buon cibo, non si limitava solo a prepararlo e a goderne ma ne abusava con estremo piacere. Era divenuto talmente pesante che ormai faticava a spostarsi e si trascinava così da un angolo all’altro della cucina. Più volte il medico, don Anselmo, lo aveva ammonito circa le terribili conseguenze della sua pessima dieta, ma Martino, grasso e felice, continuava imperterrito il suo stile di vita, senza alcun pensiero. Di anni ne aveva poco più di quaranta, ma il suo comportamento probabilmente non gli avrebbe permesso di raggiungere i cinquanta. Curava il refettorio frate Tommaso, un uomo esile e ligio al dovere. Puliva il lavandino e le posate, si occupava degli arredi e dell’acqua calda e il tutto con grande abilità. Era tra i frati più operosi dell’abbazia e non dimostrava affatto i suoi sessantadue anni. La cura quasi maniacale e lo zelo che impiegava nell’organizzare ogni minimo dettaglio potevano a volte renderlo antipatico, ma era in realtà una persona gentile e di buon cuore. Era in monastero ormai da così tanto tempo da aver quasi dimenticato il mondo esterno. La sua, come quella di molti uomini e donne dell’epoca, non era stata una vocazione, ma un ordine. Figlio secondogenito di un ricco mercante modenese, aveva intrapreso la vita monastica a causa di un voto che il padre aveva fatto per salvare il primogenito colpito da tisi. Il fratello di Tommaso era guarito e lui era finito in convento. Inizialmente la sua vita lì non fu semplice, ma col tempo aveva iniziato persino ad amare quel posto. Non che ne fosse mai